di Achille Omar Di Leonardo
Roma, 29 ottobre 2007 |
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Questa intervista a Enrico Betti è il risultato una lunga chiacchierata sulle vicende di un soldato che ha affrontato la guerra da un pezzo di artiglieria da 75/27. Betti è un uomo grande e pacioso, simpatico e cordiale, tenero ma coraggioso anche se lui racconta che certe cose si facevano sulla scia dell’incoscienza. I suoi racconti sono spontanee rappresentazioni, a volte in romanesco, che si calano bene nella vita del soldato, nel suo vivere l’esperienza della guerra fatta non solo di paure e di azioni ardite ma anche di furbizia, di cameratismo e di spensierata vita militare. Certamente è un modo tutto suo di filtrare gli eventi dei quali restano soprattutto i momenti belli. Le situazioni tragiche non sono cancellate ma semmai raccontate smorzando i toni, sdrammatizzano, con pudore e quasi in punta di piedi per non tediare l’interlocutore ma è chiaro che traspaiono tutta la tragicità e gli orrori di quella esperienza, un modo per sopravvivere a situazioni paradossali. Betti è un’onda alta, un fiume in piena che si libera per la prima volta dei sui ricordi tenuti in un fascio, stretto dal timore che certe storie non interessino a nessuno. Ed invece scopre che non solo sono storie interessanti, per il suo modo unico di saperle raccontare, ma anche un patrimonio di esperienze che quasi nessuno ha il coraggio e la sincerità di volerle esternare come lui riesce a fare. Betti è una persona che ti tiene incollato alla sedia, staresti ad ascoltarlo per ore perché riesce a trasmetterti le sue emozioni con il cuore, con dovizia di particolari e con sincera spontaneità ed è con quel cuore che è capace anche di commuoverti e di trascinarti dentro gli eventi, dentro la sua storia. Achille Omar Di Leonardo |
Tra settembre e i primi di ottobre, fummo mandati in aiuto della Sforzesca che era stata presa di sorpresa, gli ufficiali erano persino in pigiama. Di notte fecero un attacco nel tentativo di sfondare. Noi del 120° andammo in aiuto e partimmo in appoggio al 3° reggimento bersaglieri. Ci eravamo piazzati dentro una balka.
Come è fatta una balka?
La balka è costituita da una serie di colline ondulate per cui, se si sta dentro una balka, si è circondati da colline e si è al di fuori della vista e allo stesso tempo privi di visuale al di là della sommità. Le balke sono costituite anche di parti pianeggianti ma, in linea di massima, sono una successione continua di andamenti ondulati. Erano un riparo naturale per potersi riparare nelle fughe. In quella occasione ci piazzammo al sicuro e cominciammo a sparare facendo una gran confusione con le artiglierie, sparavamo alla cieca tentando di creare scompiglio nei reparti russi. Avevamo il cannone da 75 che non aveva un’alzata elevata, l’obice da 100 permetteva una inclinazione maggiore per cui sarebbe stato più facile sparare con alzo maggiore, avrebbe sparato meglio da dentro una balka, il 75, che era a tiro rapido, era però più efficiente.
Voi della quarta batteria avevate solo il 75/27?
Sì, solo i 75/27.
E l’equipaggiamento del soldato, com’era?
Era scarso! Avevamo delle scarpe che, non dico erano di cartone, ma avevano una suola con del materiale compresso che non era certo cuoio, non aveva una suola alta come quella degli alpini che avevano anche i chiodi per non scivolare sulla neve.
I nostri calzari consistevano in scarponi bassi con una normale suola, avevamo dei calzettoni e una fascia per avvolgere la gamba fino al ginocchio. Verso la fine ci avevano “dato” il calzettone alto che sostituiva le fasce, in verità ce lo trovammo da noi nelle sussistenze.
Stavamo dicendo dell’aiuto alla Sforzesca…
Fummo chiamati in supporto a quella che venne chiamata la divisione “cicai”, la “corri corri” dicevamo noi, la divisione che fugge. Questo era un motivo per prendere in giro chi ve ne facesse pare. Quando incontravamo qualcuno, se gli domandavamo di quale divisione fosse e ci rispondeva che era della Sforzesca, non mancavamo nel dargli l’appellativo di “cicai”. E soprattutto non mancavamo di rinfacciargli che si erano fatti prendere dai russi, era un modo cameratesco di rivolgerci ai nostri compagni di guerra con i quali si creava una sana rivalità.
I bersaglieri com’erano?
Erano tremendi! Nel senso che erano talmente ben addestrati che incutevano timore anche nei russi. I bersaglieri, insieme a noi, andarono incontro alla Sforzesca respingendo i russi al di là del Don. Li chiamavano “i chicchirichì”, perchè portano le piume, arrivavano con le motociclette, le Guzzi e le Gilera, per la maggior parte erano Guzzi che avevano un motocarrello, agganciato nel retro della moto, con una mitragliatrice, erano in due soldati: uno alla guida della moto e l’altro dietro, di spalle, che manovrava la mitragliatrice, una Breda, avevano le 35mm mi pare. Era un comparto compatto e affiatati l’uno con l’altro, erano bravi, ben addestrati.
Voi quindi eravate l’artiglieria della Celere.
Sì, eravamo noi del 120° a supporto del 3° e del 6° bersaglieri, eravamo artiglieria divisionale.
Quindi i bersaglieri non avevano artiglieria.
Avevano solo un cannone anticarro il 37…, ma non era molto efficace, l’artiglieria eravamo noi, noi del 120°. Eravamo l’artiglieria mobile che veniva chiamata spesso per arginare dei cedimenti di fronte. Una volta ci chiamarono in aiuto della 82° reggimento di fanteria della Torino. Dal momento che eravamo motorizzati, riuscivamo a muoverci con discreta agilità, il più delle volte si interveniva con estrema velocità, si sparava e poi si tornava nelle posizioni.
Per muovervi usavate soprattutto il camion 626, era affidabile?
Il 626 era un buonissimo camion, aveva un bel motore, era affidabile, spesso qualcuno ci “suggeriva” di trattarli meglio, di camminare più adagio ma il camion rispondeva bene. Gli autisti non preferivano il Rho perchè era un camion pesante, per farlo partire poi bisognava girare la manovella. Come accessorio avevamo delle specie di stuoie di gomma, di plastica dura, avevano come la forma di cingoli, che servivano per disincagliare i camion che si incastravano nella neve che rendeva scivolosa la presa. Venivano messi sotto la ruota così che la ruota aderisse che potesse quindi liberarsi e ripartire.
Le risulta che con il gelo il camion dovesse essere riscaldato con il fuoco sotto il motore per impedire il gelo?
In verità quando il camion non partiva lo si lasciava lì. Si cercava di avviarlo un’ora, mezz’ora prima questo sì, quando dovevamo partire di notte o la mattina molto presto. Deve considerare che avevamo poca benzina, dovevamo fare economia, non ci saremmo potuti permettere di tenere acceso un camion tutta la notte. Di notte semmai si faceva la guardia al camion e al pezzo, ogni ora uscivamo fuori, quando era molto freddo ogni mezz’ora. Mi ricordo che Andrei, un altro soldato, mi convinceva a fare le guardie insieme, normalmente dovevamo farla da soli, allora lui mi diceva “dai Betti, famola insieme la guardia perchè sai, insieme ecc. ecc…” poi ad un certo punto cominciava come al solito “aho, sento certi dolori, io devo ann’ ar bagno, devo anna’ ar bagno, nun gliela faccio più”, io, come uno fesso, abboccavo. Aspettavo mezz’ora, poi tre quarti d’ora e quando vedevo che non tornava più lo si ritrovava dentro il bunker che dormiva sonni profondi e lì, giù a dirgli “te possina sparatte, m’hai fregato pure stavorta”. Me la fece un sacco di volte questa fregatura, con la scusa dell’imminente evacuazione.
Si capisce che tra voi c’era cameratismo, eravate affiatati.
Tra di noi ci volevamo bene, c’era un bel rapporto spontaneo, eravamo Andrei, Aietti, Betti e poi uno di Milano, un caporal maggiore di cui non ricordo il nome, un bel ragazzo alto, di quei tipi allegri, spensierati, gli piaceva fare l’attore. Quando tornò lavorò per un periodo come scenografo, partecipò infatti al film sull’ultima battaglia del Savoja Cavalleria, la carica ad Isbuscenki, diede il suo contributo come scenografo credo. Il Savoia cavalleria, inizialmente, faceva parte della Divisione Celere, il 120° era ippotrainato. Fu proprio in seguito a quella carica che, decimati i cavalli, si ricostruì il reggimento come 120° reggimento artiglieria, motorizzato.
Come artiglieria in che posizione eravate?
Quando ci spostarono sull’ansa del Don, eravamo a circa una quindicina di chilometri. Davanti a noi c’era l’osservatorio avanzato e poi si affacciava il Don, eravamo sull’ansa in corrispondenza di Serafimovič, sopra Stalingrado. Ci restammo circa un mese, tutto il mese di ottobre. Facevamo contenimento e ogni tanto si sparava.
In settembre arrivate, ad ottobre andate in aiuto della Sforzesca. Poi?
Dopo l’aiuto alla Sforzesca tornammo indietro in riorganizzazione.
Indietro dove?
Nella zona di Millerovo. Poi andammo in sostituzione sull’ansa del Don, saranno stati dieci chilometri di viaggio, in camion ci si impiegava un quarto d’ora. Arrivati sul Don il nostro gruppo, il II, si schierò, ci schierammo nelle 4 batterie a protezione dei croati, della Legione Croata.
