Intervista a Gino Papuli

di Achille Omar Di Leonardo

Terni, 3 marzo 2007
Quello che segue è la trascrizione audio dell’incontro, avvenuto il 3 marzo 2007 a Terni. La chiacchierata iniziò con l’analisi delle foto di un mio zio disperso (Achille Di Leonardo) nella campagna di Russia. La chiacchierata poi divaga. Ho preferito lasciarla così come si è svolta, spontaneamente, tentando qua e là di renderla più comprensibile alla lettura. Lo stesso Papuli riteneva superfluo che pubblicassi certi passaggi, non del tutto utili per il sito. Credo però che anche le divagazioni, siano un utile mezzo per conoscere meglio la persona e quindi penso che sia comunque utile lasciare integra la conversazione per dare al lettore un’idea più completa del reduce:  di quello che è stato prima, durante e dopo la guerra, di come eventualmente questa esperienza li abbia cambiati e del loro percorso professionale.

Si comincia a parlare del suo percorso formativo…

Dopo la guerra ho ripreso gli studi universitari, ma a Roma non riuscivo a tenere il passo che desideravo, così con un amico ci siamo trasferiti a Pisa, dove mi sono laureato, sono stato un anno esatto lì. Credo di aver fatto qualcosa che nessuno abbia mai fatto, feci dodici esami e la tesi.

Un impegno notevole! Ho sgobbato giorno e notte.

Ci credo che sia stata dura, ingegneria è una delle facoltà più impegnative per non dire la più difficile. E’ stata dura! Dopo la laurea è cominciata la mia occupazione con la “Terni società per l’industria e l’elettricità”, poi ho fatto carriera, ho girato sempre, il mio lavoro mi portava spesso fuori.

Quindi ha lavorato come libero professionista? No, sempre come dipendente. Poi sono stato nelle Acciaierie per 24 anni, successivamente sono passato al gruppo Fiat che aveva acquistato uno stabilimento siderurgico, sempre qui a Terni. Sono stato lì dal 1975 al 1980. Quindi sono andato in pensione come dirigente Fiat a 60 anni, non a 65. Questo mi ha permesso di coltivare i miei interessi e dedicarmi a lavori privati. Avevamo una società di lavoro aereo a Roma, la “Sorem” che ha preso da noi il nome, oggi gestisce gli aerei per l’antincendio. Se lei nota, i canader, quelli di colore giallo, di fianco, riportano la scritta “Sorem”. Mi sono occupato quindi di questo, sono stato amministratore per un po’ di anni. Anche l’archeologia industriale mi ha dato molto da fare. A questo proposito le regalo questo mio libro sull’archeologia industriale di Terni.

Grazie, ero molto incuriosito a riguardo, la mia ignoranza in merito è abissale non sapevo cosa fosse prima di aver fatto una ricerca su internet. Qui troverà la storia di Terni con riferimenti fotografici. Si commenta la copertina…

Questo è il monumento che si vede davanti alla stazione di Terni? No, quella è una pressa. Agli inizi, in acciaieria, lavoravamo con questa pressa, è un mio retaggio.

Ed è stata portata lì come monumento? Esatto. Quella è “figlia mia”, in effetti, perché fui io a salvarla dalla distruzione e proporla come monumento. Non è stato facile, ci ho messo 18 anni per poter portare la pressa dove la vede adesso. Non è proprio un giocattolo, pensi che pesa duemila tonnellate di rottame e il costo di questo peso, nel 1999, al solo prezzo di rottame, ammontava a 400 milioni di lire.

Non l’hanno presa per pazzo? Spostare una pressa di quelle dimensioni per portarla all’aperto non deve essere stata impresa facile. Devo ammettere comunque che ha un suo fascino, ha un aspetto molto moderno, come potrebbe presentarsi un’opera d’arte monumentale, grandiosa. È presente anche una sala illustrativa che si può visitare per leggerne la storia e capirne anche la struttura. La pressa, che vede oggi lì, si presenta nella sua interezza, a ragion veduta, in verità una parte era interrata. Il piano di lavoro era da un certo livello in sù, per il resto era sotto terra, l’omino di riferimento riprodotto sottolinea questo livello al di sotto del quale era presente la traversa che permetteva la sollecitazione delle dodicimila tonnellate.

Con questa pressa si potevano fare ogni tipo di forma? Beh, sì, cambiando gli stampi?Quando è stata istallata, nel 1935, faceva le corazze per le navi, per i cannoni, i grandi cannoni. Poi, dopo la guerra, invece, ha fatto grossi pezziper l’industri pesante.

Ma come funziona nella realtà? Qui ci sono tre cilindri e questa è la traversa mobile, quindi è un sistema chiuso: quattro colonne con due traverse fisse. Questa traversa mobile va sù e giù, attraverso i cilindri preme su questo stampo. Quindi lo stampo sotto è fermo, quello sopra batte e lavora il ferro che viene spostato avanti e indietro dal carropnte. Per sollevare la traversa ci sono questi due cilindri.

E tutto questo mosso da…? Acqua! È idraulica, acqua che produce movimento mediante una sala pompe grandissima.

Diceva che è del 1935 ed ha lavorato fino a…? Fino al 1993, quando è stata sostituita con una nuova pressa da 12.600 tonnellate.

Quindi le acciaierie continuano a funzionare bene qui a Terni. Sì, certo, purtroppo oggi la priorità è della “Thyssenkrupp”. Quando l’Iri ha smobilitato, ha avuto un po’ di passaggi per diventare infine tedesca. Producono un milione e duecentomila tonnellate di acciaio inossidabile all’anno.

E distribuiscono in tutta Europa immagino! Direi che vendono in tutto il mondo! E’ uno dei pochissimi stabilimenti di acciaio inossidabile al mondo. Si scambiano informazioni sui reciproci interessi, sui percorsi professionali e sulla famiglia.

Per questo incontro devo dirle subito che non ho preparato delle domande, consideravo questo primo incontro una chiacchierata sul tema. A proposito di suo zio, devo dirle che ho provato a telefonare ad un amico di Roma, Betti, anche lui reduce dalla Russia, al quale ho chiesto se ne avesse mai sentito parlare ma lui non ricorda né il nome né la persona. Comunque mi conferma che essendo suo zio al reparto comando, non c’erano contatti di grande continuità con gli altri reparti. Però mi diceva che ricorda il nome di Bassi, il sottotenente di Padova. A lui sembra che il Bassi fosse della prima batteria (gruppo ndr), anche se non ne era del tutto sicuro.

Ho commesso un errore quando ci siamo sentiti telefonicamente, in effetti io le dissi che Bassi era del secondo gruppo, in verità, come conferma il suo amico, era del primo gruppo. Ma anche il Bassi non si ricorda di mio zio, evidentemente non lo hai mai conosciuto. Cedo una copia dell’intervista fatta al Bassi a Villanova nella sua residenza al sottotenente Papuli Le porgo io una domanda. La famiglia quando ha saputo della notizia che suo zio era disperso?

Non saprei con esattezza, i suoi fratelli non hanno ricordi precisi databili, erano ragazzini. Posso immaginare che la comunicazione fosse stata fatta intorno al 1947-48 ( anni in cui i prigionieri furono rimpatriati ndr ). Quasi certamente nel 1947 ricevettero la visita di quel suo amico Costantino che, tornando dalla prigionia, portò loro le foto. Come le avevo accennato per telefono Costantino raccontò una duplice verità. A mia nonna non disse tutta la verità per non ferirla ulteriormente mentre a mio nonno confidò realmente come andarono le cose. Quindi questo soldato era stato fatto prigioniero insieme a suo zio! Io posso dirle che, con ogni probabilità, si possa pensare che suo zio sia stato fatto prigioniero quando è stato preso il comando di reggimento, quando sono stati presi, cioè, il primo e il terzo gruppo con il comando di reggimento. Altrimenti lui avrebbe, sfuggito a quell’episodio, fatto parte della “colonna Carloni”, sarebbe cioè venuto con noi durante la ritirata e avrebbe fatto eventualmente la battaglia di Pawlograd. La battaglia di Pawlograd è stata abbastanza cruenta, molti soldati sono morti in quella occasione. Da tempo tra l’altro sto raccogliendo informazioni per scrivere per una rivista storica. Ho diverso materiale sulla vicenda ma non ho ancora tempo di occuparmene a tempo pieno.

