Tratto da “Prigionia: c’ero anch’io”, a cura di Giulio Bedeschi, ed. Mursia, Milano 1990
Lo scritto che segue è il resoconto di un certo numero di ufficiali italiani, ex prigionieri che, al loro rientro, stilano una sorta di «manifesto della memoria» raccontando delle condizioni e dei trattamenti che dovettero subire nel lungo periodo della prigionia. Un resoconto duro, granitico, verso il regime comunista dell’epoca ma anche verso l’ideologia «tout court». Si evince come le contraddizioni politiche fossero ancora piuttosto radicate ed in via di svolgimento, la guerra, la prigionia, le drammatiche condizioni di vita non hanno spento gli animi ma al contrario, nella maggior parte degli ufficiali, hanno inasprito le contrapposizioni. Oltre alle dure condizioni di vita da dover sopportare, nei campi di smistamento prima e nei campi di prigionia poi (lager, gulag o campi di concentramento che fossero), i soldati e gli ufficiali dovettero subire le angherie della rieducazione politica (da quella «fascista» a quella «comunista»). Un tentativo che raramente ebbe i risultati sperati e che molto spesso sortì l’esatto effetto contrario. Questo documento è un ennesimo atto di accusa verso il regime comunista e verso il carceriere il quale, limitando la libertà e i diritti dell’uomo, diventa l’emblema della “politica” che sta dall’altra parte, l’avversario, il nemico al quale, la condizione di prigionieri li ha costretti a soggiacere.
Di Giuseppe Bassi
Questa è una relazione a stesura collettiva, abbozzata da un gruppo di ufficiali italiani dell’A.R.M.I.R. durante il lungo viaggio di rientro dalla prigionia in territorio russo verso l’Italia (arrivo a Tarvisio il 7 luglio 1946).Tale descrizione della vita vissuta in prigionia, con le relative considerazioni, ha avuto una stesura definitiva alla fine d’agosto 1946, con la collaborazione e l’approvazione dei 50 ufficiali ulteriormente rimpatriati, fino allora trattenuti a Suzdal e a Maramaros-Sighet. E’ stata perciò approvata dalla quasi totalità degli ufficiali rientrati e reperibili, e con la astensione di un ristretto numero, causata da chiare motivazioni.Trovandoci noi in presenza di ogni genere di affermazioni fuorvianti, diffuse dalla stampa per fini che quasi sempre hanno poco o nulla a che fare con la verità e la realtà dei fatti, si e sentito il dovere di asserire la «nostra» verità di ufficiali sopravvissuti in qualità di testimoni diretti, nella costante memoria di tanti soldati caduti e scomparsi nel servire l’Italia; verso i loro parenti che hanno atteso e attendono; verso quanti hanno il diritto di sapere; verso l’idea stessa e il concetto morale di «verità», oggi così sfrontatamente ostacolata e conculcata.E’ un dovere che noi tutti sentiamo, al di sopra di ogni diversità delle nostre pur cosi varie opinioni politiche e filosofiche, e del nostro credo religioso.Agosto 1946.
Degli oltre 7000 ufficiali italiani caduti in prigionia sovietica, meno di 700 sono i sopravvissuti, circa 650 i rimpatriati, meno di 30 quelli che ancora si trovano in mani sovietiche. Degli ufficiali del vecchio CSIR caduti prigionieri nel primo anno di guerra, 4 soltanto sono i superstiti. E tutti essi possono raccontare singolari ed inaudite storie di lunghi e minacciosi interrogatori diretti a conoscere notizie politiche e militari; di ogni sorta di sistemi intimidatori e vessatori; di vere e simulate esecuzioni; di lunghe permanenze nelle tristemente celebri carceri della Lubianka e della Butilskaja, in condizioni alimentari ed ambientali tali da ridurre l’individuo ben presto sull’orlo della tomba. L’ufficiale prigioniero veniva considerato, nel primo anno di guerra, né più né meno come un reo politico.