Cioè loro erano in schieramento avanzato e voi alle loro spalle a protezione…
Sì, quando serviva ci davano le indicazioni di tiro “sparate al quadrello numero quattro” oppure “al quadrello numero 32” e così via, noi con quelle indicazioni sparavamo. Dall’osservatorio partivano tutti i comandi di tiro. L’osservatorio era situato su un promontorio che era circondato da una grande pianura, un promontorio naturale dal quale si vedeva tutta l’ansa del Don, un punto di vista strategico di osservazione. Davanti a noi c’erano i croati, dentro un bosco.
Quindi prima del Don, c’era vegetazione e c’erano anche boschi…
Sì, i croati erano tremendi con i russi, quando ne catturavano qualcuno li ammazzavano e i russi li ricambiavano con la stessa spietata freddezza, con noi no, erano diversi, erano più malleabili, non so perchè. Restammo sul Don circa un mese fino alla metà di novembre, fino a che non cominciarono gli attacchi dei russi.
Succedeva qualcosa tutti i giorni, si sparava ogni giorno?
Tutti i giorni si dava qualche segnale ai russi che si muovevano dall’altra parte, se per esempio i croati ci dicevano che i russi si stavano spostando o avvertivano un movimento sospetto, ci dicevano di sparare. Noi sapevamo esattamente il punto su cui sparare proprio in base alle indicazioni dei quadrelli. C’erano delle coordinate, delle indicazioni che loro ci davano e quando ritenevano che fosse sufficiente, che magari non avvertivano più rumori dalla parte dei russi, ci dicevano di smettere. I comandi li davano i croati all’osservatorio, l’osservatorio a sua volta al nostro ufficiale che nello specifico della quarta batteria era il tenente d’Aquino che era il comandante della batteria. All’osservatorio c’era il tenente Gianoglio, un inetto, una persona piuttosto timorosa, non lo considererei un vero ufficiale, non era all’altezza della situazione e non lo dico per cattiveria, era la verità. Questo per quanto riguarda l’osservatorio, mentre poi c’era l’osservatorio avanzato che era con i croati.
Cioè il “loro” osservatorio?
Su quell’osservatorio c’era un nostro artigliere, un artigliere di complemento, si faceva a turno su quell’osservatorio, una volta toccò anche a me. Noi dovevamo telefonare al comando e riferire che i croati richiedevano un certo intervento di fuoco dell’artiglieria.
Come avvenivano le comunicazioni?
Attraverso il telefono. Un messinese, uno di quelli che era addetto alle comunicazioni telefoniche, era stato preso perchè essendo siciliano non veniva capito nel caso venissero intercettate le comunicazioni per cui venivano fatti parlare due siciliani. Per i russi sarebbe stato impossibile decifrarli. I russi sapevano tutto, lo sapevano prima che ci si riuscisse a spostare, intercettavano tutto. Tra siciliani e calabresi, tra di loro, si capivano, per cui loro potevano benissimo fare da intermediari.
A che distanza era l’osservatorio avanzato dei croati rispetto al Don?
Era proprio sul bordo del fiume, sulla discesa del Don, in una trincea. Di questo posizionamento ho delle foto che spero di riuscire a ritrovare, una riguarda l’ansa del Don, un’altra l’osservatorio dove si vedono i bunker, qualche altra che non ricordo bene. Facevano parte di un rullino che mi ritrovai per caso nella giacca, non so come ci finì lì dentro, quando sono tornato in Italia ritrovai questo rullino di cui non mi ero mai accorto né tantomeno mi ricordavo di avere. Tra l’altro era in una giacca che indossavo quando fui ferito da una pallottola esplosiva, a Pawlograd, nella battaglia a difesa della città che facemmo insieme a Papuli. Quando tornai in Italia mia madre conservò la giacca per anni poi però andò persa.
Dicevo quindi che eravamo nei pressi del Don con i croati. Ogni due giorni avevamo il compito di portare da mangiare all’osservatorio che sarà stato un cinque o sei chilometri da noi.
Andavamo a piedi, a turno, portando la gavetta insieme a tutto l’occorrente da portare all’osservatorio. Le riserve erano sufficienti per un giorno e mezzo, due. Quando ti dicevano di andare all’osservatorio non sapevi esattamente che strada fare, per non perdersi bisognava seguire il filo del telefono che partiva dalla nostra postazione e si svolgeva per tutto il tragitto di cinque chilometri, sino ad arrivare all’osservatorio. Mi ricordo che prendevamo in mano il filo e camminavamo, camminavamo, camminavamo. Una volta mi accorsi che il filo ci stava portando in un’altra direzione così dissi “ma come mai questo filo ci sta portando lontano?”. Quando, seguendo il filo, arrivammo ad un albero trovammo che c’erano intrecciati un’altra serie di fili telefonici della terza batteria, del genio, e di altre compagnie. Noi cercavamo di seguire il nostro filo tra il groviglio di altri fili e io che continuavo a far notare che ci si allontanava dal nostro osservatorio di destinazione ma gli altri “no, no, andiamo, è questo il filo giusto”. Eravamo in tre, quattro persone e, oltretutto, c’era anche pericolo che i russi, con le loro incursioni, soprattutto notturne, ci potessero cogliere di sorpresa. Era un continuo catturarsi a vicenda e tra i croati e i russi, come ho detto prima, non si facevano tanti scrupoli, era un regolare regolamento di conti reciproco, loro non facevano prigionieri, si passavano alle armi. Noi quindi proseguimmo il nostro cammino seguendo il filo del telefono fino a quando non sentimmo diversi colpi a una certa distanza, a quel punto cercammo di affrettarci a rientrare quando sentimmo delle grida di “Alt, alt” e pensammo subito “adesso ci ammazzano!” poi ci accorgemmo in tempo che era una pattuglia di tedeschi che erano con una radio sotto un bunker. Avevamo seguito il filo dei tedeschi, sbagliammo strada. Uscimmo allora allo scoperto gridando loro che eravamo italiani, in qualche modo ci capivamo, dicemmo loro che saremmo dovuti andare al bunker dei Croati ma loro “no, di lì non si può andare ci sono i russi, restate qui”. Noi non credemmo alle nostre orecchie e, soprattutto, non credemmo ai nostri occhi quando entrammo nei bunker dei tedeschi. Avevano dei bunker caldi, con le stufe, la musica, la radio, insomma “ce ne fregammo” di quello che avremmo dovuto fare e passammo la notte con loro al calduccio. Durante la notte ci furono delle sparatorie anche nelle linee dei croati. La mattina, i tedeschi, ci diedero le indicazioni per raggiungere le linee dove saremmo dovuti arrivare e, quando giungemmo in prima linea, i nostri inveirono contro di noi “ve possena ammazzavve, dove sete annati?”.
Eravate tutti della zona di Roma?
No, eravamo mischiati, di Mantova, Padova, Milano ma il nostro trio era della zona di Roma, Betti-Aietti-Andrei. C’era anche il milanese, di cui non mi ricordo il nome, che cantava sempre “Oh mia bella madunnina” aveva addirittura proposto di fare del teatro, una volta mi disse “proponiamo qualcosa, andiamo al comando, la vedi l’amica del capitano Alari che bella donna che è? “. In effetti la donna del capitano era una bella donna russa, quando si vedeva che la 1100 era in movimento, intuivamo che il giorno dopo si sarebbe partiti, mandava la donna avanti.
Ma volevo tornare indietro al discorso sulla Sforzesca… Quando siamo andati a dar man forte alla divisione e poi tornammo indietro, bene, lì il rancio era poco. Quando ti davano per esempio la marmellata dovevi mettere il dito sotto per pulirlo in tempo altrimenti ti scappava un pezzo, così si stava attendi a pulire la propria porzione dal cucchiaio che ti porgevano. Il cognac non si vedeva, il vino era gelato, era oltretutto difficoltoso berlo. La gavetta era piccola e non grande come quella degli alpini e dei croati, non so perchè, quindi se si riempiva andava bene ma non era sempre così. Allora andava all’osservatorio, stavamo un paio di giorni, e mi ricordo che si diceva “aoh, dai croati, ti danno il cognac, la marmellata in abbondanza, la gavetta piena di pasta ‘de facioli’, ti danno i maccheroni, lì non c’è la mensa ufficiali”. In effetti i croati non avevano la mensa per gli ufficiali, il pasto per i soldati e per gli ufficiali non era differenziato. Così si faceva a gara per poter andare all’osservatorio avanzato dei croati, perchè lì si mangiava bene e in abbondanza e non perchè avevamo voglia di fare i turni all’osservatorio.
Ma a parte quello che si diceva, era vero?
Sì, sì, era vero e una volta dissi “aoh, se è così ce voglio annà pur’io” e in seguitò ci andai. Un giorno portammo la marmitta del rancio all’osservatorio sopra una slitta. Lì c’era tutta la trincea con le mitragliatrici appostate e quando arrivammo noi ci indicarono un bunker. Ci stupimmo un po’ perchè era tutto vuoto, glielo facemmo notare e loro ci dissero “ve lo dovete sistemare voi”. Noi ci mettemmo sopra i tronchi, ci arrangiammo come si sanno arrangiare gli italiani, con un bidone ci facemmo la stufa bruciando rimasugli di alberi. Gli anziani del reggimento, quelli che già da un anno erano in Russia, mentre noi eravamo lì da un mese o due, senza esperienza, ci volevano mettere alla prova dissero “mo’ c’è da piglià l’acqua al fiume”. Noi facemmo notare loro che dell’acqua c’era già, ma uno di loro si rivolse a me a mi disse “no, no. Bisogna andare a prendere quella del fiume. Vedi lì, in prossimità delle canne? Lì in mezzo, c’è una buca, infili la gavetta lì dentro e tiri fuori l’acqua”. Io, ingenuamente, mi dirigo verso il fiume e “trururtrum, trururtrum” cominciano gli spari dall’altra parte del fiume. Mi butto istintivamente verso le canne e scivolo dritto sulla buca, prelevo l’acqua e dentro di me mi dico “e mo’ chi scappa?”, non sapevo proprio cosa fare, provai a inveire contro i miei compagni “disgraziati, mi avete fregato!”. Sono restato lì dentro una decina di minuti. I russi vedevano dall’altra parte cosa succedeva ma io che ero da quella parte non li vedevo, loro erano nascosti nel bosco. I russi appena vedevano dei movimento subito sparavano, la stessa cosa facevano i croati. La notte era un via vai di incursioni reciproche. Io rimasi allora per un po’ poi, mentre i miei compagni hanno cominciato a sparare, ho approfittato per risalire e tornato su ho preteso che loro bevessero l’acqua prelevata dalla buca, ma non riuscii nella mia impresa mi dissero che quella non era acqua buona da bere.