Per capire meglio i posti di cui parliamo preferirei consultare delle mappe così da avere un’idea più precisa dei luoghi. Questa che le mostro è una cartina ricostruita di quella in possesso del sottotenente Bassi dove erano riprodotte tutte le batterie e gli schieramenti dei reggimenti. Si vede bene che il 120° era in due punti precisi. In verità il secondo gruppo non era più in linea perché era stato spostato dalle sue posizioni per dare aiuto alla divisione Torino.

Come vede, nella cartina ci sono segnate anche le date. Io comunque le mostrerei la cartina che ho pubblicato nel mio libro che ripercorre le tappe e mostra meglio gli schieramenti. Come vede lo schieramento della Torino e della legione croata sono in questo punto. Questa è una vicenda stranissima, quella della legione croata intendo dire, che ho cercato anche di ricostruire con delle ricerche che ho fatto a Roma, all’Ufficio Storico che si trova in viale Giulio Cesare, anche se devo dire che non ho trovato molto materiale. Ma per tornare al discorso di prima, quando noi siamo andati a soccorrere la Torino, i russi hanno sfondato il fronte, la mattina dopo per esattezza. I russi evidentemente avevano fatto un tentativo sulla Torino ma si capisce che era solo un saggio delle forze anche se avevano comunque conquistato alcune posizioni. Noi facemmo l’azione la mattina e successivamente ricevemmo notizia che i russi stavano sfondando.

Quindi si erano accorti di uno spostamento di truppa italiana rispetto alla posizione della Torino… Non saprei dirlo con esattezza. Allora può essere stato solo un fatto fortuito? Non credo che sia noto da nessuna fonte questa analisi. Probabilmente hanno fatto solo un’azione di disturbo, un tentativo per capire se si poteva azzardare uno sfondamento in quella posizione, quella che teneva la Torino. Poi invece hanno sfondato sulla Sforzesca. Hanno circondato il primo e il terzo gruppo oltre al comando di reggimento (del 120° reggimento ndr ).

Quindi il 120° era concentrato tutto in una zona precisa. Sì. Noi siamo stati richiamati indietro per via dello sfondamento ma non siamo riusciti a tornare in tempo per dare manforte, ormai era troppo tardi.

Quali erano le distanze per avere un’idea dei tempi? Tra i 10 e i 30 chilometri.

Distanze lunghe anche da percorrere con i mezzi! Sì, certo, appunto, non abbiamo fatto in tempo a tornare.

Il tentativo lo avete comunque fatto? Sì, sì. All’inizio la strada la trovammo libera e riuscimmo a tornare a Meskoff dove c’era il comando della divisione Celere e dove io ero stato due sere prima, un fatto che racconto nel mio libro. I russi erano arrivati già vicini, avevano fatto un certo numero di morti, molta gente era scappata. È stato un brutto episodio. C’è un fatto importante che successe a causa di questo sfondamento, mi riferisco ai due gruppi di ritirata, quello nord e quello sud.

Qui stiamo parlando della Celere? Sì. Però c’è da dire che il terzo bersaglieri era stato distrutto insieme al 120° (a parte il secondo gruppo).

Per distrutti intende dire? Catturati o uccisi. La legione Croata era sparita tutta, erano duemila persone, però siccome erano tutti volontari, venivano tutti dalla Croazia, i russi non esitarono ad eliminarli, uccidendoli sul posto. Si dice inoltre che gli ultimi superstiti si siano sparati a vicenda per non cadere in mano russa. A queste voci ci credo perché era gente che ragionava in questo modo. Durante la ritirata si unirono a noi i resti della Sforzesca, una parte della Torino (poca gente) e della Pasubio che faceva parte del blocco nord. La ritirata comincia da Mescoff per dirigersi verso sud. Come è chiaro dalla mappa.

Quindi dopo esservi resi conto che con i russi non poteva esserci confronto vi siete ritirati a sud verso Mescoff? Però, come noterà dal mio racconto, abbiamo avuto la possibilità di tenere con noi l’artiglieria, anche se solo in parte perché alcuni cannoni andarono fuori uso già subito, il primo giorno, a causa del congelamento dell’olio del dispositivo che frenava il rinculo. In effetti questi “pezzi” erano arrivati al reggimento da pochi mesi in quanto durante l’estate i russi avevano sferrato a Serafimovich, io non c’ero, e l’artiglieria che aveva il 120° non riuscì a fronteggiare i carri armati russi, non avendo proiettili perforanti. Tant’è vero che ricordo di un sergente al quale fu data una medaglia d’oro perché non mollò il pezzo fino a che un carro non lo travolse. Quindi rimasero senza cannoni fino al successivo riarmamento. Il difetto della nostra artiglieria stava nel fatto che aveva una scarsa resistenza al gelo, alla bassa temperatura l’olio gelava, tutto gelava, pensi che anche il vino veniva distribuito in sacchi, quando ancora c’era il vino. Si arrivava ai 40 gradi sotto zero.

Ma come si resiste a certe temperature? Deve essere terribile! Beh, lo era, quando andammo in soccorso alla Torino, il mio attendente ebbe un congelamento ai piedi, lui come tanti altri.

Cosa succede quando si parla di congelamento? Bisogna stabilire di che grado di congelamento si parla. Io per esempio ho avuto un alluce congelato, congelamento di primo grado: è rimasto bianco per un certo numero di anni.

Quindi dura parecchio tempo! Dipende dall’entità. Però se succede come è successo al mio attendente, lei vede i piedi neri! Il sangue si gela e non circola più.

Ma non ci si accorge che si è in fase di congelamento? No, si sente freddo ma non si ha la cognizione del grado di congelamento a cui si arriva. In quel caso lì, un congelamento di terzo grado, significa amputazione!

Quindi quando si parla o si legge di congelati bisogna considerare che molto probabilmente di sta parlando di persone che avranno subito un’amputazione? Consideri questo, che a quelle temperature lì, all’addiaccio non si resiste, non resiste nessuno, neppure i russi. E allora bisogna ripararsi. Non è un caso che si lottasse per conquistare un’isba, per avere un minimo di riparo. Qualcuno si infilava nei pagliai e poteva sperare di sopravvivere ma non certo a 40 sotto zero. Oggi penso che con indumenti tecnologicamente avanzati si riesca, forse, a resistere ma con l’equipaggiamento di allora certamente era impossibile.

Quindi mi conferma che tutto quello che si legge nelle testimonianze e di quello che di faceva per sfuggire al freddo, di isbe stracolme di gente è un fatto molto ricorrente e una situazione con la quale facevate quotidianamente i conti! Eh, sì. C’è stato un episodio che rimarrà sempre impresso alle mie orecchie, una cosa che non ho mai dimenticato: la notte in cui il mio attendente si è congelato, io ero nella cabina del camion, eravamo in 8 o forse 10, sentii i soldati che erano dietro, nel cassone del camion che piangevano per il freddo, piangevano, giustamente, perché il congelamento significava la probabile morte per loro. Questo purtroppo è la realtà. Comunque credo che suo zio sia stato fatto prigioniero in quella zona lì. Lui non ha fatto la ritirata che abbiamo fatto noi, probabilmente è stato fatto prigioniero. Il fatto difficile da capire è quello che è successo dopo. So di gente che è tornata. Avevo questo mio collega di Gualdo Tadino, che però è stato fatto prigioniero a Pawlograd non lì, il quale ha fatto la prigionia e dopo tre-quattro anni è stato rimpatriato.