Una trentina sono i sopravvissuti fra gli ufficiali caduti prigionieri nell’estate del 1942. I restanti dei superstiti, caddero in prigionieri nel dicembre 1942 e nel gennaio 1943, in occasione dell’offensiva russa che portò all’accerchiamento delle armate dell’Asse schierate sul Don. La storia dei prigionieri del Don e una sola per tutti. Esausti dalla lunga e faticosa ritirata, condotta in condizioni climatiche avverse nel lungo inverno russo, lungi dal trovare presso i reparti dai quali venivano catturati, comprensione e conforto materiale, essi furono esposti al più inumano dei trattamenti. Depredati di tutto con sadica gioia (dagli oggetti preziosi, fino agli occhiali, al fazzoletto, alle foto delle persone care) quelli che scamparono alla immediata fucilazione al momento della cattura (quanti furono trucidati unicamente perché portavano i gradi di ufficiali e quanti soltanto per essersi chinati a raccogliere una foto strappata e gettata via con disprezzo! ) privati degli effetti di corredo più idonei a proteggere dal freddo intenso, essi venivano ordinati in interminabili colonne che si allungavano tragicamente, lente, nella steppa bianca, durante giornate, durante settimane, spesso oltre la durata di un mese. Sovente le colonne venivano arrestate in aperta steppa ventosa e deserta, e bisognava spogliarsi al solo scopo di una ulteriore depredazione. Nessuna pietà per chi, privato delle scarpe, avrebbe dovuto continuare la marcia coi piedi avvolti in qualche straccio andando incontro al sicuro congelamento, o per chi, già depredato del pastrano, privato della giacca, rimaneva con la sola camicia alla temperatura di 25-30 gradi sottozero. Di notte, luride stalle senza imposte erano il ricovero insufficiente di quei poveri relitti umani, costretti per intere settimane a dormire accovacciati l’uno contro 1’altro per mancanza dello spazio necessario a sdraiarsi. E quando la stalla c’era, era una fortuna. Perché tante furono le volte in cui il bisognò dormire sul pavimento gelido d’una chiesa sfinestrata o sotto una semplice tettoia. E neve, neve, neve. Per intere settimane, non un tozzo di pane. Persino le brave donne ucraine ben disposte verso gli italiani che avevano imparato a conoscere, venivano spesso cacciate via in malo modo, quando si avvicinavano ad offrire un tozzo di pane o un po’ d’acqua. Il personale di scorta era stato imbestialito dalla propaganda. E lo stato di esaurimento cresceva inesorabilmente. I feriti, i congelati, gli esausti, sempre più di frequente si abbandonavano su un ciglio nevoso del pesante cammino. E l’unico conforto che ricevevano era la raffica liberatrice di un mitra (1). Man mano che si procedeva verso i primi campi di raccolta (lontani centinaia di chilometri dal fronte) diventavano più frequenti quei corpi cerei, nudi, stecchiti, che dal ciglio fissavano con occhi vitreo il cielo. E più nessuno vi faceva caso. Si possono contare sulle dita di una sola mano coloro i quali, tra i superstiti, non sono venuti a contatto di tali tragiche scene. Fu questa la prima colossale falcidia. Ma ben presto seguirono le altre, quelle dei campi di smistamento: Krinowaja, Tambow, Miciurinsk.
Dove i sovietici superarono se stessi fu nel campo di Krinovaja. Furono buttati l’un sull’altro sani ed ammalati, ridotti ormai tutti larve di uomini, carichi di pidocchi, nei locali destinati ai quadrupedi di una grande caserma, in 27 nel box destinato ad un solo cavallo, senza paglia, senza luce, senza vetri alle finestre per fortuna scarsissime, senza alcuna possibilità di lavarsi, senza un locale destinato alla soddisfazione dei bisogni corporali, senza altra possibilità di attingere acqua che ad un pozzo, nel quale si trovavano i cadaveri di diversi militari ungheresi.
Languivano ed agonizzavano nel campo alcune decine di migliaia di uomini di diverse nazionalità.