Facevano degli scherzi pesanti!
Sì, a volte sì.
Lei ha mai fatto delle incursioni sull’altra sponda del Don?
No, io sono rimasto sempre all’osservatorio. Ci muovevamo dall’osservatorio al nostro posto di posizione dell’artiglieria, passavamo attraverso un bosco per raggiungerlo. L’ansa del Don era una grande piana e l’osservatorio era su un cucuzzolo, sotto c’erano i bunker, da dove si dominava l’altra sponda fatta di boschi. La nostra sponda era meno boscosa.
Quindi loro erano più nascosti?
Io direi che per entrambi era uguale. Noi con l’artiglieria eravamo un po’ più indietro nella piana. All’osservatorio bisognava starci una settimana a turno. Eravamo in due o tre soldati a fare il turno settimanale, ci si alternava la notte nei turni di guardia. Ai primi di dicembre, dopo essere stati una settimana all’osservatorio dei croati, ci comunicarono che bisognava spostare la batteria quindi rientrammo. Spostammo la batteria in appoggio dell’82° reggimento di fanteria della Torino perchè era stato attaccato. Lì facemmo un paio di giorni di tiri poi ritornammo indietro ma nel frattempo ci comunicarono che i russi avevano già sfondato sui rumeni. Era una parte debole del fronte.
Ma è vero quello che certe voci dicono e cioè che i rumeni avevano ceduto il fronte quasi in accordo con i russi? Che la resistenza su quel fronte non fu mantenuta con determinazione?
Sì, è possibile, i rumeni erano un’accozzaglia di soldati, non ci si poteva fare affidamento. Noi eravamo equipaggiati male ma i rumeni erano anche peggio di noi. Loro avevano solo slitte e cavalli. Da lì successe tutta la disfatta, noi non riuscimmo ad arrivare a dare il nostro supporto.
Quindi voi non faceste in tempo a rientrare.
No, ai primi di dicembre arrivarono i complementi del 120°, per intenderci quelli che arrivarono con Papuli.
Ecco perchè Papuli mi ha riferito che lui non fece in tempo ad arrivare che subito si trovò a dover ripiegare.
Sì, certo. Finita l’azione in appoggio alla Torino, che riuscì a reggere a lungo l’urto dei russi, ci spostammo a sud verso il confine tra la “cicai”, la sforzesca e i rumeni, ma proprio lì i russi avevano sfondato ed erano riusciti ad entrare già nelle retrovie, salirono fino alle postazioni dove c’erano gli ungheresi.
Quindi in quei momenti c’era una gran confusione.
Sì. Anche nelle file tedesche, tra la Pasubio e la Ravenna, i russi riuscirono a sfondare. Una parte del nostro reggimento fu spostata verso quel fronte e lì, chiusi in una sacca, furono catturati. Noi eravamo invece più a sud.
Quando parliamo del secondo gruppo quindi intendiamo dire i soldati di complemento.
No, non solo c’erano quelli come Papuli che erano appena arrivati, quelli come me che erano da un po’ di mesi e anche gli anziani. Quelli che erano da più tempo, da circa una anno, tentavano spesso di procurarsi un congelamento, si bagnavano i piedi e le mettevano fuori dalle finestre o dal bunker.
Queste sono cose che in pochi hanno il coraggio di dire.
Beh, succedevano invece, mettevano fuori i piedi e poi dicevano che si erano congelati. Ma era peggio, più se li bagnavano e meno si congelavano, il congelamento generalmente avveniva con l’umidità. Con l’umidità del calzino si gelavano più facilmente. Loro tentavano di riuscire a marcare visita per poi tornare a casa o almeno di tornare indietro.
Dicevamo che noi eravamo stati chiusi in una sacca che però era differente da quelli accerchiati più a nord. Ci avevano mandato verso la Sforzesca, verso i rumeni, con il 6° bersaglieri perciò ci unimmo a loro in ritirata, ci unimmo alla colonna Carloni.
Se lo ricorda Carloni?
Sì, un disgraziato!
La sua è un’affermazioni di grande franchezza!
Carloni ha avuto sulla coscienza quel nostro artigliere di cui, purtroppo, non ricordo il nome ma ricordo bene che era siciliano, una brava persona. Era stato con noi all’osservatorio. Era uno che non aveva paura ad affrontare i superiori. Mi ricordo che una volta fui costretto a legato al palo perchè aveva risposto male ad un tenente, lo aveva mandato a quel paese. In verità la discussione era nata dal fatto che il tenente pretendeva di sparare con le coordinate che impativa e lui, il soldato, sosteneva che non era il caso di mettersi a perdere tempo con certe teorie perchè al contrario bisognava sparare ad occhio, non c’era tempo per poter puntare, per dare retta ai falsi scopi. Il tenente allora mi disse “legalo al palo” io presi la cinta e feci finta di legarlo. Non si poteva tenere un soldato legato ad una vedetta, allo scoperto, in balia dei russi.
Sì, questo episodio lo racconta anche Papuli.
Questo nostro soldato stava tornando indietro portando con sé le munizioni che ci sarebbero servite per il cannone che avevamo appostato dietro una casa. Carloni passò e lo fucilò con una mitragliatrice.
Sparò proprio lui di sua mano?
Sparò dall’autoblindo, ora che fosse lui ad aver sparato o che lui fece sparare poco importa, il nostro soldato ci rimise la vita. So che per un po’ di tempo fu costretto ad andare in giro con l’autoblindo perchè i nostri artiglieri volevano farlo fuori.
Lo stesso tenente di cui parlavo prima, una volta, mentre eravamo in ritirata, tentò anche con me di obbligarmi ai tiri secondo le sui indicazioni. Di notte pretendeva che accendessimo la lanterna per poter regolare i tiri. Io provai a farlo ragionare, gli dissi “qui se accendo la lanterna i russi ci vedono e ci fanno fuori tutti” ma lui insistette finché non l’accesi. Non feci in tempo a posizionarla e ad allontanarmi che un tiro secco me la fece volare via. Allora mi rivolsi a lui e dissi “hai visto, non mi hai voluto credere, siamo stati oltretutto fortunati che ha preso la lanterna, potevamo morire tutti”. I russi non si sapeva dove fossero, non riuscivamo a vederli nel buio, accendere una lanterna ci avrebbe messo in grave pericolo.
Quindi eravate più pratici voi soldati in certe elementari cautele da prendere che gli ufficiali.
Sì, quel tenente, Gianoglio, era appena arrivato insieme a Papuli, mi chiedeva il “falso scopo”, ma in una ritirata era assurda una richiesta simile. Lui voleva sentirsi utile ai tedeschi della “SS. Adolf Hitler” che fronteggiava i russi, voleva dargli appoggio con il falso scopo e l’uso del goniometro. I tedeschi sparavano ma neanche loro sapevano dove fossero i russi perciò sparare con il falso scopo non aveva nessun senso. Era un tenente che non aveva la stoffa dell’ufficiale, era impaurito, balbettava, aveva un paura che se lo portava via.
Per la strada che va verso Woroshilgrad, nel cammino che facevamo per uscire fuori dalla sacca, trovammo una sussistenza tedesca e italiana. Non può avere idea della roba che c’era dentro, chi si ubriacava, chi mangiò troppo. C’era cognac, vino, pasta, forme di parmigiano. Ormai avevamo solo un paio di cannoni, gli altri li avevamo dovuti abbandonare, così caricammo su un camion, pasta, scatolame, burro, zucchero, gallette, buttavamo sul camion in maniera disordinata.
Io invece in mezzo a tutto quel ben di Dio sa cosa presi? Le sigarette. Io non fumo, non ho mai fumato ma mi riempii lo zaino di sigarette. Dal momento che tutti erano alla ricerca di sigarette pensai che sarebbe stato un buon sistema per potermi garantire un valido scambio con gli altri in seguito e questo mi salvò. Oltretutto lo zaino sarebbe stato leggero. C’erano di tutti i tipi, Principe di Piemonte, Savoia, Macedonia extra, Trestelle, la Nazionali extra. Quella volta feci una buona scelta, mi fu utile barattarle con del pane o qualsiasi cosa da mangiare.
Dall’ansa ritornammo indietro e trovammo questi tedeschi che fecero la controffensiva per fermare i carri armati russi che ci arrivarono addosso all’improvviso: “arrivano i carri armati, arrivano i carri russi”. Non si sapeva più bene come regolarsi nella notte, i carri armati non erano visibili, si sentivano solo i cingoli. Il falso scopo era una richiesta assurda, con il 75/27 era difficile orientarsi, si sparava a vista, ci si metteva in fondo ai ceppi, uno da un parte uno dall’altra, a forcella, e spostavamo il pezzo.
Quanti eravate sul 75/27?
Eravamo 4 o 5 soldati. Ma tutti ci davamo da fare in certe situazioni, comunque ci volevano almeno 4 persone, serventi, uno al pezzo, al cannone a sparare, uno che caricava, uno al goniometro, un altro portamunizioni. In quella occasione furono i tedeschi a tamponare e respingere i carri russi, noi demmo il nostro modesto contributo, noi eravamo in una situazione caotica, eravamo un’accozzaglia di reggimenti, la Sforzesca, alcuni della Ravanna che non so come fossero venuti nelle nostre posizioni, c’erano rumeni, ungheresi, un miscuglio di reggimenti e razze. Noi avevamo tre o quattro pezzi ancora e con quelli venivamo chiamati da una parte e dall’altra a cercare di dare il nostro supporto.