So che gli ufficiali sono stati rilasciati dopo il rilascio dei soldati? Lui mi raccontò che un nostro amico comune, uno che era venuto in Russia con me, il sottotenente Gigli, una bravissima persona tra l’altro, l’ho rivisto a Mescoff perché non era arrivato in linea con me. Lui a Pawlograd è stato catturato, e lo portarono per migliaia di chilometri perché facevano tantissima strada prima di raggiungere i campi. Lui ebbe la polmonite, si sa che chi si ammala diventa un peso per gli altri e so che i russi della scorta gli hanno sparato, sul bordo della strada. Lo lasciarono lì. Bisogna considerare che queste grosse colonne erano accompagnate da pochissimi soldati russi. Molti raccontano di fughe dalle colonne, c’è chi racconta di soldati che scappati si sono nascosti in isbe e poi magari hanno preso moglie ecc… in verità era impossibile perché i russi erano al corrente di tutto, attraverso i partigiani, attraverso la gente comune, sapevano tutto. Di questo ce ne accorgevamo anche perché l’atteggiamento dei civili cambiava nel momento in cui arrivava il fronte. I civili generalmente erano gente molto aperta e cordiale ma in quelle occasioni sapevano che i controlli aumentavano per cui anche con noi prendevano le distanze. Su un migliaio di prigionieri si possono considerare tre persone, tre russi, che controllavano la massa di prigionieri. Era un po’ la logica che avevamo potuto constatare anche noi con le punte corazzate, si vedevano quattro o cinque carri armati senza fanteria e con un po’ di gente sopra che seguiva. Si diceva che “non facevano prigionieri” ma questo voleva dire che i prigionieri venivano abbattuti all’istante. Molta gente è morta in questo modo.

Quindi i russi non è detto che avanzassero sempre in massa? Questo è un tipo di iniziativa che avevano imparato dai tedeschi. La guerra blitz dei tedeschi. Questo tipo di azione serviva a coprire la deficienza di un certo numero di uomini, sempre ammesso di essere in possesso di truppe corazzate, carri armati, e carri armati buoni non come i nostri.

Quelle che chiamavano scatolette di sardine? Si, sembravano dei giocattoli! Molta gente quindi è morta durante le marce, bastava che si ammalasse per cadere vittima delle fucilate russe. Bastava che un soldato zoppicasse per un qualsiasi motivo e veniva fatto fuori, non erano ammessi rallentamenti. È possibile che però suo zio abbia fatto la prigionia.

Da quelli che sono i racconti orali sembrerebbe così, ma di certo non c’è nulla di sicuro. Come le dicevo si racconta che l’amico Costantino fosse scappato dalla prigionia ma come diceva lei prima sembrerebbe inverosimile una situazione di questo genere. Certo, mia nonna non avrà chiesto i dettagli sulla fuga, si sarà limitata ad ascoltare la vicenda senza avere i mezzi per poter giudicare un racconto che poteva essergli sembrato verosimile. Oltretutto, per suffragare la sua tesi, si inventò anche di essersi rotto i denti durante la fuga e che prima di scappare mio zio gli diede queste foto che stiamo guardando, da consegnare alla famiglia. A mio nonno raccontò un’altra verità vera che morì per malattia ma non sappiamo se la malattia lo colse durante le marce del davaj o durante la prigionia. Quindi le foto che guardiamo oggi sono le foto che in un modo o nell’altro sono tornate a casa dalla Russia, sulla certezza della loro provenienza c’è ancora forte dubbio anche perché in prigionia non avrà certo avuto modo di poterle conservare. So per certo che venivano spogliati di tutto. Allora potrebbe semplicemente essere successo che il suo amico Costantino abbia spedito queste foto durante la loro permanenza in Russia e che quando è tornato a casa ha voluto farne dono ai miei nonni come ricordo del loro figlio Achille. Beh è probabile! Questa tesi mi pare la più logica anche perché dietro le foto è presente un timbro di un fotografo di Termoli, città di provenienza di Costantino Vaccarella. Non so bene come funzionasse la censura ma immagino che potessero venire spedite in Italia e poi visionate. Si, le foto, come le lettere, subivano la stessa trafila della censura, si spediva la posta in Italia e poi veniva vagliata dalla censura nel distretto militare di competenza.

Era possibile che un fotografo le visionasse ed apportasse una timbratura? Il timbro? Non ho mai sentito che le foto venissero timbrate con questa tipologia, però non posso escluderlo.

Il fatto curioso è che non sembrano foto recenti possono essere state doppiate da negativo, sembrerebbe come se il fotografo le avesse vidimate per presa visione. Si esaminano le foto…

Mio padre mi ha spiegato che il pezzo su cui è seduto mio zio in questa foto si tratta in realtà del coperchio che copriva il motore del 626. Si, non lo avevo notato. Il motore era dentro la cabina. Questo è stato il primo autocarro con la cabina integrale. Prima avevano tutti il motore fuori. Questo fatto ci ha aiutato molto perché questo significava riscaldare 7-8 persone, chi era dentro aveva la possibilità di stare meglio di chi era sul cassone era esposto al gelo che, per quanto coperto da telone, era sempre all’aperto. Alcuni dei nostri 626 erano color caki destinati alla guerra d’Africa, per urgenza vennero dirottati in Russia senza essere adattati.

Pausa si parla di…Carolina il 626 salvato e riportato in Italia

Nel libro “fronte russo c’ero anch’io” curato da Bedeschi lei parla del rientro in Italia di Carolina, il camion Fiat 626 salvato nella ritirata. La cosa che non spiega è dove andò a finire Carolina. Ah, nessuno lo sa! ( risate ) È una domanda da dieci miliardi!

Mi ricordo di un racconto di un alpino che nella ritirata era riuscito a salvare un cane che si portò a casa, allo stesso modo pensavo che Carolina avesse avuto un posto speciale in qualche angolo di qualche officina come cimelio di guerra. No, questo no, però, devo dire, che è stato l’unico autocarro che è rientrato, su una tradotta, su un pianale. Sa, noi siamo stati portati in campo contumaciale per cui non potemmo dedicarci alle sorti del camion. Poi siamo rientrati a Padova al deposito ma nel frattempo che fine abbia fatto il camion nessuno lo sa, è possibile che quando ci hanno trattenuto nel campo contumaciale abbia proseguito il viaggio per Padova, probabilmente con i documenti e tutto quello che serviva per il rimpatrio del nostro gruppo, poi, chissà, al distretto di Padova può essere stato anche rottamato visto che comunque era tutto sgangherato. Si era spostato l’assale posteriore, era più a destra di quello posteriore per cui camminava storto.

Però continuava ad assolvere la sua funzione? Camminava sempre.

Quindi questi erano da considerarsi buoni camion? Sì, buoni, attenzione però: questi come i nostri che erano a benzina. Quelli che erano a nafta avevano invece i guai di tutti i motori a nafta, che erano tanti. A quelle temperature bisognava accendere il fuoco sotto per riscaldare l’olio della coppa. Gli stessi cannoni, a cui gelava l’olio, si rompevano ed erano inservibili perché andavano indietro, rinculavano, ma non tornavano avanti.

Quindi spesso vi siete trovati in difficoltà più per le condizioni in cui vi poneva il gelo che della situazione in sé dalla quale avreste potuto cavarvela!? Certo! Poi ci siamo trovati senza benzina, abbiamo perso le catene, non avevamo più l’anticongelante per cui eravamo costretti a metterli in moto e tenerli a lungo per evitare che congelasse l’acqua del radiatore. A Pawlograd è successo questo, ogni mezz’ora dovevamo metterlo in moto. Un giorno ho visto una scena impressionante, una colonna immensa di camion abbandonati per mancanza di benzina. Erano tutti nuovi appena usciti dalla fabbrica.

Anche i rifornimenti di benzina non si riusciva a portarli dietro? Come mai mancava? Si, avevamo delle riserve ma i rifornimenti, dovevano arrivare, dalle retrovie. Dovevano servirci i camion che facevano rifornimento. L’ultima volta che avemmo il rifornimento di benzina, mi pare che lo dica nel libro, fu a Mescof o da qualche parte nei dintorni, nella occasione in cui ho fatto salire il mio attendente con i feriti gravi e i congelati gravi per tentare di mandarli all’ospedale di Millerovo. Sapevamo che le linee potevano essere già bloccate ma d’altra parte non potevamo fare a meno di tentare, speravamo che vedendo soldati moribondi li avrebbero fatti passare ma non sapemmo più nulla. Io poi ho ritrovato la famiglia del mio attendente che è di Gessopalena, della provincia dell’Aquila. Con loro ci siamo visti e tenuti in contatto. In quel caso lì fui io a contattarli: avevo visto una lettera pubblicata da un libro di quel giornalista della rai, Pino Scaccia. Era andato in Russia anche per ritrovare i cimiteri, aveva pubblicato un libro. In questo libro c’era una lettera di una signora di Gessopalena che diceva “mio nonno era nel 120°…” spiegava un po’ la storia e diceva di non saperne più nulla. Nella firma leggo il nome del mio attendente. Mi procurai il numero, mi misi in contatto con la famiglia e volli avere una prova che fosse lui prima di doverle togliere un po’ di illusioni, chiesi alla signora se suo nonno era sarto e lei rispose affermativamente. Loro pensavano che potesse essere ancora vivo, io dissi loro che non sapevo nulla ma che ai fatti non c’era da sperare che fosse nascosto in qualche isba sfuggito al controllo, una situazione simile era piuttosto irreale come le ho già avuto modo di spiegare..