Il vitto per gli ufficiali, consisteva giornalmente in un centinaio di grammi di pane di segala a forte coefficiente di umidità e pieno di scorie, ed in due gavettini con sì e no qualche buccia di patata; e, per i soldati, della stessa razione, distribuita ogni 4 o 5 giorni. Ben pochi ne uscirono vivi. In poco più di 30 giorni tra febbraio e marzo morirono in quel campo circa 27.000 uomini. La fame e la psicosi da essa determinata erano tali che negli ultimi tempi si ebbero a riscontrare tra i soldati diversi casi di antropofagia al giorno. Inutile parlare dell’assenza assoluta di ogni trattamento sanitario. Ne molto migliori furono le condizioni nei campi di Tambow e di Miciurinsk dove la mortalità raggiunse del pari cifre altissime.
Si giunge cosi al periodo delle epidemie, le quali in simili condizioni ambientali trovarono il loro terreno più adatto (tifo petecchiale, tifo addominale, dissenteria, e più tardi difterite) (2). In tali condizioni ebbe luogo verso la meta di marzo 1943 il trasferimento dai campi di smistamento a quelli di concentramento. Ed ebbe luogo soltanto per quelli che riuscivano a trascinarsi o ad essere trascinati da qualche compagno in stato fisico migliore, per i chilometri che separavano i campi dalle stazioni. Gli altri rimasero. E mai più nessuno ne ha saputo nulla.
In treno, oltre al tormento della fame, quello della sete. Davano un pezzo di pesce secco salatissimo e impedivano persino di scendere a prendere un pugno di neve. Ci si concedeva il ghiaccio che si formava lungo le pareti dei vagoni. E quanti hanno bevuto la propria urina! Si stava chiusi in 45 per ogni carro merci. Mancava, come sempre ormai da mesi, e cioè dal giorno della cattura, lo spazio materiale per stendersi. Tuttavia, giorno per giorno, un po’ di spazio si faceva. Ogni mattina, infatti, al saluto di prammatica del russo di scorta: “Kaput jest?” (E’ morto qualcuno?), la pesante porta di ciascun carro scorreva cigolando lugubremente sulla sua rotaia per lasciar passare almeno un morto.
Poi, finalmente, i campi. Tutti vedevano in essi la resurrezione. Quanti vi trovarono invece la morte! Una nuova marcia nella neve, spesso di decine di chilometri, a passo di corteo funebre. E nei campi, la moria, il dilagare delle epidemie, la pellagra, la distrofia, le polmoniti, le cancrene da congelamento. Rapidamente la zona dei “lazzaretti” si estese a tutti i singoli locali dei campi. E si chiamavano lazzaretti, non perché là si venisse curati, ché mancava ogni più elementare mezzo di cura e di assistenza, dai medicinali al letto, ma perché lì si moriva.
L’alimentazione, alquanto maggiorata, era sempre fortemente deficiente; negli ospedali si riceveva allora 400 grammi del solito pane nero immangiabile, 10 grammi di zucchero, due zuppe assolutamente liquide in cui galleggiava qualche pezzo di verdura, e pochi cucchiai di “cascia” (cereali bolliti). In compenso era sorto pero nei russi il culto dell’igiene, il quale si esauriva nel farci fare il bagno. Ogni pochi giorni gli infermi di qualsiasi malattia, e in qualsiasi stato, venivano accompagnati, seminudi, attraverso interminabili, gelidi cortili, spesso privi di sensi, e perciò barellati, al bagno. Ed il bagno mieté anch’esso le sue vittime. Quanti vi rimasero. E quanti morirono delle conseguenze!
Quando abbiamo potuto fare raffronti, abbiamo constatato che una sola, sempre la stessa, monotonamente identica, e stata la storia di tutti i campi. (3)
Ai primi di maggio i sopravvissuti erano non più de1 15%, vere larve umane. E dovevano essi stessi provvedere ai lavori dei campi, e a quello del seppellimento dei morti, dopo aver scavato le fosse!