Eravamo in continua ritirata, facemmo resistenza nella speranza che i tedeschi mandassero le loro truppe corazzate per aprirci un varco nella sacca. Noi andavamo verso Stalingrado ed i tedeschi tentavano di premere verso di noi per aprirsi un varco tra noi e loro. Alla fine ci riuscirono e noi potemmo varcare la sacca e liberarci momentaneamente dall’accerchiamento.
Si consulta una cartina
Noi girammo e girammo e andammo a finire a Voronetz e da lì prendemmo la ferrovia per a Voroscilgrad e Millerovo.
Il fiorentino, che cantava sempre “lo porti una bacione a Firenze” si era ubriacato, cadeva per terra. Lo prendemmo e lo lanciammo sul camion e sopra di lui, senza accorgercene, gli buttammo su la roba che prendevamo dalla sussistenza. In seguito sentimmo un rantolo di qualcuno che si lamentava sotto tutta quella roba, fu lì che capimmo di averlo sommerso. Aveva finito la sbornia e si stava riprendendo.
Prima di Natale ci fu un’altra scarmuccia. Eravamo con Papuli in una costruzione al riparo e qualcuno di noi sollevò il fatto che era il giorno di Natale per cui bisognava per forza, in qualche modo, festeggiare. Prendemmo la roba della sussistenza, facemmo un sugo con le scatole di salame, scatole di salame tedesco, tocchi di burro, scatole di pomodori, un miscuglio assurdo. Poi mettemmo il sugo sulle gallette e le buttammo in un sacchetto pieno di zucchero, facemmo il dolce. Mentre mangiavamo ci fu una sparatoria all’esterno. Papuli uscì con il mitra, aveva rimediato una “pistole maschine”, noi andavamo in cerca dei parabelli, lui scappò fuori e cominciò a sparare. Uno dall’altra parte urlava intimando di fermarci, era un rumeno che, avendo visto la luce da noi, voleva unirsi al festino. Per sua fortuna si buttò in un carretto abbandonato. Così ritornammo dentro e ci lasciammo andare ai festeggiamenti. Le stupidaggini che si fanno in certe circostanze, nonostante le difficoltà oggettive, sono tante e varie.
Quindi la paura era quasi inesistente.
Non paura, io direi semmai incoscienza. Si fanno le cose con leggerezza. Tanto è vero che non troppo lontano da noi dei partigiani attaccarono di notte un nostro pezzo e fecero fuori quasi tutti i serventi. Un ragazzo del terzo pezzo o forse del secondo, non ricordo bene, lo rincontrai sul treno ospedale, era massacrato. I russi erano usciti con i parabelli, si vedevano le case che andavano a fuoco, prendevano subito fuoco, erano fatte di paglia.
I feriti come potevano riuscire a salvarsi? Visto che voi avevate alle calcagna i Russi e certo non avevate dei campi stabili per accoglierli.
I feriti andavano sopra i camion, ne avevamo ancora un paio. Viaggiano con noi e quando era possibile li si mandava in avanti nella speranza di trovare un modo per dare loro aiuto e le cure necessarie per la sopravvivenza. Era ormai già visibile l’impressionante striscia nera dei soldati in ritirata, a piedi, una fila interminabile.
I tedeschi che erano con noi venivano riforniti dall’alto con i paracaduti, noi tentavamo di stare vicino a loro, ma loro non usavano cortesie, ci tenevano lontani sparandoci addosso. Non dividevano i rifornimenti che venivano dai loro aerei, nessuno aveva il coraggio di toccare nulla. Li rifornivano anche di benzina che però servivano esclusivamente ai loro camion.
Voi eravate comunque dipendenti dei tedeschi a livello di rifornimenti, anche prima.
Sì, avevano tutto i tedeschi. Alla sussistenza trovammo un paio di latte di benzina che finimmo abbastanza presto. Il giorno dopo di Natale ci mandarono in avamposto, misero prima noi e dietro di noi misero i bersaglieri. C’era una mitragliatrice dei bersaglieri che ogni tanto sparava per far vedere che c’eravamo.
Eravate in grado di fronteggiarli in caso di attacco massiccio?
No, assolutamente, ci andò bene, certo, ma fummo fortunati. Quel giorno del nostro posizionamento, in avamposto i bersaglieri erano appostati con la loro mitragliera. Noi ci rifuggiamo in una casa, avevamo in posizione il nostro pezzo da 75 ed io ero di turno di guardia. Ad un certo punto Andrei vide scappare, all’improvviso, un maialino. Prende la pistola e cerca di sparargli per farlo fuori e mangiarlo, io ero sul pezzo da 75 dietro la protezione di lastre di metallo e sento sparare. Erano dei tedeschi che tornavano verso di noi dal pattugliamento che non ci avevano riconosciuti. Quando si avvicinarono chiesi loro dei bersaglieri ma loro mi dissero che non c’erano più in avamposto; gli dissi “come, non ci sono più i bersaglieri? Noi siamo qui da soli con il cannone a fare copertura”. Ma loro ci dissero che se n’erano andati via. Allora ci affrettammo, provammo a mettere in moto i camion, era finita la benzina. In quella circostanza successe un fatto increscioso. Un soldato, che era stato ferito, chiedeva aiuto, lo prendemmo dal camion e lo mettemmo dentro una slitta, attaccato ad un cavallo, lui cercava il nostro aiuto ma noi eravamo impossibilitati a dargli una mano, e poi in quelle circostanze si è piuttosto egoisti, l’unica cosa che riuscimmo a fare e metterlo in quella slitta e lo lasciammo andare, di lì in avanti c’era la colonna di uomini, di lui non sapemmo più nulla. Avevamo perso ormai anche il cannone, avevamo buttato via l’otturatore che serve di copertura per sparare. Ci unimmo alla ritirata a piedi.
Ci sono stati momenti di panico?
Sì, quando arrivavano i carri armati c’era un viavai continuo e disordinato. Ormai eravamo incolonnati nella Colonna Carloni, i tedeschi ci facevano da argine, ci proteggevano. Avevano ancora della benzina ed avevano qualche semovente, avevano qualche pezzo da 88, erano dei pezzi grossi posizionati sui camion. Il cannone da 88 era il migliore, migliore dei nostri, una carro armato lo facevi secco mentre con il 75 solo se prendevamo i cingoli potevamo sperare di fermarlo. Si racconta nella battaglia di Serafimovič dello scontro con i carri armati ma sono stati i bersaglieri che con le mine hanno mandato per aria i carri armati. Il comandante del 120° prese la medaglia d’argento ma lui venne fuori quando tutto era finito, uscì con la pistola in pugno gridando “all’assalto” ma la battaglia era già conclusa, non c’era più nessuno. Noi nuovi arrivati spesso bevevamo tutto quello che ci dicevano dai comandi ma i bersaglieri spesso ci rinfacciavano i questa impropria attribuzione di merito.
Camminando, specie la notte che si camminava meno, venivano gli aerei che sparavano sulla colonna per disperderla. Arrivammo in un paese, non ricordo il nome, dove prima c’erano arrivati i rumeni con le slitte e i cavalli e si erano presi tutte le abitazioni. Dicono che noi italiani siamo stati sempre bravi, non è vero anche noi italiani non facemmo sempre bella figura. Entrammo in una casa dei russi, c’era sempre il siciliano di Messina che parlava alla radio, eravamo infreddoliti, arriviamo dentro, c’era una donna che ci fece entrare dentro, c’era anche suo marito. Loro dormono sul camino, hanno un letto sul camino dove dormono.
Com’è fatto questo rifugio, questo letto sul camino?
Il camino era al centro e ai fianchi c’erano dei soppalchi, uno sopra a uno sotto, delle cuccette. Noi ci buttammo per terra, eravamo sfiniti. Ad un certo punto questo messinese dice “io stanotte vado a dormire con la signora” noi cercammo in tutti i modi di dissuaderlo io gli dissi anche “ ma sei scemo? non vedi che c’è il marito, tra un po’ ci addormenteremo e cadremo in un sonno profondo, non capisci che il marito può tagliarci la gola a tutti e nessuno se ne accorgerebbe”. Lui niente, ha fatto quello che ha voluto. Mi sono sentito un miserabile per lui. Ha fatto il suo comodo nonostante ci fosse il reale pericolo di lasciarci la pelle. Come vede l’incoscienza di cui parlavo prima fa fare cose deplorevoli e come vede non sono solo sempre gli altri, solo i tedeschi o solo i russi, che hanno fatto cose di cui vergognarsi, anche noi italiani non ce le siamo risparmiate. Noi non eravamo degli stinchi di santo, certo non si può generalizzare, ma anche noi italiani abbiamo fatto cose di cui vergognarci. Il giorno dopo ci salutammo e lui si sentiva orgoglioso di aver fatto quello che ha fatto e di averci messo in pericolo, per lui eravamo noi i fessi. In certe circostanze, certe cose, erano le ultime cose che uno doveva pensare di fare, dovevamo salvarci piuttosto.
Proseguimmo quindi il cammino con la colonna. Una notte si avvicinarono dei carri armati tedeschi, i tedeschi ci proteggevano come potevano con quello che avevano ancora a disposizione. Bisognava stare attenti alle incursioni dei carri armati che facevano delle retate, si introducevano nella colonna, creavano scompiglio poi sparivano. Sia loro che i partigiani erano un pericolo imprevedibile. I partigiani si appostavano alle finestre. Purtroppo nella precedente avanzata tedesca e italiana i soldati che venivano catturati venivano lasciati nelle retrovie ai lavori nei campi. Con la ritirata si armarono e riuscivano in maniera incontrollata, avevano fatto il doppio gioco. Quando noi dominavamo, per esempio, i russi bianchi dell’ucraina erano contro i russi di Mosca, era la parte più elevata, la parte più intelligente secondo la loro concezione.