Si passa ad altre foto…

Qui si vede una macchina da scrivere, che vuol dire che i soldati redigevano i rapporti? In Russia c’erano in verità anche i cronisti, c’era l’Istituto Luce, c’era gente che scriveva ma qui potrebbe trattarsi anche di una telescrivente.

Cioè? Mi chiedo se ci fossero in verità! Comunque, la telescrivente era una sorta di macchina da scrivere con un foglio inserito per vedere il testo che serviva per comunicare. La macchina da scrivere normalmente era più piccola di questa. Per il resto non si distingue bene, non potrei dirlo con certezza.

Qui c’è una mitragliera da 20mm. Dove potrebbe essere stata scattata questa foto visto il tipo di artiglieria contraerea? Poteva essere in prima linea? In primissima linea no, ma abbastanza avanti certo, come no! Riguardo al luogo poteva essere da qualsiasi parte, non necessariamente vicino a zone con aeroporti. Faceva parte del normale armamento dei reparti combattenti, non erano come le artiglierie di medio calibro che stavano indietro. Una di queste aveva abbattuto un aereo, un trimotore mi pare, e io andai a vederlo perché non era molto lontano ed era stato abbattuto forse perché si era perso. A proposito delle armi, qui a Terni c’è un museo di armi leggere tutte ancora funzionanti, un museo non aperto al pubblico proprio per questa caratteristica.

In questa foto, dopo averla ingrandita, ho scoperto che avevano scritto su un 626 delle frasi: “Vera vado e torno” e dall’altra parte altri nomi di donne. Non mi ricordavo che nel 626 si potesse aprire il parabrezza, ma questi dovevano essere stati destinati proprio al fronte africano.

Quindi questo poteva essere uno di quei camion dal colore sabbia. Eh, si! Secondo lei si tratta effettivamente di un 626 o un 666? A me sembra un 626, un po’ mi fa pensare la parte anteriore ma a guardare il parafango… e poi questi fanali sembrano quelli di un 626 gli altri non avevano questa tipologia di fanali.

Avevate solo il 626 o anche atri tipi di camion? No, avevamo solo il 626 anche se ad un certo punto, siccome li avevamo persi tutti meno uno, quando ci hanno riarmato per andare a Pawlograd ci hanno dato degli SPA 38 e dei Bianchi Miles.

Erano molto viversi dal 626? Beh, lo SPA 38 era vecchio, aveva la cabina solo per due posti, il Bianchi Miles era un po’ più grande ma era sempre col motore davanti, è un camion che è durato poco, era poco noto.

In questa foto c’è una macchina, un 1100, cosa ci faceva una macchina così in Russia? Il 1100 era la macchina che usava il comandante.

Quante ce n’erano? Una per ogni gruppo anzi, non per ogni gruppo… dunque questa era la 1100, una macchina comune, però anche qui così come era successo per i camion che erano stati verniciati in kaki, questi erano blu perché le avevano prese, requisite alla distribuzione civile, non si sa perché. Forse perché non le avevano pronte ancora quindi a suo tempo c’è n’era una sola che veniva usata dal Colonnello Carloni. Quindi immagino che lo avesse lui come comandante di reggimento…

Il Carloni era dei bersaglieri… Del sesto bersaglieri, questa macchina è l’unica 1100 che noi abbiamo salvato perchè a quella del colonnello De Simone, che comandava il 120°, era sparita con la cattura del comando.

La macchina riprodotta in questa foto di chi potrebbe essere visto che si tratta di soldati del 120°? A suo tempo ce n’era più di una.

Quanti mezzi siete riusciti a salvare? Si salvarono la macchina del Carloni (credo fosse sua almeno, perché noi, come complemento, non avevamo una macchina) insieme al nostro 626.

Ed era in dotazione soltanto del comandante? Del comandante di reggimento. Questa è oltretutto la macchina che cito in un mio racconto per il fatto che le saltava continuamente una candela, avendo la filettatura spanata.

Questa invece è una foto di due ragazze russe o ucraine in un campo di, granturco? Si, un campo di granturco, sembrerebbe.

Questa foto al contrario delle altre sembrerebbe una foto scattata dalle nostre parti in Abruzzo o Molise anche perchè so che mio zio Achille faceva la spola in moto tra l’Aquila e Pordenone per seguire un corso per artiglieri, l’ho scoperto dal foglio matricolare e da informazioni dedotte dalla famiglia. Strade come queste, asfaltate, ce n’erano in Russia? No! Io ho visto una strada pavimentate con blocchi di ghisa, la vidi per la verità una sola volta, blocchi grossi di ghisa, come mattonelle, le usavano di quel materiale per via del gelo perchè con altro materiale sarebbe saltato via tutto. Con i mezzi, quando c’era il disgelo, le strade erano impraticabili a causa del fango e quindi le strade asfaltate non esistevano.

Lei dunque è stato in Russia dall’ottobre 1942? No, dai primi di dicembre.

Quindi ha vissuto tutto il periodo più freddo, il disgelo non deve averlo visto? Beh no, l’ho visto eccome, avevamo il fango fino al ginocchio, i camion camminavano in mezzo all’acqua e la notte gelava, in un certo periodo, mentre di giorno c’era il sole e si scioglieva. Tornando alla foto di suo zio in moto, noto il fanale coperto per l’oscuramente.

Spieghi meglio… Per l’oscuramento era proibito dappertutto accendere i fari per non dare riferimenti visibili dagli aerei ed evitare così i bombardamenti. Si viaggiava quindi con i fari schermati e c’era, come vede nella foto, solo una fessura per far passare la luce, il resto era nero proprio come si vede nella foto.

Quindi in tutto il territorio nazionale bisognava prendere queste precauzioni. Durante la guerra, certo. Qui vedo il bollo. Ma non si vede che moto sia.

Credo ci sia scritto Gilera. Ecco, si, si vede qualcosa, è vero. Però se sia militare o meno non saprei dire.

Beh, lui è vestito da militare quindi potrebbe essere. Per confrontarla le farò vedere una foto in mio possesso.

Ha delle foto del fronte russo? No, una sola, le ho perse tutte. Le distrussi perché volevo essere sicuro che non finissero in mano ai russi. Ne ho fatte comunque pochissime, volutamente. Ne avevo fatte diverse con compagni e amici ma poi persi tutto nel periodo della guerra, me ne rimasta una sola, l’unica.

Questa è l’unica foto di cui sono certo essere stata spedita da Padova, dovrebbe essere, con ogni probabilità, la Caserma che li ha ospitati prima di partire per la Russia. Lui scrive questa foto-cartolina da Padova dove era stato aggregato al 44° reggimento d’artiglieria per poi essere spostato subito al 18°. Io ero del 43° pensi.

Quindi anche lei è partito da Padova? Il mio gruppo, la mia compagnia, il mio battaglione di complementi è partito da Bologna non da Padova. Non c’erano solo gente di Padova come alcuni che stavano con me, ma c’era anche gente di altri reparti.

Quindi la sua trafila qual è stata, è stato chiamato alle armi quando? Io sono andato a fare il servizio da volontario quando non avevano ancora chiamato la classe del 1921. L’hanno chiamata dopo, poco dopo. Quindi i primi mesi sono stato destinato come soldato semplice al 43° che stava a Firenze, vicino Firenze.

E lei dove abitava in quel periodo ? Allora ero a Pesaro, per la verità mio padre (mia madre era già morta), e quindi noi siamo andati, io con altri due amici, a Firenze e ci hanno messo a Poggio a Caiano, nella villa medicea, con i cavalli, il 43° era ippotrainato.