morti: là nelle fosse comuni, nudi senza un segno di riconoscimento, senza una croce, senza che per via delle frequenti perquisizioni, a qualche compagno pietoso, forse allo stesso che aveva gettato nella fossa l’amico fraterno, fosse consentito conservare un biglietto con un nome ed una data.(4)
A metà di maggio del 1943, giunse da Mosca il “pricas”, “l’ordine” che nessuno più morisse (“pricas” portato espressamente nei campi da generali sovietici). Eravamo rimasti tanto pochi! Bisograva pure che qualcuno tornasse in patria alla fine della guerra. Le razioni viveri e il trattamento sovietico migliorarono sensibilmente. La razione alimentare, anzi, per un paio di mesi fu portata ad un livello più che soddisfacente. Quelli che avevano superato le malattie, o la fase più acuta di essere, si ripresero presto. Molti ammalati entrarono presto in fase di convalescenza. E molti morirono ancora in maggio, in giugno e anche in luglio. Poi il diagramma della mortalità si abbassò fin quasi allo zero.
In vita erano rimasti pero meno del 10%. La razione alimentare, anche se nuovamente abbassata era ormai sufficiente, a mala pena, a mantenere in vita un individuo che non lavorava. E poi in quasi tutti i campi il lavoro era obbligatorio, e a chi lavorava veniva dato un supplemento, il quale almeno in quel periodo, specialmente in alcuni campi (per es. Oranki) valeva ad integrare abbastanza la razione normale. Si era impiegati di massima nei boschi, nelle cooperative agricole (kolkos), nelle costruzioni di strade ed in ogni genere di lavoro. Nel novembre del 1943, dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania, con molte promesse e molte speranze di un prossimo rimpatrio, gli ufficiali italiani vennero quasi tutti concentrati in un unico campo: il 160, a Suzdal (reg. di Wladimir), a circa 200 chilometri a oriente di Mosca.
Anche qui, come negli altri campi, si sta molto stretti; su castelli di legno a due piani in 16 o anche in 18, in camere di 20 o 25 metri quadrati, dove e impossibile convivere se non restandosene ognuno al proprio posto letto. Ma almeno c’è il grande vantaggio di non dormire in 300 o anche più in una unica baracca, come altrove avviene comunemente. Inoltre in questo campo, a differenza della generalità degli altri, una coperta ed un pagliericcio (sia pure di paglia vecchia di due anni e trita) difficilmente sono mancati. Ed esiste il vantaggio di non dover mangiare, come altrove avviene, sul proprio letto, perché c’e una mensa, sia pure organizzata in modo primitivo, con scodelle vecchie e scorticate, e con barattoli arrugginiti dai quali un nostro mendicante avrebbe vergogna di andare a prelevare il cibo alle mense assistenziali. Anche per il vestiario ed il trattamento e stato, al 160, alquanto migliore che altrove. Mentre fino all’estate 1944 non si era riusciti ad ottenere che stracci in cambio di altri stracci, e mentre questo sistema continuava anche dopo negli altri campi, d’allora in poi al 160 si ebbero delle assegnazioni di vestiario tedesco non usato. Quello delle calzature rimase invece sempre un problema: infatti a chi non potesse tenere miracolosamente in efficienza le vecchie scarpe logore (riuscendo con sacrifici alimentari a farle rimettere, dai calzolai del campo, in condizioni di durare alla bell’e meglio qualche mese di più) riusciva di ottenere qualche paio migliore (con maggiori sacrifici alimentari) da prigionieri di altra nazionalità catturati più di recente. In generale non fu possibile che ricevere degli zoccoli di legno; e alla fine la maggioranza era calzata cosi.
A parte la prima meta del 1943, in cui bisogno provvedere a tutti i servizi più duri, e salvo che il comandante del campo non dichiarasse lo stato di necessità (cosa avvenuta per altro abbastanza di frequente, soprattutto nell’autunno e inverno 1945-46, per lavori agricoli, di trasporto legna e di spalatura di neve alle strade) al 160 il lavoro fuori dal campo non era considerato obbligatorio per gli ufficiali, come negli altri campi. Molti pero, soprattutto quelli dalla costituzione fisica più esuberante, furono sempre costretti ad offrirsi volontari per lavori esterni, specialmente agricoli e boschivi al fine di integrare con qualche supplemento la scarsa razione alimentare. Ai lavori interni del campo, pulizia dei locali, cucina, barbiere, restauri, giardinaggio, ecc. nonché naturalmente lavatura della biancheria personale, bisognava che anche gli ufficiali al 160 provvedessero da sé.
