di Mauro Depetroni
Gorizia 19 settembre 2010 |
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“Quello che sopportammo a Dachau
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Per rispetto e per lasciare il tratto caratteriale di Mario Simaz si è deciso di riportare il testo così com’è nella registrazione.
Sono un friulano nato nella provincia di Udine.
Entrai nel corpo Alpini il 15 gennaio 1942. Feci le istruzioni in un battaglione bis fino a giugno 1942; da quel giorno fui aggregato alla divisione Julia, 20a compagnia, I plotone mitraglieri, arma pesante, Breda.
Partii per la Russia l’8 Agosto 1942 da San Giovanni al Natisone, in provincia di Udine, insieme a tutta la mia Compagnia che era formata da circa 400 uomini. Il reparto comprendeva il Plotone Comando di mitraglieri pesanti con la Breda 37 e tre plotoni di mitraglieri con il fucile mitragliatore, il modello più piccolo, Breda 30.
Portammo con noi anche una damigiana: da vecchi Alpini quali eravamo, il vino non poteva mancare e lo bevemmo in allegria fino a Izium, dove tutte le tre Divisioni Alpine erano concentrate per la partenza verso il Don.
Partiti da Izium, camminammo per quindici giorni con lo zainetto piccolo; quello più grande e ingombrante lo avevamo caricato sulle camionette di reparto con le quali raggiungemmo la linea del fronte. Costruimmo dei rifugi ben coperti, si lavorava dalla mattina alla sera, per avere un deposito e un riparo durante il futuro inverno ‘42-‘43. Il 15 ottobre – sulle sponde del Don – costruimmo i camminamenti. Dopo otto giorni ci spostarono in un’altra quota e lì scavammo altri camminamenti. Avevamo pala e piccone, gli Alpini friulani non erano come gli altri, si arrangiavano con poco. Il mattino del 6 novembre 1942 trovammo la brina. La sera, tra le sei e le otto, la temperatura scese da due gradi sotto lo zero a meno trentasei gradi. Eravamo ancora equipaggiati con indumenti estivi e con quelli si lavorava. Due giorni dopo ci diedero un nuovo equipaggiamento invernale tra cui le pellicce e le scarpe.
Ogni notte ci appostavamo con la mitraglia e, arrivato l’inverno, diventò necessario accenderle sotto un fuocherello perché l’olio si congelava. In prima linea avevamo di fronte i Russi: erano a circa 300 metri di distanza e potevamo vedere bene il paese nel quale erano nascosti. Il 15 dicembre sentimmo un boato ma non riuscimmo a capire cosa stesse succedendo. Da quel momento sentimmo il rumore della battaglia giorno e notte, un frastuono come di terremoto. Dopo pochi giorni, una mattina ci raggiunsero dei camion, fermandosi a due chilometri da noi. Ci caricarono e ci portarono in un altro settore del fronte dove una divisione di fanteria aveva ceduto. Non mi ricordo bene, però il nome del paese. Venne spostata per prima la 76a compagnia, poi la 16a e, infine, la 20a… tutte del Battaglione Cividale, 8° Reggimento della Julia. Queste tre compagnie affrontarono i carri armati russi e riuscirono a resistere. Eravamo costretti a saltare sui carri, cercando di fermarli con le bombe a mano… era necessario farne esplodere più di una. Negli ultimi giorni di dicembre ottenemmo anche l’appoggio del 9° Reggimento Alpini della Julia – che in patria era di stanza a Caporetto – così ci misero in seconda schiera. Ricordo che i Russi vennero avanti anche la vigilia di Natale, ma l’attacco proseguì anche dopo Natale e l’ultimo dell’anno. Il 2 gennaio 1943 i Tedeschi e la fanteria, così come qualche compagnia del 9° Reggimento Alpini, cedettero; ripiegammo, attestandoci su quota Cividale. Nell’assalto perdemmo i comandanti, gli ufficiali, i sottufficiali e parte della truppa, quasi il trenta per cento dei soldati. La sera del 3 gennaio 1943 i Russi, in evidente stato di ebbrezza, vennero avanti come formiche costringendoci a ritirarci in seconda linea con le nostre armi. Alle prime luci del giorno seguente, però, la 20a Compagnia ritornò all’attacco e riconquistò quota Cividale. Quel giorno facemmo prigionieri quaranta Russi e catturammo due mitraglie, montate su carrelli. Quando portarono i prigionieri russi verso di noi, notammo che indossavano indumenti imbottiti e un berretto di pelliccia che copriva loro tutto il viso. Allora, buttando via l’elmetto, chiesi a un Russo di darmi il suo copricapo per meglio proteggermi dal freddo. Lui rifiutò così gli puntai contro il mio fucile ‘91 e, quando vide che lo avrei preso con la forza, si convinse. Quel berretto fu fondamentale durante la ritirata, non lo abbandonai fino a quando non giunsi a Firenze, dove mi resi conto di avere raccolto mezzo chilo di pidocchi di Russi, Italiani e Tedeschi.