Ecco perché nel suo libro cita i cavalli e poi fa l’associazione con i motori. Era pesante con i cavalli. Lì siamo stati un po’ di mesi poi hanno radunato gli universitari e li hanno mandati a Firenze, sul lungo Arno della Zecca vecchia, in una caserma che c’è ancora, non molto lontano dalla biblioteca nazionale. Lì ho fatto il caporale poi il sergente e da sergente mi hanno mandato al servizio geografico militare, sempre a Firenze, perché sarei dovuto andare in Africa a fare il pilota astronomico, per il deserto. Copiarono dagli inglesi, dovevano sapere il punto di collocazione, non c’era ancora il sistema GPS, allora il punto si faceva traguardando delle stelle particolari note, si facevano dei calcoli e si otteneva il punto geografico. Quando ero già vestito in kaki per partire per l’Africa uscì la circolare del ministero che obbligava tutti gli universitari a seguire il corso di allievi ufficiali perché c’era bisogno di formarli. Quindi, da lì, sono andato a Nocera Inferiore, ho frequentato il corso dopo di che mi hanno mandato, in prima nomina, a Roma ai granatieri di Sardegna che erano a Castro Pretorio, lì sono stato un paio di mesi dopo di che mi hanno mobilitato a Bracciano poi a Bologna e da lì siamo partiti per la Russia.

La formazione per diventare ufficiali in cosa consisteva? Beh, l’uso dei cannoni, il tiro, i calcoli. Anche lì tutta una serie di regole balistiche che allora erano abbastanza complicate e che oggi non si fanno più. Molte di quelle cose non le abbiamo mai applicate perchè, chi ha mai fatto il tiro calcolato da noi? Si sparava a zero finché abbiamo potuto, sparavamo a zero.

Certo con un carro armato che ti si sposta davanti sarebbe stato difficile fare i calcoli… In teoria bisognava calcolare l’alzo, la distanza, la carica di lancio che era variabile non erano bossoli. C’era il bossolo ma non era attaccato al proiettile, quindi si caricava il proiettile e nel bossolo bisognava mettere la carica – che era contenuta in sacchetti – secondo la distanza che bisognava raggiungere.

Questi erano gli ordini che dava lei ai suoi artiglieri? Certo, e poi c’erano i gradi angolari dell’alzo e della direzione da considerare ma sono cose che non abbiamo fatto mai. Tornando al foglio matricolare suo zio dal 6 gennaio va nel 18° artiglieria L’Aquila, poi leggo ”tale aggregato alla compagnia distrettuale di Taranto per corso spolettatori”…

Questa era una prassi d’obbligo per gli artiglieri all’epoca? Non sempre.

Quindi a seconda delle capacità del singolo venivano smistati nelle varie città dove c’erano corsi? Non solo, ma poi non è che tutti andassero a Taranto a seguire i corsi di spolettatori. Gli spolettatori si formavano in tanti altri posti però era un corso che insegnava a regolare e a montare la spoletta sul proiettile.

Di che quale tipo di artiglieria stiamo parlando? Di cannoni, i nostri erano da 75/27 però avevamo anche i 100/17. Lei sa, il secondo numero è la lunghezza, il primo è il diametro. Quindi il cannone 75/27 risulta essere lungo 27 volte il suo diametro. Al di sotto di 10 volte il diametro è già un obice, in sostanza è più corto.

Ed hanno una gittata…? Quello dipende da tanti fattori.

La tipologia del proiettile è la stessa o cambia a seconda del cannone? Hanno tipologia diversa certo, c’era, non so se anche oggi c’è, quello a “pronto effetto” che esplodeva subito appena toccava il bersaglio; invece c’erano le granate perforanti che prima entravano e poi esplodevano. Poi c’erano quelle che servivano per allargare la rosa di tiro, che si frantumavano in un certo modo e così via.

Questa foto è curiosa perchè riporta dietro dei nomi di un tenente e un maresciallo… Questa è la mitragliera da 20 mm (Breda 20/65 mod. 35 ndr)

Nella foto ci sono i due soggetti, un certo tenente “Di Gino” o Di Giuno”, non si capisce bene, e un maresciallo “Marini” “Marzani” o Marzini” o forse ancora “Maraini” anche questo è indecifrabile. Ma il maresciallo che funzione aveva? Non mi risulta che ci fossero dei marescialli nei testi che ho letto sul fronte russo. Il maresciallo che carica era? Il maresciallo era la carica intermedia tra la truppa e gli ufficiali, quindi non era un ufficiale ma era la carica più alta dei sottoufficiali. Quindi c’erano il sergente, il sergente maggiore e il maresciallo. Per il maresciallo, c’era la carica di maggiore: maresciallo maggiore…

Il tenente invece? Il tenente cominciava da sotto tenente, prima ancora dall’aspirante (che era quello che seguiva i vari corsi ecc.) e quindi sotto tenente, tenente, capitano, maggiore, tenente colonnelo, colonnello e generale.

Quindi volendo ricominciare dal soldato semplice? Il soldato, il caporale, caporal maggiore, sergente semplice, sergente maggiore, maresciallo, maresciallo maggiore.

In questo caso chi aveva il grado più alto? Per la verità da noi, nel 120°, di marescialli non ce n’erano. vedo che c’è una scritta qui in basso, Motor…

Forse Motorizzato… Beh, il nostro era il 120° artiglieria “motorizzato”…

Però risultano curiosi i due nomi, non capisco il perchè li abbia scritti, che utilità avessero se erano semplicemente i nomi da ricordare. Quello che invece non capisco io è il disegno!

Inizialmente, visto lo schema, pensavo che la foto fosse il mezzo con la quale riconoscere i superiori per qualche necessità di servizio o di tattica militare. Invece poi, parlando con un amico giornalista, che si è appassionato alla vicenda, mi aveva con, approssimata certezza, suggerito che si trattava di un gioco. In effetti, facendo una ricerca su questo tipo di giochi, mi sono reso conto che esiste un gioco (lo Sprout ndr) per cui bisogno unire i pallini senza far incrociare le linee. Quelle che sembravano essere degli schemi militari non erano altro che un gioco. Ed infatti, se si nota bene, le linee non si incrociano mai. È un gioco! Questo invece è un ordine del giorno del generale Messe che mandò a tutti i soldati italiani in Russia. Sì, lo ricordo il Generale Messe, quando andai io in Russia non c’era già più, rientrò. Al suo posto ci fu Gariboldi.

Queste sono delle lettere che lui mandava a casa. Questo numero è il numero della censura? Penso di si!

E che voleva dire? che era stato censurato o che era stato semplicemente visionato? Si riferisce all’operatore, in questo caso l’operatore numero 3! E’ evidente che era stata visionata certo.

Era quindi un censore di Campobasso vista la sigla della provincia? Può darsi.

Veniva visionato dal distretto militare del luogo di residenza? Può darsi.

Avevamo detto che le lettere arrivavano in Italia dalla Russia, venivano smistate e in un secondo tempo controllate dalla censura. Quindi la cesura era nei posti dove le lettere pervenivano. Per esempio: le lettere che arrivavano in Russia, sul fronte di guerra, erano censurante a monte o arrivavano in Russia e poi venivano visionate? Non lo so perché io non ha mai ricevuto lettere (risate)!!!

Diciamo che non ha fatto in tempo… Beh no, in effetti no, dopo che sono arrivato è successo subito il disastro per cui non ho fatto in tempo a riceverle. Devo dire che quel periodo, per mio padre che era solo, non deve essere stato facile. È stato tre mesi senza sapere nulla di me.

Questa è una trascrizione di una lettera di mio zio dove riporta un nome di un cugino di Teramo che era stato fatto prigioniero dagli americani o dagli inglesi in un campo di prigionia in Africa. C’è una data? Vedo posta militare 40 del 20-11-42, e quindi poco prima del “pasticcio”.

Purtroppo la data di questa lettera e le due cartoline sembrano piuttosto casuali, è possibile che ve ne fossero altre, magari andate perse, mia zia, la sorella, aveva solo queste. Anche perchè nella lettera spiega alla madre che è diverso tempo che non riceve loro notizie questo lascia pensare che abbia scritto altre lettere prima di questa. Poteva essere che venissero censurate? Mah, che venisse censurata completamente un lettera era molto raro, al massimo venivano cancellate alcune notizie, alcune frasi.