Quando eravamo a Kiev, nel nostro avanzamento verso la Russia, entrammo in confidenza con il tenente Cecchini/Cecchin, della someggiata. Una sera uscimmo ed andammo in una balka, eravamo fuori Kiev, e c’era un Kolcos, una cooperativa. Lì dentro c’era una festa alla quale partecipammo con grande divertimento, lì c’era anche una ragazza. Il giorno dopo, Cecchini, fu chiamato dal capo del kolkos, un tedesco, che lo aveva sentito cantare le opere.
Le opere le sapevate?
Mah, le sapevamo, le improvvisavamo! Questi episodi sono tutte barzellette così come le sto raccontando.
Ma lei le ha mai raccontate a qualcuno?
No, stasera mi sfogo di tutte queste cose tenute per anni.
prosegue il racconto
Cecchini ci invitò a passare una serata al comando tedesco. Doveva sentire come questa ragazza suonava il pianoforte e come cantava le canzoni d’opera italiane. Le sapeva tutte.
Quindi loro sapevano più di voi che respiravate quest’aria di cultura musicale.
Sì, in effetti è così, quella sera fu il non-plus-ultra, il tenente ci proteggeva se qualcuno avesse detto qualcosa avevamo il tenente che ci supportava, la serata fu piacevole, la ragazza suonava divinamente. In effetti era stata lei a riferire al borgomastro di invitarci alla serata, siccome era la sua pupilla esaudì il suo desiderio. Noi ne fummo orgogliosi, cantammo canzoni napoletane, fu un divertimento unico. Eravamo sempre il trio, più il tenente Cecchini, Andrei, Betti e il milanese. Andrei una volta fece una piccola sceneggiatura al comando, al capitano Alari, andò una sera con un copione dal titolo “addio alla vita”. Mi sorprese la sua “poca” fantasia, con quello che stavamo passando lui ebbe questo lampo di genio. Con Aietti quando ci ritrovammo ce lo raccontavamo spesso di Andrei e del suo “addio alla vita” e ridevamo sempre su questo episodio. Ecco, questo episodio conferma quello che le ho detto prima in merito all’incoscienza, fuori c’era la guerra ma poi succedevano anche cose di questo genere, si superava o si dimenticava per un po’ quella che era la paura. Eravamo giovani, facevamo le cose come venivano, non ci si poneva problemi e non si valutavano i rischi.
Quella sera il tedesco rimase entusiasta della nostra esibizione. La ragazza sapeva un po’ di italiano e ci disse “noi russi sappiamo molto della musica italiana”. Lei era una ragazza colta, suonava il pianoforte quindi doveva essere di buona famiglia. Il borgomastro gestiva il lavoro delle donne nei campi e alla sera suonavano la balalaica.
Com’è fatta una balalaica?
È come una chitarra ma a trapezio.
E il suono?
Tipo quello di una nostra chitarra. Ballavano a tutto spiano, c’erano molte donne e pochi uomini. Noi cantammo canzoni napoletane e romane.
Ma tornando alla ritirata. Arrivammo ad un paese dove c’erano i rumeni. Passammo la notte lì e il giorno dopo, gli italiani, rubarono le slitte ai rumeni che si svegliarono senza. Durante la ritirate le slitte rumene erano diventate italiane. Quella notte però io dormii in un’isba e non venni svegliato, mi lasciarono a piedi. Quando mi svegliai i proprietari mi fecero capire che la colonna si era messa in viaggio.
Neanche i suoi amici romani la svegliarono.
No, nemmeno loro. Per la verità ci eravamo già persi perchè eravamo agli sgoccioli e quindi ognuno cominciava a pensare a se stesso.
Ma essendo amici, non avevate creato gruppo? Non vi sentivate legati?
Sì, ma in certe circostanze ci si perdeva anche di vista facilmente. Magari si trovava un altro amico e ti aggregavi con lui perchè potevi trovare un posto migliore dove passare la notte. Fatto sta che mi trovai solo. Ero disperato perchè la colonna era piuttosto distante ma pensai anche che, essendo la colonna piuttosto lunga, l’avrei raggiunta e almeno non sarei stato solo. Mentre sto per avviarmi, e queste sono le circostanze che uno non si spiga, trovo un cavallo davanti a me. Era un cavallo secco, che cercava di mangiare le cime della vegetazione che affiorava dalla neve. Appena lo vidi gli dissi “e chi ti ci ha mandato qui? La Madonna?”. Adesso però nasceva il problema di come cavalcarlo: misi la mano nelle tasche e mi ritrovai un rocchetto di filo, lo prendo e ne faccio una cavezza, monto a pelo sul cavallo e riesco a dirigerlo.
Nonostante fosse magro e non fosse proprio comodo, riuscii a raggiungere la colonna. Quando arrivai i miei amici dissero “ammazza, ch’hai un cavallo, aspetta che m’attacco”, chi si attaccava alla coda chi si appendeva da un’altra, alla fine il cavallo si accasciò, era troppo esile per resistere a tutte quelle persone.
Da adesso in poi eravate nel completo disarmo. Cosa avevate addosso?
Dalla sussistenza avevo trovato tre maglioni, uno sopra l’altro, una giacca nuova (un pastrano), una pelliccia senza manica dei tedeschi, tre quattro paia di calzini per potermi cambiare. Eravamo pieni di pidocchi. Quando ci fermammo alla sussistenza provammo a bollire i panni, che mettevamo fuori ad asciugare ma rimanevano rigidi come dei tronchi. Per fortuna trovammo altri indumenti e quelli con i pidocchi li lasciammo lì. In quella occasione feci bene a far rifornimento di sigarette e indumenti. Sul nostro camion avevamo due forme di parmigiano che con l’accetta cercammo di tagliare. Un certo Passalacqua, un siciliano che mi chiamava “marmellata” perchè in tempi migliori mangiava con me la marmellata squisita che mia madre mi spediva al fronte, voleva mangiare a tutti i costi: “ch’ho fame” continuava a ripetere. Io, ormai stufo, cominciai a tagliare i tocchi di parmigiano. Mangia un tocco, mangia un altro, finisce che diventa giallo dall’itterizia, cominciò a sentirsi male: “oddio, oddio, mi sento male, devo andare al bagno”. Eravamo sul camion così gli dissi “non possiamo fermarci perchè tu devi andare di corpo”. Allora, concitati e pur di non fermarci, lo mettemmo con il sedere fuori sulle sponde e, mentre il camion continuava la sua corsa, lui evacuò. Questi sono episodi da cinematografo, nell’assurdità della guerra c’erano anche situazioni ridicole come queste, se lo immagina? Noi a reggerlo e lui appeso ad un camion?
Un’altra volta andai ad aprire il portamunizioni per mettere delle cose dentro e ci trovai delle galline dentro, altri soldati avevano rubato le galline a quei poveri contadini russi e le avevano inguattate lì dentro.
Questa situazione credo la racconti anche Papuli nel suo libro.
Sì, immagino di sì. A me non piacevano le galline. Eppure avevamo una fame! Una volta, quando andammo dai rumeni, trovammo una gallina sopra un tetto. Alla vista del pennuto non parve vero a nessuno, era come una visione, con la fame che c’era! Sembravamo dei ragazzini intorno ad un animale curioso, qualcuno diceva “tiragli qualcosa” e l’altro che faceva baccano dall’altra parte. La presero e la cucinarono e la mangiarono con tutte le penne, io non ci sono riuscito a mangiare il pollo nonostante la fame. Una volta riuscii a mangiare una coscia di gatto, eravamo all’osservatorio, in un bunker. Sentimmo tutto d’un tratto un gatto che strepitava, si andò tutti in allarme per l’animale. Mentre si cercava di rincorrerlo il gatto entrò nella cappa della stufa. Ci mettemmo in assetto di combattimento, c’era chi era sotto la cappa chi invece usciva fuori, sopra l’imboccatura, un altro si apposto con il fucile nel tentativo di farlo fuori alla sua uscita. Noi eravamo sotto ed accendemmo il fuoco per fare del fumo in modo che il gatto scappasse. Appena il gatto uscì fuori “poom” gli sparò, così ci mangiammo il gatto, io ne mangiai un pezzettino, non ricordo il gusto, per la fame mangiai anche quello, povera bestia non aveva nulla di carne, anche lui non aveva da mangiare tranne che qualche topo.
Con la colonna poi ci spostammo in un altro paesetto, il nome non lo ricordo come del resto non ricordo tanti altri posti.
Il fatto che lei non li ricordi non mi stupisce affatto, anche gli ufficiali scrivono di non ricordare, spesso hanno ricostruito le tappe al loro ritorno.
Per noi era difficile riuscire ad orientarsi, spesso si andava in sù, poi si tornava giù, poi di nuovo indietro. I tedeschi erano più informati di noi, con le radio riuscivano ad avere in mano la situazione, riuscivano ad orientarsi meglio. Più delle volte erano loro a darci le indicazioni dei paesi da seguire. Le segnaletiche non le si leggeva, non ci si faceva caso. Mi ricordo di un caporal maggiore, un abruzzese, eravamo in una situazione per cui eravamo stremati, c’erano persone che cadevano da una parte chi dall’altra, se ci si fermava si era finiti.
Perchè eravate finiti?
Perchè appena ci si fermava, con la stanchezza, si entrava in una specie di torpore per cui non si aveva più la forza né la voglia di rialzarsi, questo immobilismo portava inevitabilmente al congelamento.
