di Gustavo Guasconi
Tratto da “Fronte russo: c’ero anch’io” a cura di Giulio Bedeschi, ed. Mursia, Milano 1983 |
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Gustavo Guasconi era il sottotenente della 101a batteria contraerei del 120° reggimento artiglieria motorizzato. In questa sua testimonianza, breve ma intensa, ci mette di fronte ad una profonda riflessione: “cosa” è un vinto e “cosa” un vincitore? È un soldato che, di fronte al prigioniero, si fa “uomo”, “amico”, “fratello”; l’ “uomo” incontra l’ “uomo” mostrandoci la sua spontanea attitudine a superare ogni barriera di pregiudizio sul “nemico” ed approdare verso un genuino gesto di sincera e grande solidarietà. I soldati sono immersi nel duro “gioco” della guerra che mette i “nemici” a confronto, che li pone l’uno di fronte all’altro e l’uno contro l’altro. La natura benevola del soldato italiano sa però come oltrepassare quelle regole crudeli. Di fronte alla sofferenza dell’altro capisce che, infondo, il “nemico”, ormai prigioniero e disarmato, non è altro che lo specchio delle sue stesse sofferenze fatte di fame, di freddo e di costrizioni. Così, il fuoco è la “madre” che riscalda, il luogo dove incontrarsi; il momento del rancio un’occasione per condividere le stesse sofferenze, placare le comuni necessità e rirovarsi uomini tra gli uomini figli di uno stesso mondo e vittime di una stessa condizione. Il sottotenente Guasconi ci rende partecipi del “[…] quadro […] suggestivo” che si crea sotto i suoi occhi. Uno tra gli episodi più belli di quella che è stata l’assurdità della guerra al fronte russo, che ci lascia un messaggio di speranza e di sentita umanità che riempie il cuore per la sua spontaneità che unisce in un abbraccio di sincerità commovente. |
A fine giugno 1941, rimpatriati dall’Albania, giungemmo a Bari. Un sottotenente ci attendeva: “101° batteria?”. Alla mia risposta positiva, mi consegnò una busta arancione: “batteria mobilitata destinazione est”.
Sollecito sbarco degli automezzi, e quindi all’improvvisato casermone del Policlinico di Bari, ancora privo di porte e finestre, ma non di tonnellate di paglia a terra.
Al 12 di luglio partenza da Bari con destinazione Verona e da qui a Lugagnano. Qui giunti veniamo a conoscenza di essere stati assegnanti alla 3° divisione Celere. Il giorno 18, in seguito ad un ordine della sussistenza di Verona, versiamo tutti gli indumenti di lana che ci erano stati distribuiti (tardivamente) in Albania. Versamento degli indumenti di lana ci portò a questo logico ragionamento: “Non siamo destinati a trascorrere l’inverno in Russia”.
Al 24, dalla stazione di Verona, la partenza per la Russia.
Il nostro lungo viaggio ebbe termine a Maramaros. Da qui, su autocarri, immediata partenza per la Bessarabia. Successivamente, da Suchava, in mezzo ad una selva di girasoli raggiungemmo Sokoki sulla riva destra del Nistro. Dall’alto di una piccola collina di questa località, potemmo già scorgere quell’immenso oceano di terra ucraina, che il giorno dopo raggiungemmo attraverso il ponte di Jambo. Da qui, sempre più o meno duramente contrastati si giunse sulla riva destra del Nipro, mentre le truppe tedesche stavano sostenendo la durissima battaglia di Dniepropetrowsk, che poi noi raggiungemmo ai primi di ottobre, un ottobre già freddissimo e minaccioso.
Il Nipro, in conseguenza della diga a monte fatta saltare dai russi in ritirata, era paurosamente gonfio. Nell’attesa di passare sulla riva sinistra, avevo fermato la batteria a non più di 20 metri dal fiume, dal grandissimo ponte di ferro, che i russi avevano fatto saltare. Intorno a noi gli edifici erano più o meno distrutti. Una trentina di prigionieri russi (tanto mal ridotti) sorvegliati da quattro soldati tedeschi, stavano rimuovendo, faticosamente, i rottami di ferro del ponte. Un vento gelido ci taglia la pelle del viso. Noi, i quattro tedeschi, con i prigionieri russi, siamo allo scoperto.
Circa le ore 11, il freddo è ancora più intenso, la temperatura si è abbassata di molti gradi, e a questa si è aggiunta un abbondante nevischio. Poco dopo le 11, il magazziniere Caricchia insieme col cuoco Franceschini, e altri soldati, mi avvicinarono: “Signor tenente si sta morendo di freddo. Signor tenente qui è tutto distrutto, qui è tutto un ammasso di porte, finestre e mobili di casa, ci autorizza ad accendere un grosso falò per scaldarci e nel contempo confezionare un rancio caldo?”. La loro iniziativa collimava perfettamente con la mia e con altri quattro ufficiali, e pertanto ebbero la mia incondizionata approvazione. Venne acceso un grosso falò, dall’autocarro 3RO, distante appena pochi metri dal falò, insieme ad un collega seduto al mio fianco, stiamo osservando, con interesse e compiacimento, quello che sta avvenendo intorno al falò. È un quadro veramente bello e suggestivo. A un dato momento sei dei nostri soldati ci avvicinano: “Signor tenente, quei poveri prigionieri russi stanno morendo dal freddo e dalla fame, vorremmo che si unissero a noi, ce lo consente?”. Lo confesso: l’umana richiesta dei miei soldati mi commosse, e naturalmente ebbero tutta la mia approvazione. Corsero così verso i prigionieri russi, e con amichevoli incoraggiamenti e sorrisi li condussero al falò.
A questo punto scendemmo dall’autocarro, e sorridendo andammo ad unirci ai prigionieri russi, che immediatamente compresero di avere d’avanti a loro due ufficiali italiani. Dal nostro sorridere, dal nostro amichevole atteggiamento, compresero tutto, e a loro volta sorridenti ci dissero “Spassiva, spassiva bolshoi, italianiski soldat dobre, dobre”. Sembrava che tutto fosse finito qui, ma non fu così. Il rancio del soldato italiano fu distribuito tanto ai quattro tedeschi, come a tutti i prigionieri russi. Ancora spassiva, spassiva, e dagli occhi di alcuni di essi scesero delle lacrime. Il quel momento non vi furono nemici, e né vinti e vincitori, ma solo uomini che si erano ritrovati al di sopra di tutto e di tutti. Ecco cosa anche seppe essere il soldato italiano in Russia.
Gustavo Guasconi, Tenente 101° Batteria, 120° Reggimento Artiglieria Motorizzato