Queste due righe invece sono delle informazioni che mi diedero sul 120° quando contattai l’associazione Unirr che mi mise in contatto con il tenente Bassi. Leggo “in sostituzione del terzo artiglieria a cavallo” vede? Serafimovich, …a fine settembre la Celere venne trasferita su un altro settore del fronte e inserita tra la divisione Torino e la Sforzesca.

E come mai il giorno prima dell’attacco russo di dicembre proprio il vostro gruppo è stato scelto per essere trasferito? Infondo eravate tre gruppi che, immagino, si equivalessero… Sì, certo, credo che fosse solo per una questione tattica, probabilmente perchè levare il secondo era meno pericoloso che levare uno degli atri due.

Perchè è vero che eravate uguali o simili ma avevate comunque armi diverse!? Zone diverse! Intendevo dire come artiglieria. No, no erano tutte identiche, in verità un gruppo aveva anche i 100/17, questi cannoni un po’ più grossi, però c’erano soltanto tre batterie poi il resto erano tutti 75/27, credo quindi che fosse solo una scelta tattica non dovuta alle artiglieria in nostro possesso. Qui vedo però che c’è un errore non è il quinto ma il terzo bersaglieri che difatti è stato quasi completamene distrutto, non è tornato quasi nessuno. “….parte del terzo riuscì, con una lunghissima marcia, a rientrare nelle linee tedesche…” il 31 dicembre 1942 siamo rientrati nelle linee.

Ecco perchè nel foglio matricolare, o meglio il ministero dà come data ufficiale di morte il 31 dicembre 1942. Possiamo considerare quella data il giorno in cui vi siete ritrovati per fare un bilancio? Sì, quelli che sono usciti si sono ritrovati in quella data però credo che suo zio sia stato fatto prigioniero quando era ancora sul Don.

Si però per chi ritornava, ed era al di qua del Don, riportava la notizia dei soldati mancanti come dispersi. Sì, certo! Continuando a leggere leggo del tenente Bassi di Villanova Padova, della mia batteria ricordo che c’era un sergente che era di Padova anche lui, Bonetto di cui non ho saputo mai più nulla. Si continua a leggere il foglio matricolare

Qui, in questo punto del foglio matricolare, c’è la storia del soldato. Soldato scelto: mi è stato detto che questa denominazione stava a significare che aveva particolari qualità. Perchè era un bravo meccanico, nel suo caso? Sì, Soldato scelto non era un grado ufficiale, un grado istituzionale. Vedo che poi viene trasferito al 120°, a quel punto era a Padova

Sì, lui scrive la sua ultima cartolina dall’Italia da Padova, la scrive a dicembre 1941. Poi leggo che fa un corso a Pordenone per guida automezzi che voleva dire saper guidare anche i trattori per il traino delle artiglierie.

Si anche se queste cose doveva già saperle fare perché, lavorando con il padre, aveva imparato già il mestiere di meccanico nonché di autista. I trattori li conosceva bne anche eprchè aveva lavorato nei campi nel periodo della mietitura. Capisco?in ottobre, 1941, vedo che è stato mobilitato.

In ottobre in sostanza lui sapeva che sarebbe partito per la Russia… Beh, no, non si sapeva ancora sapeva che sarebbe andato al fronte ma non veniva comunicata subito la destinazione, gli si diceva “vai al fronte, sei destinato alla guerra” ecco.

Quindi le comunicazioni dell’imminente partenza venivano date all’ultimo momento… A volte si sapeva anche prima perchè ci voleva una certa preparazione. Anche noi a Bologna siamo stati un mese circa, si sapeva che saremmo partiti per la Russia perchè le tradotte partivano da Bologna però la destinazione si teneva riservata, non si sapeva dove, lo sapevano i capi però insomma non si era informati prima, difatti loro sono arrivati nel ’42 da come leggo, all’inizio.

Sì, nel febbraio 1942, il 9 con l’esattezza. Sì, vedo il 9 febbraio partiti per la Russia per far parte del CSIR. Poi il 6 luglio 42 viene trattenuto alle armi…

Questa formula “trattenuto alle armi” immagino che si riferisca al fatto che il militare, scaduta la durata della naia, non viene rimandato a casa e viene appunto “trattenuto”… Poi però qui dice “disperso nel fatto d’armi della terza decade di dicembre”

Quindi è quella di cui si parlava… Sì, la terza decade è da considerare la fine, il 30 dicembre. I fatti d’arme del 30 che però comincia il 17 dicembre. Questo è importante perchè sta a dimostrare che lui a Pawlograd non c’era.

Sì, infatti è da presumere che sia morto in battaglia o fatto prigioniero. Si perchè quello che è successo a Pawlograd noi lo sappiamo bene, sappiamo che era morto il capitano Alari che gli altri erano prigionieri. Questa sarebbe stata la domanda che le avrei fatto, quindi questo conferma che lui è andato disperso il 17.

Sì, dopo lo sfondamento non si è saputo più nulla. Io direi che potrebbe essere proprio il giorno 17, perchè noi non facemmo in tempo a tornare indietro, l’accerchiamento è stato un fatto immediato.

Quindi sarebbe da ricercare nei campi di prigionia per verificare se ci sono informazioni sui soldati, cosa che resta più difficile perché per quel che riguarda gli ufficiali ci sono più informazioni, si sa, ma per i soldati pare che sia più difficile risalire a dei dati certi. Per quanto ne so io non c’è un resoconto di nessun genere che sia veramente attendibile.

Questo ufficialmente, intende dire? Si, certo, ufficialmente

Il tenente Bassi, ritornato a casa, ha ricostruito la piantina e ha riportato tutti i letti dove ha scritto i nomi dei compagni prigionieri insieme a lui nel campo di Oranky. È un modo anche quello di ricostruire le vicende, con lo stesso sistema ho saputo di Gigli, quello che è stato catturato e poi è stato male, l’ho saputo da quelli che sono rientrati dalla prigionia, tra cui il tenente Remo Dionisi di Gualdo Tadino.

Questa parola “pacificato” che cosa voleva dire? Che non era più mobilitato, “pacificato a Campobasso nel 1983”, credo almeno che sia riferito al fatto che il reggimento non c’è più, è sciolto. La bandiera va al Vittoriano, al cimitero delle bandiere. A proposito delle bandiere nel mio libro c’è un errore involontario. Troverà che io assito alla bruciatura di una bandiera.

Volevo appunto chiederle, perchè si bruciava la bandiera? Per non farla andare in mano ai nemici!

Quindi aveva un significato fortemente simbolico… Beh, la bandiera si difende con al vita e quindi io non posso lasciare che vada in mano ai nemici, significa che io non l’ho difesa, e allora la bandiera si brucia. Quella del 120° abbiamo saputo che il Colonnello De Simone l’ha bruciata insieme agli ufficiali, il giorno 17, quando hanno capito che erano circondati e non potevano uscire. Invece durante una sosta della nostra ritirata, il colonnello Carloni era in un’isba, io ero andato lì forse per prendere ordini, non ricordo bene, ed ho visto che bruciavano una bandiera.

Bruciare la bandiera aveva un significato anche per voi… Sì! Negativo naturalmente, nel senso che era un momento critico, non si sapeva se eravamo circondati, c’era gente che camminava sul monte lì davanti, non si sapevano se erano amici o nemici, è passata persino una colonna russa. Ad un certo punto si è accorta che stava in mezzo ai nemici ed è scappata via. Insomma era un momento brutto e allora decisero che si sarebbe bruciata un bandiera, io ho capito che si trattasse di quella del 6 bersaglieri. Invece, qualche anno fa, avendo ritrovato due compagni, un sottotenente e un tenente del sesto che stavano. uno a Forlì e l’altro a Ravenna, ci siamo incontrati e parlando è venuto fuori che la bandiera del sesto era rientrata in Italia e oggi è al Vittoriano. Quindi questa è una notizia sicura. Evidentemente in quella occasione lì bruciarono un’altra bandiera ma a questo punto non so di quale bandiera si trattasse.