Il 16 gennaio, alle nove, diedero l’ordine di ritirarci. Eravamo pochi, ogni plotone aveva subito gravi perdite tra feriti e congelati. Il giorno successivo, però, ci misero di nuovo in linea per contenere l’avanzata dei Russi. Dietro di noi c’erano reparti della Cuneense e della Julia. Al sorgere del sole, verso le quattro, vedemmo carri armati russi di 30 tonnellate. Ci vennero addosso. Con la mitragliatrice provammo a sparare ma quando furono a venti metri, lasciammo tutto. Avevamo l’artiglieria da montagna, come potevamo competere con quei carri armati? In quel momento non potemmo fare altro. Abbandonammo tutto e alzammo le mani. Le pallottole continuavano a fischiarci intorno, ma io mi ritrovai illeso. A un certo punto arrivarono i rinforzi, sentii “Avanti, Alpini!” e, approfittando dello scompiglio, mi buttai in un fosso dove mi nascosi aspettando che il trambusto finisse.
La sera di quel giorno, verso le nove, il materiale della Julia – le radio trasmittenti e altre attrezzature – fu distrutto. In questo modo iniziammo la nostra seconda giornata di ritirata.
Il mattino seguente arrivammo in un paese, incolonnati e sbandati: io non avevo più né Compagnia, né Plotone, né Squadra. Eravamo ormai tutti mischiati. Un sottotenente delle mie parti mi offrì un po’ di brodo. Mentre lo bevevo, cominciai a sentire lo sferragliare dei carri armati. Fecero prigioniero l’intero Battaglione. Pochi riuscirono a scappare e si salvarono, mentre molti furono fatti prigionieri, anche Cimolino, il comandante dell’8° Reggimento Alpini. Zacchi, comandante del Battaglione Cividale, morì giovane dopo la fine della guerra. Non so quanti alpini furono catturati ed ebbero la peggio, ma io riuscii a scappare.
Durante la ritirata fu preso prigioniero anche il generale Ricagno che era il comandante della Julia. Io quella mattina mi salvai perché – invece di finire il brodo – mi buttai giù per un vallone, rimanendo nascosto all’incirca fino al tramonto. Ero un povero sbandato insieme alla fanteria, ai bersaglieri e persino ai fascisti.
Da quel momento cominciò il calvario… per diciotto giorni non si fece che camminare. Una volta raggiungemmo un paese e ci fermammo a riposare; mi tolsi gli scarponi e mi resi conto di avere gli alluci congelati. Avevo una coperta, che tenevo addosso per meglio ripararmi dal freddo (a volte c’erano 40-45 gradi sotto zero), così decisi di avvolgerla intorno ai piedi, legandola per ottenere una protezione rudimentale.
In questo modo proseguii la ritirata. Giorno e notte, giorno e notte. Chi si fermava – per riposarsi o per dormire – non si rialzava più. La faccia e le mani si gonfiavano come pesche. Sentii ragazzi gridare “Mamma, mamma…”
Per loro era finita. Molti e molti Alpini, lungo la strada che portava a Nikolajevka, morirono nella steppa.