Fermarsi voleva dire quindi addormentarsi e in seguito gelarsi?
No, non proprio. Immagini di camminare e ad un certo punto non ha più le forze per continuare, a quel punto si sente che ci si riposa. Così ci si sta dieci minuti, poi magari un altro poco, un quarto d’ora, poi mezz’ora e poi si finiva che non si avevano più le forze per rialzarsi, a quel punto si era finiti. Si cominciava a mangiare la neve e anche sotto le incitazioni dei compagni non si ha la forza di reagire. A me è capitato qualcosa si simile, stava per succedere anche a me. Come le stavo dicendo, quando arrivammo a quest’altro paese, prima del punto in cui poi prendemmo il treno, camminavamo e mi venne un forte desiderio di fermarmi per riposarmi un po’, pensai “adesso mi fermo un poco”. Un caporal maggiore mi disse subito “ma sei scemo? Cammina!” io continuavo a dire “non ce la faccio più, non ce la faccio più”. Feci uno sforzo enorme per fare centro metri. Quando raggiungemmo il paese trovammo i tedeschi che subito inveirono contro di noi “raus, raus, raus”, ci cacciarono via, così raggiungemmo un’altra abitazione, eravamo rumeni, italiani, un po’ di tutto, nella casa ci saranno stati ventri, trenta persone stipate l’una con l’altra. Per me quei metri sono stati un tormento, se non ci fosse stato quel caporal maggiore a dirmi “cammina, cammina, nun te fermà, nun te fermà” adesso non sarei vivo. Quel torpore è micidiale, ti senti come rilassato e piano piano ti stringe nella morsa del gelo passando per il sonno. In tanti sono morti in quel modo. La mattina dopo riuscimmo a prendere il treno, salimmo sui pianali senza sponde, senza nulla. A noi importava poco che non fosse riparato, l’importante era che non si camminasse. Era l’ultimo treno che veniva da Voroscilgrad, da Voronez partiva e andava a Vorosilgrad, facemmo tutta la notte al freddo, un freddo micidiale che tentavamo di tamponare con le coperte, ci coprivamo la testa per ripararci un po’.
Ma si riusciva a dormire in quella situazione?
Macchè, nulla. Il freddo era tremendo però si sopportava perchè ormai eravamo su un treno che ci avrebbe portato verso le strade della salvezza. Arrivati a Voroscilgrad scendemmo e a piedi ci dirigemmo verso Nova Orloka. Lì ci sistemarono nella case di un villaggio, si chiamavano tutti con il nome Orloka, Orloka-Novo Orloka ecc. Nelle balche del villaggio veniva distribuito il rancio, si cercava di rimettersi in sesto, forse cominciavamo a stare meglio. Una sera mi dissero che saremmo dovuti andare a prendere il pane. Tutti volevano andarci perchè si avrebbe avuto la possibilità di rimediare qualche pagnotta. Così andammo alla sussistenza e, appena entro, trovo un’amaca piena di impasto di pasta fresca non esitai a prenderne un po’ con la camicia, mi si appiccicava tutto addosso ma non ci badavo. Presi con me anche il sacco che mi diedero con le pagnotte, 12 pagnotte, e qualcuno si raccomandò di portarle tutte e dodici: “guarda che hai dodici pagnotte, le devi portare tutte e dodici”. Quando tornai dai miei amici e videro la pasta erano in visibilio, non potevano crederci. Ci affrettammo a organizzare un’infornata in un’isba, nei forni caratteristici di quelle case. Quando l’impasto cominciò a gonfiarsi a dismisura tagliavamo i pezzi che tendevano a venire fuori, tutti esclamavano “anvedi che bel pane!”, era troppo bello per essere vero, avevo portato del lievito. Lo mangiammo lo stesso! Caldo di forno era buonissimo, non mangiavamo una cosa così da chissà quanto tempo. Non sapevamo che fosse lievito, il tepore del cibo caldo ci impediva di distinguerne il sapore del lievito. La notte avemmo tutto la netta sensazione di un gran gonfiore, mangiammo del lievito che nella sussistenza prepararono per fare il pane per tutti. Era sorprendente come il nostro corpo reagiva a certi disagi, anche quando bisognava lavarsi al freddo e al gelo, si usciva a torso nudo e lo si faceva senza esitazione, non ci è successo mai nulla.
Qualche giorno a seguire, e qui entra in gioco il destino, sono di pattuglia per Novo Orloka, io e un altro soldato di questi aggregati. Dovevamo controllare se ci fossero russi e se passavano aerei. Ad un tratto come d’incanto sento una canzone e, indovini cos’era?, “Violino tzigano”: è una canzone molto conosciuta “oh, violino tzigano na na na na, oh violino tzigano” lo cantava anche Villa. Ci avvicinammo all’isba dalla quale proveniva e vedemmo una signora che ascoltava musica italiana da un grammofono. Entrammo e l’ascoltammo credo “duecento volte”, appena finiva lo rimettevamo, fuori era passato tanto tempo ma lì dentro eravamo tornati in Italia, sentivamo canzoni italiane, questo ci faceva sentire a casa, una voce di un cantante italiano, della pattuglia ce ne fregammo, sarebbe potuto passare chiunque in quei momenti, non ce ne fregava nulla. Passarono degli aerei che bombardarono ma per noi la musica italiana ricopriva ogni timore. Quel disco me lo comprai appena tornai in Italia, un 45 giri.
La corrispondenza? Anche quello era un modo per sentire la casa più vicina, ha conservato le lettere?
No, nulla. Ho scritto qualche cartolina e ne ho anche ricevute qualcuna ma durante la ritirata non ho badato a queste cose. Succedevano cose davvero strane. Quando ci fu lo sfondamento, i tedeschi ci dissero che avremmo dovuto sfondare la sacca, i russi ci avevano circondato. Questa colonna tedesca veniva verso di noi e noi andavamo verso di loro nel tentativo di rompere la sacca e incontrarci, avremmo dovuto sfondare, loro ci avrebbero coperto. In quella situazione salii su un camion e lì, tra la confusione generale e lo scompiglio che i carri russi portavano, rincontrai i miei amici Andrei e Aietti. In quelle circostanze non avevamo nulla, eravamo disarmati, avevamo solo una coperta per poterci coprire le spalle per coprirsi dal freddo, il fucile pesava, lo avevamo buttato, avevamo buttato via tutto. Solo alcuni che erano su qualche carro avevano con sé un’arma. Appena siamo usciti fuori dalla sacca fummo rifocillati dai tedeschi. Ci rifugiammo in un paese diroccato dove passammo la notte. Io mi trovai un bel posto, un rifugio sicuro in una cantina, di quelle che i russi usano per ripostiglio dei viveri. Quando vi entrai c’era già un altro. La mattina, quando mi svegliai, mi accorsi di aver dormito al fianco di un morto, era senza testa. Mi alzai e con nessun segnale di turbamento me ne andai.
Non le ha fatto impressione?
In guerra non ci si fa più caso, spesso si perde il senso delle cose. Avrò dormito un paio d’ore al suo fianco, non mi accorsi del fatto che era morto, arrivammo che era già buio. Quando ci si risvegliava il primo pensiero era seguire il percorso da fare per mettersi in salvo. Certi episodi erano dettagli da superare, c’erano cose che avevano la priorità in certe situazioni, bisognava salvarsi. Si seguivano le indicazioni che passavano di soldato in soldato, qualcuno diceva “andiamo a prendere il treno” e tutti si muovevano in quella direzione.
Quel giorno, prima di prendere il treno, mi fermai nei pressi di un cascinale, cercavamo un posto per la notte. C’era della paglia, ci buttammo lì dentro, sulla paglia, ma nonostante tutto sentivamo un certo dolore alla schiena. Al mattino guardammo sotto e trovammo un tocco di carne. I russi, i proprietari del cascinale, l’avevano nascosta. Provammo ad addentarla ma era ghiacciata, dura, impossibile da mangiare, l’avremmo dovuta cuocere ma non avevamo tempo. In seguito prendemmo il treno e quella notte, sul treno, fu un disastro. Ci furono molti congelati, sul pianale eravamo scoperti. Con le coperte avevamo fatto come delle capanne ma noi fummo fortunati perchè avevamo davanti a noi una sponda che ci copriva minimamente dal gelo diretto. Nonostante questo le coperte erano diventate dure e rigide come cartone. Chi non aveva avuto la fortuna di avere un riparo simile si era congelato, la coperta messa sopra non serviva a nulla. Arrivati a Novo Orloka ci restammo tutto gennaio 1943 e i primi di febbraio. Quel matto di Carloni, in quella occasione, dichiarò la “Colonna Carloni” a noi del 120° e ai bersaglieri in generale ci disse “voi artiglieri avete il distintivo dei bersaglieri quindi, da adesso in poi, sarete dei bersaglieri!”. Ci guardammo perplessi l’uno con l’altro quando ci disse “chi non ha il fucile non avrà diritto al rancio”. Con queste parole voleva in qualche modo punire o comunque mettere in guardia chi nella ritirata aveva buttato il fucile per cui da quel momento si dormiva con il fucile legato al collo.
Così la Colonna Carloni non viene dichiarata subito…
No, dopo. Non so cosa abbiano fatto gli ufficiali nell’ambito del comando, Alari, Papuli, Gianoglio, D’Aquino, i nostri ufficiali non so come abbiano sistemato la questione con Carloni. C’era rimasto qualche cannoncino e con i fucili facemmo qualche esercitazione e pian piano ci avviammo verso Pawlograd. Lì arrivammo alla stazione, la presidiavamo e davanti a noi c’era il bosco. C’era il sospetto che potesse arrivare un treno con i russi, sapevamo della loro presenza nei dintorni. Dovevamo fare un punto di resistenza per la colonna in ritirata, eravamo la loro retroguardia. Avevamo, come le ho detto, una mitragliatrice Breda e dei fucili, l’artiglieria non l’avevamo più. Una sera eravamo davanti ad un fuoco a riscaldarsi alimentato da canne e altri residui infiammabili. La sera mi misero di avanguardia dentro il bosco. Una compito alquanto assurdo, io avevo una “fuciletto” dei carabinieri con la baionetta innestata e qualche caricatore in dotazione.