A parte ciò, a parte le condizioni ambientali, già descritte, a parte la scarsità delle razione viveri (aggravata dalla circostanza che spesso si rimaneva per lunghi periodi, e a volte per mesi, in attesa spesso di prodotti mancanti, e peggiorata dalla endemica scarsa onestà dell’amministrazione dei campi) i disagi materiali maggiori risiedevano nella fondamentale ragione che nei campi mancava tutto e non si poteva procurarsi nulla. Prima di tutto perché non era possibile avere contatti con l’esterno; e poi perché non venivano assegnati che 10 rubli al mese, coi quali, almeno fino all’estate avanzata del 1945, non era possibile comperare altro che il tabacco per 5 o 6 sigarette, nei frequenti periodi in cui veniva sospesa la distribuzione. Soltanto nell’estate 1945 fu possibile ottenere qualche foglio di carta e qualche matita. Il commissario Fiammenghi diceva: le fabbriche di matite ora, producono cannoni! Fino allora chi aveva scritto, lo aveva fatto su involucri delle sigarette e sulla carta da imballaggio americana; si erano raddoppiati gli oggetti di vestiario con aghi ricavati da un pezzo di fil di ferro, ci si era pettinati con pettini di alluminio fatti a mano con un pezzo di gavetta. Il prigioniero di Russia ha imparato a far di tutto: cucchiai, pettini, zoccoli, spazzole, calze; e persino abiti da sera per signora e monili per qualche rappresentazione teatrale improvvisata. E prima di riuscirvi ha dovuto cominciare a costruirsi gli strumenti: il martello, il trapano, il coltello, lo scalpello, l’ago, il ferro da calza. Ed e partito dalle cose più elementari: un pezzo di legno, di ferro, di fil di ferro; un chiodo, uno straccio vecchio; tutto era buono per lui di fronte alla gravità dei disagi morali, l’entità dei disagi materiali e stata però certamente inferiore. Tuttavia l’entità dei disagi materiali e sempre stata enorme; essa, data l’urgenza immediata con cui il superamento dei bisogni fisici si pone davanti all’uomo, ha fatto si che anche le più gravi pene morali, spesso passassero per noi in seconda linea e a volte addirittura non venissero sentite. E questo e dir tutto. Basti pensare alle privazioni del diritto di corrispondere con le famiglie. Soltanto negli ultimi tempi alcuni privilegiati hanno ricevuto nuove da casa, mentre tanto si e abusato dell’ansia che ciascuno aveva di far giungere a casa qualche notizia, per far sottoscrivere messaggi di contenuto politico non sentito, o addirittura di far scrivere, sotto dettatura da ufficiali e soldati, lettere alle rispettive famiglie, per presentare come persone «cui dovevano la vita» ex emigrati politici che rientravano in Italia. Basti pensare al trattamento da parte degli ufficiali e soldati sovietici, particolarmente nei primi anni inumano, inurbano, e sovente accompagnato da insulti e da violenze, ad ogni modo sempre pieno di disprezzo. Quante volte ci siamo sentiti rinfacciare il solito: «perchè siete venuti in Russia?». Quante e quante volte ci siamo sentiti ripetere, e talvolta in pubbliche riunioni, personalmente da comandanti di campo, che con l’ammetterci al lavoro assieme agli operai e ai contadini sovietici, il governo della Russia ci dimostrava la sua volontà di «riabilitarci». Basta pensare alla facilità con cui per futili motivi (per esempio fumo in camera, ritardo alla sveglia, gioco delle carte fatte in legno di betulla) si veniva gettati nel cosiddetto carcere (un locale quasi sempre sotterraneo, senza luce, non riscaldato, nel quale bisognava restare, senza pagliericcio né coperte e con la razione viveri più che dimezzata). Basta pensare alla Impossibilità di dedicarsi a qualsiasi genere di studio, data la mancanza, oltre che delle condizioni ambientali. di ogni mezzo, che non fossero le pubblicazioni di propaganda comunista in tutte le lingue, e molte tradotte in italiano o i libri (non molti inverno e tutti in lingua straniera) di una vecchia biblioteca di nobili russi. Basti pensare infine alle frequenti umilianti perquisizioni, in cui veniva tolto fin l’ultimo pezzo di carta scritta.