Nessuno ci dava da mangiare. Un giorno trovai un magazzino di caffè e riempii le tasche con il mio gavettino. Per non so per quanti giorni andai avanti sciogliendo la neve e mangiando il caffè. Entravamo in ogni isba dove trovavamo principalmente donne, e qualche anziano. Una volta – parlando nel mio dialetto – dissi che ero Italiano e che avevo fame: mi diedero qualcosa… pane fatto in casa. I Russi durante la ritirata ci trattarono come fratelli; grazie al mio dialetto particolare, probabilmente simile al russo, mi sono salvato la vita. Non so se verrò creduto, ma durante la ritirata percorrevo anche cento metri dormendo in piedi, tanto era automatico l’andare delle mie gambe.
Un giorno entrai in una casa per cercare da mangiare e mi imbattei in un soldato (probabilmente un partigiano) che mi trattenne per tre ore. Cercai di spiegargli che non ero un fascista e che ero lì perché Mussolini ci aveva mandato a combattere contro di loro; cominciai a piangere. Il soldato russo aprì la porta, dicendomi “Vai, Alpino. Vai a casa.”
Mi risparmiò, e non fui l’unico ad avere vissuto una situazione simile. I Tedeschi, sapendo che i Russi ci trattavano bene, svestivano i nostri morti per appropriarsi delle divise italiane, nella speranza di sfuggire a un’eventuale rappresaglia: i Russi odiavano i Tedeschi.
Ricordo che durante la ritirata un trimotore si avvicinò al suolo volando molto basso. A un certo punto sganciò un carico proprio vicino a noi e io fui il primo a raggiungerlo. Dopo averlo aperto, scoprimmo che il contenitore era pieno di pane e di cioccolata. Io ne presi un po’ ma sopraggiunse un ufficiale tedesco che mi puntò la pistola contro. Disse che quei rifornimenti erano per i Tedeschi e non per gli Italiani. Prese tutto, ma non quello che mi ero già infilato nelle tasche. Quel poco fu provvidenziale nei giorni successivi.
I Tedeschi erano equipaggiati con cavalli e slitte; con le salmerie trasportavano cibo rubato ai civili russi. Ma questo si rivelò uno svantaggio perché i Russi – quando attaccavano con i carri armati – prendevano di mira proprio i mezzi. Erano i primi bersagli. Li vedevi arrivare… dieci, quindici carri armati che puntavano sulla colonna rompendone il flusso; le prime salve erano per i Tedeschi. Noi, ammassati come formiche, alzavamo le mani e scappavamo via. Verso sera, poi, ci riunivamo alla colonna dirigendoci in direzione del tramonto, cioè verso ovest, dove c’era la nostra salvezza.
Dopo molti giorni giungemmo a Nikolajevka. Lì c’era la nostra salvezza, o la nostra morte. Eravamo circondati, quello era il punto in cui si chiudeva la sacca. Eravamo tantissimi, fra soldati italiani, tedeschi, romeni e ungheresi. La Divisione Tridentina era ancora efficiente. L’assalto iniziò alle quattro di sera. Il generale Reverberi si trovava a cento metri da me. Lo vidi salire su una camionetta con la pistola in pugno e andare incontro al nemico, dicendo “Avanti, Alpini!”
Noi sfondammo dietro di lui. Tutti al suo seguito. Uscimmo dalla sacca in questo modo.
Io e i miei compagni Alpini andammo in Russia non piangendo, ma con allegria, da veri combattenti. Guadagnammo l’onore combattendo fino all’ultimo. Alla mia età (88 anni) continuo ancora a raccontare la mia storia ai giovani Alpini, la mia esperienza sul fronte russo. Molti non sanno quanti compagni sono morti in quella guerra, quanti ne ho lasciati là. Ogni volta che c’è un raduno di Alpini chiedo di osservare un minuto di silenzio in ricordo dei tanti caduti in terra di Russia. Non tutti i soldati sono potuti ritornare a casa… nemmeno da morti. Molti di loro sono stati mangiati nella steppa dalle volpi. Noi abbiamo il dovere di ricordare e tramandare ai giovani questa memoria. Per me è sempre stata una missione il raccontare… in ricordo dei miei compagni.