Perchè lì poteva essersi aggiunto qualche altro reparto e quindi… Si, avevamo anche altri reparti.

Dunque Carloni ha deciso per altri reparti. No, c’erano altri ufficiali in quest’isba, ufficiali che non conoscevo.

Qundi non era una “cerimonia” che si svolgeva davanti a tutti… Non necessariamente, uno poteva essere anche da solo e deciderlo. In quel caso, nel caso del sesto, la bandiera è ritornata perché un soldato, pare, se la sia messa nascosta sotto i vestiti ed è uscito.

Devo averla già sentita questa storia della bandiera e del fatto che qualcuno ci si riparasse dal freddo… Quindi questo è un errore che troverà nel mio libro. Tornando dunque alla parola pacificato, credo voglia dire che si è sciolto. Difatti il reggimento rimane il 20° e non il 120° che invece si è sciolto. Perchè il 120° era un bis.

Si nato da una costola del 20°, nato ad hoc per la Russia. Ma quindi il 120° richiamava la bandiera del 20° oppure aveva una proprio bandiera? No, no, ognuno aveva la proprio bandiera. (continua nella lettura ndr) “Montenero di Bisaccia, Campobasso” a proposito di Molise, il mio secondo attendente era di Campobasso.

Quindi uno abruzzese e uno molisano. Il primo aveva la mia stessa età, il secondo era più grande di me, era del 1914 la classe del ’14 era stata richiamata, era un contadino, una persona molto semplice, molto bravo, “Tu, signor tenente” mi diceva

Se non dava del voi dava del tu, il lei era difficile. Però era tanto caro difatti siamo rimasti in contatto fino a che non so saputo più nulla

Qual era il suo nome? Giuseppe Cassetta. Era in Contrada Veticone a Campobasso.

Invece questo amico di mio zio che è ritornato si chiamava Vaccarella. Vaccarella?

Sì, Costantino di nome. Il nome non mi dice nulla ma io sicuramente un Vaccarella l’ho conosciuto.

Anche lui un autista. Invece il mio autista che portava il mio camion, (eravamo parecchi ufficiali per cui ognuno poi aveva il proprio camion) si chiamava Vespa, anche di lui non ho saputo più nulla, era comunque rientrato in Italia.

Si instaurava un certo rapporto tra il soldato e l’ufficiale, una certa confidenza oppure, per questioni anche pratiche, si rimaneva distaccati? Dipendeva dai casi, io ho sempre avuto dei rapporti molto buoni con gli attendenti. Erano due perché l’altro è “rimasto” lì, era partito da Padova con me.

Quindi vi siete avvicinati già da subito. Si, e quindi lo conoscevo già un po’, era molto bravo, poveretto.

L’attendente che ruolo aveva, che mansioni svolgeva? Era una sorta di “segretario” dell’ufficiale? In tempi normali l’attendente in pratica puliva le scarpe, gli stivali, gli abiti, svolgeva servizi minori.

Era al sevizio dell’ufficiale quindi… Si, ma poi, anche in quelle circostanze, dipendeva. Essere attendenti in tempo di pace era un conto in guerra era un altro. In guerra l’attendente l’ho usato più che altro per oliarmi l’arma o per le cose essenziali tipo trovare cose da mangiare, cose di questo tipo. Però anche loro avevano delle aspettative nell’assumere questo ruolo. Significava, in qualche modo, migliorare le proprie aspettative di vita per tanti motivi. Nei periodi normali, gli ufficiali avevano una loro mensa quindi gli attendenti molto spesso beneficiavano anche di questo. Degli orari, se non facevano i servizi normali: la guardia, le 24 ore, la pulizia dei cavalli, traevano vantaggi da queste cose.

Godevano di una sorta di privilegio rispetto al soldato semplice… Sì, in effetti lo era. Adesso questo incarico non esiste più Si torna sul foglio matricolare

L’encomio che hanno dato a mio zio, trovo abbia un significato persino più importante di una croce di guerra. Lo considero un riconoscimento di merito “reale”. La medaglia gli è stata consegnata postuma, probabilmente come un atto dovuto per la sua condizione di disperso, non trova? Però attenzione perché ci sono due tipi di croce. C’è la croce di guerra, che è un riconoscimento a chi ha fatto la guerra e non necessariamente perché ci ha rimesso la vita. A chi ha fatto qualcosa di più viene consegnata la croce al “merito” di guerra.

In questo caso è una croce al “merito” di guerra. Poi glie le mostro. Questa croce forse ai dispersi l’hanno data a tutti Credo anche io! Viene consegnata in base a un decreto.

La sigla O.d.g. equivale a “Ordine di guerra”? No, non mi risulta. O.d.g. è Ordine del giorno…

Chi indiceva un ordine del giorno? I comandi! Si guarda un manoscritto di famiglia…

Questo è un articolo, che a detta di mia zia Elena, pare avesse copiato mia nonna da un giornale, forse un giornale locale, che riportava la notizia delle azioni dei soldati molisani tra i quali mio zio si era distinto… Da quello che leggo e dal foglio matricolare mi pare chiaro che sia stato fatto prigioniero, o comunque che sia scomparso, il giorno dello sfondamento.

Ricordo che il tenente Bassi mi parlò del libro di Carloni che parla del 120… Io ho diversi libri, tra questi ho anche quello del Carloni nel quale ui fa un errore, parla di 121° Artiglieria motorizzato invece che del 120°. E poi non dice molto…

Come ha fatto a fare un errore così madornale, eravate insieme in guerra e lo siete stati a lungo, vi sarete anche consultati, avrete anche discusso, parlato, com’è possibile che sia potuto accadere? Credo che sia dovuto al fatto che lo abbia scritto molto dopo, quando è rientrato.

È evidente che non ha consultato nessuno del 120° altrimenti dell’errore se ne sarebbe accorto. Beh lui era andato alla Monterosa (dopo l’8 settembre fu costituita la divisone alpina Monterosa inviata in Germania per essere addestrata ndr), in Germania, con la Repubblica sociale e questo è stato il motivo per cui le gesta di Carloni non sono state riconosciute. Noterà che questa è anche l’idea di Bedeschi. Lui, nella sua prefazione al mio libro, in qualche modo, conferma quello che le sto dicendo.

Questo fatto di dover raccontare la storia, e quindi la verità, a blocchi politicizzati non l’ho mai capita, sono uno di sinistra ma non ho motivo di dover ammettere certi errori di parti politiche siano esse “rosse” o “nere”. Non capisco come mai la guerra debba essere una questione politica che cioè ci debba essere una sorta di filtro per giudicare positivamente o negativamente i fatti. In Russia sono morti degli italiani, che fossero italiani comunisti o fasciti, erano comunque italiani. A riguardo di questo trovo per esempio che i libri sui prigionieri di guerra in Russia abbiamo una connotazione comunque pro regime ma io credo che tolto, col la dovuta cautela, la parte faziosa non si può negare che nei campi di prigionia russi ci siano stati interrogatori, rieducazioni da parte dei comunisti vicini a Togliatti e dallo stesso coordinati. Quindi perché non si devono riconoscere certi errori? Politicamente cosa cambia? Comunque c’è tanta gente che ha pagato con la vita, da qualunque parte fosse? In una di queste trasmissioni tipo “La storia siamo noi” di tempo fa, emergeva proprio questo aspetto di cui si parlava.

Per via di questa ricerca su mio zio ho conosciuto un suo collaboratore, un giornalista storico, molisano (Enzo Cicchino ndr), con il quale sono in contatto e che ho avuto modo di conoscere di persona. Lui collabora con Minoli. Tra l’altro parlando di Minoli, tre o quattro mesi fa, gli scrissi mandandogli il mio libro per spiegargli un po’ come erano andare le cose a Pawlograd?ma lei lo vede questo giornalista?

Beh di solito lo aggiorno sulle mie ricerche, sono in contatto costante, si… Stavo dicendo di Pawlograd e dell’ultimo reparto italiano impiegato in Russia sotto i tedeschi, che dal punto di vista storico è stato messo in ombra, nella lettera cercavo di spiegarlo. Noi abbiamo combattuto per difendere il Nipro a favore dei tedeschi sotto il comando della zona, della piazza di Nipropetrosk. È una vicenda interessante perché lo Stato Maggiore (e per questo cercavo di integrare con altre ricerche) nel rapporto ufficiale, ha dedicato solo dieci righe in merito. Mi pare che nel libro da qualche parte cito questa omissione.