Ma una, grave sopra tutte le altre, è stata la pena morale di questi durissimi anni. Ed è stato l’incubo sotto il quale siamo stati tenuti: l’incubo dell’ignoto, l’incubo del mancato ritorno (incubo che ci ha tormentato fino al momento in cui abbiamo varcato la linea di demarcazione alleata). Esso è stato suscitato e tenuto in noi vivo, in modo collettivo ed individuale, volutamente attraverso allusioni, doppi sensi, minacce, trasferimenti punitivi ed altro; ed è stato voluto allo scopo di tenerci meglio nella morsa della pressione morale necessaria al raggiungimento di certi fini politici. Purtroppo è doloroso dover dichiarare che a ciò hanno prestato validamente la loro opera, nei vari campi, diretti dalla loro centrale di Mosca, degli italiani: i cosiddetti «istruttori politici» esponenti del PCI nella Russia.
L’opera di penetrazione politica è stata iniziata con una certa consistenza nei campi non appena il periodo delle epidemie andò avviandosi verso la fine, e precisamente nei maggio 1943. Condotta sempre, almeno esternamente sotto la bandiera dell’antifascismo (in modo che riuscì ad attirare al suo seguito, specialmente al principio, ma talvolta anche in seguito, nella speranza d’imprimere una qualche moderazione, non pochi elementi sani e di buona fede) essa dimostrò di avere lo scopo essenziale di stroncare ogni tendenza antisovietica, e di fare della politica filobolscevica e dei proseliti al PCI. Per il raggiungimento di tali obiettivi, oltre che del mezzo dell’agitazione politica (basato in gran parte sul monopolio delle notizie dall’Italia e dal mondo) i commissari politici ed i loro collaboratori italiani specializzati nell’istigazione all’odio reciproco, si avvalsero di altri mezzi più efficaci. I principali furono: la cosiddetta «scuola antifascista», i lunghi opprimenti interrogatori nonché le deportazioni in campi di punizione.
La scuola (campi 27/2 e campo 165) era destinata allo studio delle teorie comuniste ed a scalzare l’idea della famiglia, della religione, della disciplina, ecc… Vi si effettuavano dei corsi semestrali di ufficiali e soldati, programmati (per dichiarazioni dì d’Onofrio) e talora visitati dallo stesso Togliatti, organizzati da Edoardo d’Onofrio e svolti da istruttori russi ed italiani (tra gli altri Paolo Robotti). Attraverso i dibattiti e le polemiche che venivano suscitate, si era in grado di sceverare gli elementi sui quali si poteva fare minor assegnamento; o che bisognava addirittura eliminare, mentre sugli altri veniva concentrata tutta l’attenzione. Attraverso interrogatori a base di seduzioni e di promesse, e spesso anche di minacce e di ricatti, si cercava poi di ottenere, tra questi ultimi, informazioni politiche, militari, economiche e di impegnarli alla collaborazione durante e dopo la prigionia ed all’opera di delazione nei campi.