A quel punto vi siete rifiutati?No, però al primo albero ci fermavamo. Era un suicidio inoltrarsi nel bosco. Bastava entrare anche solo cinque o sei metri dentro per rischiare un’imboscata. Ci si fermava una mezz’oretta e si ritornava indietro al fuoco. La mattina invece ci fu una sparatoria. A quel punto Papuli e gli altri decisero che bisognava andare al comando a prendere gli ordini, era inutile e rischioso rimanere a presidio in quelle condizioni. Quindi ci dirigemmo verso il comando. Così Papuli ci disse “chi vuole andare volontario di pattuglia?”. Io mi proposi e con me il sergente Martini, un mantovano, e un altro, eravamo in tre. Non avevamo radio quindi dovevamo recarci di persona da Alari e D’Aquino per capire cosa avremmo dovuto fare, se ripiegare o cosa fare. La distanza da percorrere era circa un chilometro. Mentre camminavamo, a venti metri da un incrocio, mi cadde il cappello, la bustina, mi fermai per raccoglierla e quando alzai gli occhi vidi Montanari con le mani in alto. Mi sporsi un po’ e notai un cannoncino russo appostato.
a questo punto una telefonata interrompe il dialogo e quando riprende Betti dice…
“stasera m’è pijata la vena” (questa sera sono in vena, di raccontare). Devo dirla la verità, queste cose non le ho raccontate mai a nessuno. Perchè, non lo so, all’inizio non volevo parlarne, ho sempre pensato che non interessasse a nessuno e poi non volevo passare per quello che chissà cosa ha fatto. Adesso però, quando vedo certe situazioni, i ragazzi di oggi… credo sia il momento giusto.
Dicevo che eravamo in una situazione critica, al comando c’era tutto fuoco. Li avevano fatti tutti prigionieri, sia il capitano Alari e anche un amico di Papuli, uno di Gualdo Tadino, uno degli ufficiali più anziani del 120° che poi tornò dalla prigionia (lui è morto ma la moglie deve aver conservato anche delle foto del fronte russo. Di Alari non so nulla, mi ricordo solo che era un tipo orgoglioso). Vedendo questa situazione decisi di tornare indietro, ormai avevo capito che i russi erano arrivati, il comando non c’era più. Appena mi girai notai che i russi si accorsero della mia presenza così mi misi a correre ma subito ebbi come l’impressione di una spinta, come se qualcuno mi avesse volutamente fatto cadere. Caddi in avanti, e ripersi il cappello, di istinto mi rialzai e raggiunsi il cappello, la paura del freddo era entrato nel mio cervello come un fatto automatico. Mentre lo riprendo il cappello vedo un russo venire verso di me, scoprii dopo che mi aveva sparato. Mi dirigo verso la strada battuta in precedenza che passava dietro delle balke, e incontro un altro compagno, anche lui venuto di pattuglia ma che era rimasto un po’ indietro, a quel punto gli dico con concitazione “ci sono i russi, ci sono i russi” così lui comincia a sparare per cercare di fare un po’ di rumore. I russi devono aver interpretato questi spari come la presenza di altri soldati italiani così si dileguarono. Davanti a noi c’era una staccionata di una certa altezza, il mio compagno con un salto deciso la supera senza esitazione, io tento di fare la stessa cosa ma mi afferro con una mano ma l’altra proprio non mi segue. Mi guardo e mi accorgo che sono macchiato di sangue. Lì mi sale lo sconforto e comincio a gridare verso il compagno che intanto scappava “ah disgraziato, vienimi ad aiutare”, quello aveva preso la sua strada e non aveva nessuna intenzione di tornare indietro, con la forza di volontà di salvarmi la pelle sono riuscito a superare la staccionata. Mentre mi dirigevo verso gli altri compagni il soldato che mi precedeva li aveva già raggiunti e si erano messi in posizione di difesa con una mitragliatrice che avevano posizionato in mezzo alla strada. Pensi come eravamo ingenui, mettersi in mezzo alla strada, così in vista da poter essere un facile bersaglio di tutti i partigiani che si appostavano alle finestre. Io arrivo trafelato e di corsa e riferisco al tenente Gianoglio che il comando “è tutto saltato in aria ed è andato a fuoco tutto, non c’è più nessuno” lui allora “ritirate tutto, rimontate sù”. Aietti, Fausto, che mi vede sanguinante, prende l’occorrente del pronto intervento e mi mette un impacco sotto l’ascella, mi mette una cintura intorno al petto stringendo per fermare il sangue. A quel punto Papuli e gli altri ci fanno salire sui camion e ci dirigiamo verso un ponte tra una sparatoria disordinata e confusa. “Bisogna attraversare il ponte, bisogna andare dall’altra parte” dice qualcuno, così passammo per la piazza e vedemmo dei partigiani penzolare dai rami degli alberi che erano stati impiccati dai tedeschi ancora appostati lì con i loro carri armati che sparavano a destra e a manca. C’era in atto una sparatoria che non capivamo, creava un certo disorientamento. Arrivati sul ponte “adesso si scende e si attraversa il fiume a piedi” il fiume era gelato per cui si poteva passare agevolmente sopra a piedi. Dall’altra parte c’erano altri italiani, bisognava raggiungerli ed unirsi a loro.
Che fiume era?
Non ricordo, comunque non era un fiume noto, un affluente che passa per la città di Pawlograd. Passare il fiume con i camion non era agevole perchè il ghiaccio cedeva sotto il loro peso. L’autista, con il quale ero salito – io ero ferito, perdevo sangue e, oltretutto, avevo gli alluci congelati e non potevo passare a piedi – comincia ad agitarsi e a dire “io non ci passo, non riesco a passarci”. Eravamo nei pressi del ponte, io ero nel cassone e avevo messo una fila di zaini a ripararmi nel caso ci avessero sparato, mi feci scudo con quelli mentre lui era effettivamente in cabina ed era vulnerabile. Cominciai a pressarlo “devi passare, forza dobbiamo passare il ponte”. Ad un certo punto si convince, mette in moto, si mette giù e parte a gran velocità, ci spararono un po’ di colpi, tre, quattro colpi sul cassone ma riusciamo a passare indenni con il nostro 626. Dall’altra parte c’erano Papuli, Aietti, andrei e gli altri che nel frattempo ci avevano preceduti passando a piedi sul fiume al riparo dai colpi dei partigiani. Facemmo più di duecento chilometri per arrivare a Dnijepropetrowsk, all’ospedale. Io ero in cattive condizioni, il sangue si era congelato addosso e per fortuna si bloccò il flusso, avevo tutto appiccicato. Papuli si premurò di farmi portare in ospedale e, una volta raggiunto, mi lasciarono e ripartirono in macchina. Arrivato all’ospedale un infermiere che mi vede arrivare mi dice “e tu? Che vuoi?” io gli dico “sono stato ferito sono stato portato appena adesso dai miei compagni” allora lui mi dice “aspetta qui che arrivo”. Dopo un po’ torna e mi comincia a rasare i capelli. Io allora inveisco “ah, disgraziato, ma che combini? Qui fa freddo se mi tagli i capelli muoio dal freddo” ma lui deciso “ah, non mi interessa nulla, qui è la regola” e prosegue imperterrito a raparmi a zero. Per fortuna che aveva un passamontagna che indossai subito per alleviare quella sensazione di freddo alterata dalla rasatura. Aspettai il dottore tutta la notte, tribolavo, soffrivo su quella branda. Quando arriva il dottore il giorno dopo dice subito “e tu? che hai fatto qua? Questo bisogna portarlo via di qui, bisogna portarlo al treno ospedale, a che ora parte l’ultimo treno?” e qualcuno “oggi pomeriggio”, “benissimo” dice lui “allora bisogna portarlo in tempo per metterlo sul treno che parte nel pomeriggio, dategli una pulita alla ferita”. La mia ferita era stata dovuta da una pallottola esplosiva ma per fortuna quando mi spararono indossavo una serie di indumenti a strati: la camicia, il pastrano tedesco, il pastrano italiano e una serie di maglioni, mi ero fatto un bello strato di indumenti. La pallottola esplose in questo strato, se fosse entrata dentro la carne mi avrebbe devastato. Nonostante tutto mi lacerò l’ascella, una ferita aperta sotto l’ascella nella quale si infiltrarono una serie di micro schegge che mi porto ancora adesso. I medici mi hanno detto che non vale la pena toglierle, sono tra la carne, se non vengono sollecitate non provocano problemi. Venni mandato quindi al treno ospedale che si diresse diretto verso l’Italia, impiegò tre quattro giorni per arrivare. Nel treno si stava bene, passavano tutte le mattine per le medicazioni. Lì incontrai un ragazzo che era del secondo pezzo che erano stati attaccati una notte. Era in uno stato davvero grave, era stato crivellato, era ridotto talmente male che forse gli dovettero amputare anche una gamba. Arrivammo a Verona, le giovani fasciste ci diedero delle caramelle, dei biscottini. In quella occasione spedii una cartolina a mia madre dove scrissi “cara mamma, sono in Italia, sto bene”. Mi ricordo che mia madre, me lo raccontava sempre, era in chiesa dove andava sempre a pregare per noi tre fratelli. L’ufficiale postale, quel giorno, le recapitò la mia cartolina, proprio mentre era in chiesa.
Immagino che lì fu anche emozionante il contatto con i connazionali e il ritorno a casa.