Parliamo del 120° o della Divisione Celere? Parliamo della Colonna Carloni a Pawlograd. Però, tanto per spiegare come vanno le cose, alcuni anni fa hanno fatto una seconda edizione di questo rapporto e lì ci sono invece varie pagine perché si vede che, decantate le vicende o cambiate le persone, non so, hanno trattato più approfonditamente l’argomento.

Magari saranno usciti nuovi documenti, diari… Ma no, credo fosse un fatto voluto, ma certo non era possibile che questi se la cavassero con venti righe, non era possibile perché è un fatto che nessuno consoce. Gli alpini erano già rientrati. A noi ci hanno impiegato a Pawlograd, quando il resto dell’armata italiana era già rientrata o al massimo stava sui treni.

Quindi voi siete stati gli ultimi a rientrare… Gli, ultimi!

E l’accoglienza com’è stata in Italia? L’accoglienza, era una cosa relativa in Italia, l’accoglienza la avemmo a Vienna, sia all’andata che al ritorno, abbiamo avuto il popolo che ci ha battuto le mani però …

A Vienna!? A Vienna!

Che non era “Italia”! (annuisce) …Però noi siamo andati come tutti gli altri in campo contumaciale per cui la gente non la vedevamo, poi riuscivamo dopo quaranta giorni..

Quindi si erano spente le emozioni legate al rimpatrio… Poi ognuno si riuniva al suo reparto quindi non si è avvertito in maniera collettiva. D’altra parte del 120° è rientrata pochissima gente.

Voi del secondo gruppo che vi siete mossi con i bersaglierei, quanti eravate? Noi in origine eravamo qualche migliaio, poi però a Pawlograd eravamo duemila in totale, ma duemila significava che noi del 120° eravamo centocinquanta, tra i centocinquanta e i duecento immagino.

E invece prima eravate come secondo gruppo…? Un migliaio.

Quindi ridotti da un migliaio a duecento uomini Si. E poi di questi duemila che hanno difeso Pawlograd, oltre a noi c’erano un’accozzaglia di altra gente, tra cui: i movieri che erano quelli che dirigevano il traffico, il cui colonnello è morto su quel camion lì (Carolina era l’unico Fiat 626 del 120° rientrato in Italia ndr) proprio sul posto della cabina che in genere occupavo io. Comunque è difficile adesso trovare proprio una descrizione di quello che sia potuto avvenire dopo. Io ero in convalescenza per questo congelamento leggero, però i miei colleghi che erano rientrati dalla Russia sono stati mandati in Sicilia per accompagnare le truppe italiane che dovevano constatare lo sbarco degli americani. Lì, fecero tutti una brutta fine.

Si ritornava vivi dalla Russia e si veniva a morire in Italia quindi. C’è stato chi, dopo essere scampato alla Russia, ha dovuto subire la deportazione in Germania. Anche io sono scampato? sa? Quando uno non deve morire è destino, non deve? Questo è un articolo in cui è stata riprodotta la foto dove io sono in motocicletta, vede? Io ho la pelliccia, si vede il collo, e ho un cappello alla russa di pelo, che mi aveva fatto l’attendente, che poi s’è congelato, era sarto. Me lo aveva confezionato durante il viaggio di andata, ci mettemmo 15 giorni ad andare in tradotta.

Non poco considerando che la prima spedizione del 120° ci mise solo 6 giorni… Ma sì, perché ogni tanto ci fermavano, a parte poi le deviazioni che ci facevano fare.

Probabilmente essendo arrivati nella fase critica della guerra era meno agevole e più pericoloso il passaggio. Beh, proprio perché c’erano molte truppe che trafficavano le strade, non c’eravamo solo noi in Russia oltre ai tedeschi c’eano i Rumeni, con il quale il nostro fronte era confinante sul lato destro.

In effetti si tende a pensare che i nostri 200.000 uomini fossero tanti ma se comparati al numero dei soldati, peraltro morti, delle altre nazioni, le nostre, quelle dei soldati italiani, sono cifre irrisorie a confronto, noi parliamo nell’ambito delle centinaia di migliaia di morti per i tedeschi si deve parlare nell’ordine di… Milioni! Comunque questa foto è interessante perché si vede “Carolina” il famoso 626 che tornò a casa, seppure in cattive condizioni.

Ecco questa è la famosa Carolina di cui lei scrive. Questa foto è stata scattata dopo i fatti di Pawlograd, siamo tutti noi, unici ufficiali rimasti. Questo è D’Aquino che era il mio comandante di batteria in origine, era un ufficiale effettivo non era di complemento.

Questa l’ha in originale? Sì, l’ho ricostruita elettronicamente da una positiva, non avevo il negativo. Siccome era l’ultima ho voluto farla salvare su un dischetto. Quindi le do queste fotocopie perché oltre ad essere scampato alla guerra in Russia sono scampato anche a un disastro aereo.

Quindi le foto che ho visto di là incorniciate riguardavano in realtà un disastro aereo e non un abbattimento di un velivolo! Si! Cioè, cosa è successo? Doveva partire per un viaggio e poi non è più partito e quindi si è salvato? No! Io ero già tornato, ero in convalescenza a Pesaro. Dopo Padova sono andato a Pesaro perché per la mia invalidità mi avevano destinato come istruttore al corso di ufficiali di Pesaro, che avevano istituito allora per la guerra, però non feci in tempo ad andarci perché e avvenuto quello che è avvenuto l’8 settembre (1943 ndr). Quindi subito dopo l’8 settembre dei miei amici aviatori, come leggerà, volavano e io non avevo mai volato, allora chiesi loro “sapete, avrei desiderio di volare anche io”

E poi? L’aereo è andato giù e si è distrutto! E non ci siamo fatti niente!

Quindi lei era sull’aereo? Sì, certo sull’aereo.

Ecco perché prima diceva “quando uno non deve morire… Non deve morire!!! Ero sull’aereo, in piedi, dietro i piloti, non ero legato, non ero seduto, nulla di tutto questo…

A che altezza eravate arrivati quando si sono spenti i motori? A trecento metri, non c’era la benzina

Non vi siete fatti proprio nulla? Beh… Mah… Io avevo una leggera scalfittura, l’altro mio amico lo stesso…

Perché l’aereo era distrutto! L’aereo era distrutto, si. Però la fortuna è stata che non siamo andati a fuoco perché altrimenti saremmo bruciati, saremmo andati arrosto.

Questo è un trimotore. Si, il famoso “gobbo maledetto”, il trimotore da bombardamento SM79.

Che so che non era molto stabile come aereo… No era un ottimo apparecchio però era vecchio, aveva fatto la guerra in Spagna.

Dico questo perchè avevo sentito che il bimotore rispetto al trimotore era più stabile nella picchiata e nel bombardamento a terra, aveva meno problemi di stabilità all’impatto con l’aria. Non era preciso con i tiri in sostanza. Bisognava regolare molto bene i motori, però era un ottimo aereo.



Breve nota del personaggio e della sua conoscenza L’incontro con Gino Papuli avvenne in seguito ad un contatto telefonico intercorso dopo aver letto alcuni suoi racconti nel libro di Giulio Bedeschi “Fronte russo c’ero anch’io”. Per contattarlo seguii le indicazioni (città di residenza di ogni autore) che trovai a tergo del contributo che Papuli pubblicò nel libro curato da Bedeschi. Al primo contatto telefonico si mostrò una persona decisamente disponibile e cordiale. Papuli era un sottotenente del secondo gruppo di complemento del 120° Reggimento Artiglieria Motorizzato, lo stesso reggimento di mio zio Achille disperso in Russia. Ci vedemmo a casa sua, a Terni. Papuli era una persona aperta, cordiale. Alla sua età navigava su internet e rispondeva regolarmente alle mail dimostrando così di riuscire a stare al passo con i tempi. Fu un  preziosissimo aiuto per la costruzione di questo sito, senza il suo appoggio, forse, non lo avrei mai iniziato questa avventura. Achille Omar Di Leonardo

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