Gli interrogatori sono stati il più forte incubo di tutti i prigionieri. Venivano effettuati molto spesso (soprattutto nei primi tempi) nel cuore della notte, e nei momenti in cui la fame era maggiore (all’ora dei pasti) e si protraevano di solito per alcune ore. E tendevano soprattutto ad individuare i caratteri deboli ed a fare presa su di loro, per poi ottenerne, coi soliti metodi di minaccia (morte, deportazione, permanenza a vita nella Russia) e di promesse (rientro anticipato in Italia, magari per combattere con i partigiani ma naturalmente agli ordini dei sovietici; appoggi finanziari, professionali, ecc.) per il futuro; possibilità di corrispondere con i familiari, contro le solite informazioni e i soliti impegni a collaborare (sul piano politico, economico e militare) con le organizzazioni di informazione sovietica in Italia e fuori d’Italia o per lo meno (per gli individui meno dotati) a svolgere opera di delazione in campi di concentramento. Alcuni «soggetti» furono a tal fine isolati e «lavorati» alle tristemente celebri carceri di Lubianka e della Butilskaja: così i tre generali, i quali vi furono trattenuti per 70 giorni; così una decina di altri ufficiali. Altri, una volta individuati vennero, per poterli «lavorare» meglio, trasferiti in piccoli gruppi in campi di isolamento. A tal fine vennero impiegati particolarmente il campo 20 (Villa) e il 27/I. Il primo, meglio noto sotto il nome di «Villa», aveva acquistato presso di noi tale denominazione, oltre che per la natura dell’edificio in cui era sistemato (una villa in verità abbastanza modesta nei pressi di Mosca), per il tenore di vita materiale che vi si conduceva, il quale era naturalmente confortevole, rispetto a quello degli altri campi (c’erano persino i lettini e dei piatti). Il secondo invece si proponeva lo stesso fine attraverso un metodo del tutto opposto. Si trattava di un campo di lavoro, dove il trattamento morale e materiale, nonché le condizioni ambientali ed igieniche, erano pessime sotto ogni riguardo; ed era evidentemente destinato ai caratteri che meritavano di essere sottoposti alla prova (delatori appositamente a ciò destinati s’incaricavano di riferire sulle loro reazioni). Gli individui da «lavorare» venivano generalmente trasferiti in questi campi, assieme ad un certo numero di colleghi, dei quali alcuni dovevano essere sottoposti a speciale vigilanza, mentre altri venivano lasciati relativamente in pace e servivano unicamente a che non risultassero chiare le ragioni di trasferimento di campo di un piccolo gruppo dì ufficiali.
Il terzo dei principali mezzi attraverso cui la pressione politica venne esercitata fu, come si è detto, la deportazione in campi di punizione. Gli organi della E.K.W.D. erano in grado di apprendere,
tramite gli istruttori politici, i quali si avvalevano dell’opera di delazione delle cellule create nei campi con i sistemi già indicati (oltreché, soprattutto nei primi tempi, facendo leva sulla potenza dello stimolo della fame), quali fossero gli individui i quali più energicamente presentassero resistenza all’opera di penetrazione politica filobolscevica. E, quando altri mezzi di persuasione si rivelavano insufficienti provvedevano al loro trasferimento, isolati o in piccoli gruppi, per destinazione ignota. In tal modo sono stati allontanati dalla comunità degli altri, degli ufficiali dei quali poi non si è appreso nulla. Questa l’atmosfera morale di incubo, di sospetti, di diffidenza, di odio, nella quale si sono vissuti i duri anni della prigionia; atmosfera di continua tensione spirituale, che ha messo a dura prova i più saldi sistemi nervosi, che raggiungevano il punto di massima depressione tutte le volte che nei campi si vedevano giungere degli ufficiali dell’E.K.W.D. mai visti, dei misteriosi personaggi in borghese o il signor Robotti, il rappresentante del PCI a Mosca; allora tirava vento di interrogatori e tutti tremavano.
Così questi anni sono passati. Altri sono morti; altri si sono ammalati; altri sono scomparsi dalla circolazione altri si sono convertiti al comunismo. Pochi (forse 4 o 5) sono partiti per l’Italia un anno prima degli altri, misteriosamente. Ma nessuno allora ne seppe nulla. Poi giunse il nuovo calvario: l’epoca della snervante, dell’interminabile attesa del rimpatrio. Nell’agosto 1945, l’annuncio del rimpatrio prima dell’inverno. Nell’autunno la partenza dei soldati (e con essi di una quindicina di ufficiali). Svariate volte le brigate di ufficiali dislocate a lavorare fuori dal campo vennero fatte rientrare d’urgenza «per partire per l’Italia». Una volta, nell’ottobre, vi fu addirittura al 160 una veglia notturna, e gli ufficiali vennero tenuti per oltre due ore in cortile su piede di partenza. Ma la partenza non avvenne. E anzi nel dicembre ci si disse essere stato convenuto dagli alleati che gli ufficiali avrebbero dovuto essere rimpatriati soltanto dopo i soldati; i quali, per altro, dalla Russia erano ormai partiti.