Eh sì, lo è stato! Ero ritornato in Italia, questo implicava certamente una serie di riflessioni. Da Verona ci mandarono a Piacenza all’ospedale militare e lì mi curarono e mi accudivano. In quell’ospedale ci furono anche momenti di gran divertimento, delle gran barzellette, chi ne raccontava una chi un’altra. Da Piacenza mi trasferirono poi a Cremona e da lì a Roma. La ferita non riusciva a chiudersi. Un dottore nuovo allora tentò un’altra strada alla medicina chiusa tra quattro mura. Mi disse “Senti, adesso ti faccio una base per andare ad Igea Marina, vai lì e dalla mattina alle 8,00 fino alle 11,00 metti la ferita al sole”. Fu miracoloso, con una decina di giorni la ferita mi si cicatrizzò, tutti quei “rigurgiti” di liquido dalla ferita finirono. Insomma passò così.
Con i familiari?
Eh, con i familiari è stato… insomma… davvero toccante ed emozionante.
Mio fratello era stato trasferito a Tolbruk, un altro mio fratello era in Germania, perciò è stato un incontro che… che non riesco a descriverlo per quanto fosse… emotivamente forte. Un fratello era stato trasferito ai guastatori. Mia madre fece di tutto per non mandarcelo ma lui si mise in testa di arruolarsi volontario nei guastatori con il colonnello che combatté ad Al Alamein, che costruì anche un mausoleo, erano i primi gruppi di guastatori e lui volle andarci. Lo mandarono subito a Tolbruk e lì rimase ferito. Quando ci ritrovammo era un incessante rincorrersi, arrivarono i miei, mio padre, mia madre e i miei fratelli. E’ stato un momento così… emozionante ma bellissimo.
Poi ci sono stati i momenti belli in ospedale. Facemmo delle cose che a pensarci adesso non so come fosse possibile che succedessero. C’era uno che si era messo in testa di controllare la suora, di vedere cosa faceva quando spariva dalla nostra vista, aveva covato dei sospetti. In ospedale ci veniva distribuito un bicchiere di vino rosso, dicevano che ci faceva il sangue, quindi la suora ci distribuiva questo bicchiere ma sempre con due dita di meno. Il mio compagno diceva “ma, com’è possibile? Con un fiasco di vino ci deve fare un certo numero di bicchieri pieni per tutti e invece ci troviamo con due dita di meno a testa, devo arrivare a capo della questione”. Fatto sta che la seguì in bagno e la colse sul fatto, la suora, di fronte alle sue compagne, con la scusa di lavare il fiasco, si recava in bagno e tragugiava la bottiglia scolandola.
Ad Igea Marina c’era un altro compagno di stanza che invece si lamentava, aveva la gamba tagliata. Quando eravamo in spiaggia, lui faceva le sabbiature, gli costruivamo un prolungamento della sua gamba con la sabbia e infondo gli facevamo solletico. Il moncherino si muoveva inspiegabilmente, era talmente sensibile che il moncherino si muoveva tutto lui allora “fermi che mi fate il solletico” e noi a dirgli “ma guarda che stiamo toccando la sabbia com’è possibile che ti facciamo solletico?” ma lui insisteva “fermi, fermi, mi fa solletico”.
C’era un altro che si lamentava sempre “Oddio, Oddio” diceva. Alle 8,00-8,30 le suore sistemavano e andavano via, lasciavano la sala operatoria. Una notte arriva uno che finge una telefonata “pronto pronto, sala operatoria, dov’è il soldato che lo devo operare?” e lui “ma no, dottò, ma che sei matto?” allora noi lo mettemmo sulla barella e lo portammo diretti in sala operatoria, gli levammo la fasciatura. Mentre facevamo questa finta operazione arriva la suora “che state facendo?” e noi “niente, ce stiamo a divertì”. Pensi un po’ cosa facevamo, gli togliemmo persino la fasciatura che gli avevano messo due o tre giorni prima in seguito ad una operazione. Eravamo incoscienti, ventenni nella loro puerile incoscienza. Per la verità, in guerra, c’erano anche quarantenni. L’ufficiale di Gualdo Tadino era quarantenne, era uno dei primi ufficiali del 120° mi pare fosse del 20° artiglieria, era un tenente, uno dei vecchi, era al comando. Il capitano era una lenza con le russe! Era un bell’uomo, imponente. Le racconto un’altra. A Natale, nel periodo prima di Natale, arrivarono i pacchi “oh, arrivano i pacchi!” erano della beneficenza, non so se di partito o cos’altro, insomma dei pacchi dall’Italia. Ci mettemmo in fila per ritirarli, il comandante del 120° ci fece il discorsetto “ecco a voi tutti i regali, state bene”, era prima che succedesse il macello. Quando lui andò via e stiamo per prendere i pacchi “Alt!” ci misero in tre e consegnarono un pacco “il pacco va diviso per tre. Uno, due, tre, un pacco. Uno, due, tre, un pacco”. “ma come?” dicemmo noi “prima mi dici che arriva un pacco per uno e poi lo fai dividere in tre?” Fu una beffa!
Un’altra volta, eravamo in ritirata, arrivarono i tedeschi “bisogna ritirarsi”, noi avevamo il camion della sussistenza, ci giriamo e il camion sparisce con tutta la roba, e ce n’era di roba! Qualcuno era salito sul camion ed aveva tagliato la corda, per scappare via di corsa finì dritto nelle mani dei russi, lui invece di seguire la colonna pensò bene di raggiungere un paese vicino dove però c’erano i russi, non sapemmo che fine fece, forse pensava di fare il furbo, si diresse verso quel paese dove sapevamo che c’erano i russi per cui sicuramente fu preso, quella volta rimanemmo senza sussistenza.
Vede, più ne racconto più mi riaffiorano alla memoria, sono cose che ho raccontato poco, a mio figlio le ho raccontate alcune cose ma poi pensi sempre che dall’altra parte non ci sai un reale interesse, per un senso di discrezione per cui non mi sono mai sfogato come ora.
Di vicende ce ne sono state, la fatica è stata tanta. A volte però, quando leggo nei giornali delle violenze di truppe sulla popolazione, penso che spesso dimentichiamo cosa abbiamo fatto noi italiani in certe circostanze. Quando arrivavamo nei paesi anche noi facevamo razzie, non eravamo sempre immuni da certi comportamenti. La guerra è guerra, c’è la dura legge del chi spara per primo e quando non ci si spara, ogni espediente è lecito. C’è stato un soldato che si era rivenduto sette volte il suo maglione, per ben sette volte aveva approfittato della vendita dello stesso maglione per un po’ di granturco. Quando entrammo da Orloka, ci sistemarono nelle dimore delle famiglie del posto, eravamo distribuiti tra i cinque e gli otto soldati in ogni famiglia. Questo soldato, che era con noi, tornò con un sacco di granturco macinato. Noi gli chiedemmo “ma dove lo hai preso” e lui “ho venduto il mio maglione diverse volte”. Il furbo gli cedeva il maglione in cambio del granoturco poi tornava in un secondo momento per riprenderglielo intimandogli che altrimenti lo avrebbe denunciato per furto. Il malcapitato lo restituiva e lui andava da un altro per ripetere la stessa strategia.
Non avrebbe fatto prima a rubarglielo? Immagino però che rubarlo poteva costargli una punizione, giocava d’astuzia ma il risultato era lo stesso.
Sì, abusava della loro impotenza, la popolazione era remissiva.
Comunque a parte questi episodi incresciosi il ricordo più bello che ho è legato a quell’episodio del “violino tzigano”. Sentire quella canzone italiana, quel tango in italiano, era una medicina per l’anima, mi sentivo già in Italia, dentro casa. Fuori poteva succedere di tutto, non mi sarei mosso, non me ne sarebbe fregato nulla.
Tutto quello che si dice sul sentimento patriottico in verità è un sentimento naturale che si risveglia da solo, non c’è bisogno di indottrinamenti per alimentarlo o per costruirlo, è dentro ognuno di noi e la lontananza lo rafforza.
Sì, credo di sì e quando sento quella canzone il mio pensiero va a quel giorno in Russia quando ascoltando quella musica fui talmente stregato che il bombardamento notturno degli aerei russi che illuminavano la zona non mi smossero, non andammo fuori e vedere, avevamo il nostro violino tzigano con il quale improvvisammo anche un ballo a due con il mio amico di pattuglia. Che bei ricordi.
Sembrerebbe che da quella esperienza, per fortuna, le siano rimasti i ricordi più belli.
Sì, ma non solo quelli belli, anche quelli brutti non si dimenticano. L’episodio di Carloni che uccise un nostro artigliere, seppure per sbaglio, mi rimase come un qualcosa che non riuscii e non riuscimmo a mandare giù. I tedeschi non lo consideravano, era stato lui a mettersi in mezzo per costituire la colonna, lui pensava che così come il figlio aveva perso la vita in guerra, in egual misura, noi potevamo rischiarcela. Per questi fatti fu promosso colonnello, fece la sua carriera, tornò e si unì alla Repubblica di Salò, divenne generale o non so cosa. Il comandante del terzo battaglione (terzo bersaglieri), che lo aveva preceduto, al quale, anche a lui, era morto il figlio, era di un altro carattere, i bersaglieri ne avevano grande ammirazione e grande rispetto.
Secondo la sua visione Carloni non era un gran comandante.
No, era un arrivista, ai tedeschi davamo fastidio perchè eravamo di peso, non avevamo nulla, era rimasto tutto nei magazzini. A Millerovo c’erano i magazzini centrali di tutta l’armata dell’Armir, c’erano i cannoni, le munizioni. A Orloka con le cartucce, togliendo l’ogiva, ci si accendeva il fuoco. In quei magazzini provai a farlo con certe cartucce e vedevo che l’ogiva si piegava, aveva preso delle pallottole a salve, in quell’ammasso di roba c’era di tutto.