Poi per alcuni mesi più nulla e i mesi dell’inverno 45-56 furono, per le condizioni alimentari, ambientali, mancanza di riscaldamento, di lavoro, di trattamento morale, i peggiori dopo il 1943. Anzi non mancavano, spesso, da parte delle autorità sovietiche dei campi (per quanto smentite dalle autorità del PCI) chiare allusioni alla interdipendenza del nostro rimpatrio con l’atteggiamento politico interno ed internazionale del governo italiano.
L’ordine di partenza finalmente giunse il 6 aprile 1946. E, dopo una ventina di giorni di attesa in segregazione, e minuziosa perquisizione, il grosso degli ufficiali italiani partì dal campo 160 dove era concentrato, restando trattenuti però gli ufficiali, generali e superiori, nonché una ventina di altri ufficiali (in tutto 50). Sarebbe qui troppo lungo descrivere le peripezie del viaggio, durato circa tre mesi, e per alcuni di più. La cosa esigerebbe una descrizione a parte. Ad ogni modo è risultato chiaro a tutti che il nostro viaggio, nell’epoca del suo inizio, nel suo svolgimento, nelle sue soste, nei suoi episodi, ha avuto sempre alla base la ragione politica. E’ stata questa che ha consigliato di farlo iniziare alla vigilia della campagna elettorale per la costituente italiana. E’ stata essa che ha consigliato la lunga sosta per oltre un mese a Odessa, dove fin dai primi di maggio erano concentrati tutti gli ufficiali italiani e di dove faceva più comodo che all’epoca della costituente giungesse in Italia una trasmissione radiofonica addomesticata, di quanto potesse farlo l’arrivo degli ufficiali reduci in carne ed ossa. E’ stata essa stessa che ha consigliato in giugno, durante la crisi istituzionale e le discussioni circa la validità del referendum, la sosta di una quindicina di giorni a Sighet in Romania. E’ stata essa infine che appunto in questa città ha consigliato al signor Robotti, ispirato dalla cellula comunista della nostra comunità, a ottenere dalle autorità sovietiche che 50 nostri compagni, i quali più apertamente solevano esprimere la propria indignazione contro il trattamento subito durante la prigionia, venissero ancora trattenuti, anziché rientrare in patria con gli altri.
Come Dio volle, la sera del 6 luglio, dopo una ulteriore permanenza di una decina di giorni nel campo sovietico di S. Valentino in Austria. circa 520 ufficiali superstiti dell’ARMIR vennero consegnati a Vienna a al Comando militare britannico, il quale provvedeva a che la sera del giorno successivo essi varcassero la frontiera italiana a Tarvisio. Era il 7.7.1946.
Una quindicina di giorni dopo, sono rientrati i 50 fermati a Sighet.
Verso la fine di agosto, in due scaglioni, sono rientrati i 50 trattenuti al 160 al momento della nostra partenza e con essi qualche altro ufficiale che si trovava nei così detti campi di punizione o di isolamento.
Restano ancora in Russia i tre generali; tre maggiori ed una quindicina di altri ufficiali tra i quali un dottore e due cappellani.
Hanno avuto così termine, per noi, questi dolorosi anni. Quanti di noi, però, soltanto nel varcare la soglia di casa hanno appreso i lutti della loro famiglia. Ma nessun scampato può non farsi eco anche del grido di dolore che durante quella penosa parentesi della sua esistenza a lui è giunto da innumerevoli voci di prigionieri e di internati di ogni nazionalità, di ogni grado, di ogni condizione sociale, di ogni sesso, spesso strappati arbitrariamente ai loro affetti nei diversi paesi di occupazione. Né può non farsi eco del grido di dolore che da tante, da tutte le parti, presso lo stesso popolo russo, nel suo fondo semplice e generoso, e dai paesi occupati, si leva contro un oscuro sistema di tirannia poliziesca.
Sottotenente Giusepe Bassi120° Reggimento Artiglieria MotorizzatoCampi di Sudzal, Oranki