Dopo Nikolajevka camminammo ancora per giorni. Io procedevo a stento, ero in condizioni pietose. Riordinarono i battaglioni.
Ci fecero salire su alcuni mezzi, che però terminarono il carburante. I Tedeschi non vollero fornircene. Ci sistemarono in una chiesa, dicendo di arrangiarci per il cibo. Eravamo circa duemila, di reparti diversi dell’8a Armata Italiana: non soltanto alpini, ma anche bersaglieri, soldati del genio, dell’aviazione, fascisti…
Raggiunsi la stazione con una vettura. In attesa del rimpatrio dormivamo per terra, provvisti di una coperta. Il 19 febbraio 1943, finalmente, ci caricarono sui treni. Gli Alpini ancora efficienti andarono verso Berlino e la Germania; quelli come noi, invece, furono trattenuti per un paio di giorni in attesa che passasse un treno ospedaliero. Il treno ci portò fino al Brennero, passando per Odessa e Vienna. Al Brennero comunicarono il nostro arrivo a Bolzano e da quella città partì un treno della Croce Rossa Internazionale, con dieci vagoni, che venne a prelevarci.
Le crocerossine ci offrirono la cioccolata; durante il viaggio avevamo mangiato solo rosette, non avevamo altro, a parte l’acqua e una brodaglia con pastina.
Ripartimmo. A Verona tante mamme si aggrapparono ai vagoni: era il primo treno ospedale che arrivava dalla Russia e quelle donne mostravano la fotografia del loro figlio, chiedendo notizie.
Quando la Julia tornò in Italia era ridotta al 20% del suo organico, non vi era altro.
Proseguii, sempre in treno… senza un soldo, anche se avevo la pelliccia – con dentro mezzo chilo di pidocchi – e la pistola ancora efficiente. Alla stazione di Firenze arrivò un treno da Roma; chiesi subito se qualcuno desiderava comprare la mia pelliccia, appartenuta a un ufficiale. Uno dei passeggeri mi chiese “Quanto vuoi?”, io risposi “Cinquanta lire.” Mi era rimasta la pistola che mi aveva dato un mio paesano durante la ritirata. Purtroppo non aveva avuto la forza di proseguire il cammino. Fu fatto prigioniero e non tornò più. Molti Alpini si demoralizzarono e si rassegnarono alla cattura.
A Firenze staccarono il vagone in cui viaggiavo con altre persone e ci portarono a Pisa. Eravamo rimasti solo con la giacca e i pantaloni, gli indumenti intimi erano pieni di pidocchi. Anche i capelli ne erano pieni e, una volta all’ospedale, ci rasarono. Rimasi in ospedale due mesi.
A Pisa ci trattarono bene, venne a trovarci persino una figlia del Re Vittorio Emanuele III, non so se era Iolanda o Mafalda. Lì mi curarono i piedi.
Durante la convalescenza mi trovavo con tre paesani, si parlava il nostro dialetto, che era il patruà romeno; sentendoci parlare in questo modo non volevano mandarci a casa. Dopo tre giorni, però, ci diedero il permesso, consegnandoci il foglio per un mese di licenza. Prima di lasciare Pisa, andai a vedere la famosa torre. Salii sul treno – ancora una volta – ed ebbi l’enorme sorpresa di incontrare Beniamino Gigli. Noi eravamo Alpini con la divisa della fanteria, senza cappello alpino, senza mostrine, senza stellette. Beniamino Gigli ci cantò la canzone Mamma. Il treno – con il suo tran-tran – sembrava accompagnare il canto. Eravamo una quarantina di persone, tutti ad applaudirlo.
Raggiunsi Udine verso sera. Mi presentai subito alla polizia. Non avevo soldi, così chiesi ospitalità. Un ufficiale mi assegnò una camera e lì trascorsi la notte. Il giorno successivo mi accompagnarono a casa. I primi giorni mangiavo anche un chilo di pastasciutta friulana. Poi, a poco a poco, cominciai a mangiare meno. Mia madre raccontò che, durante la guerra del ‘15-‘18, in seguito alla ritirata di Caporetto, molti Tedeschi che erano venuti dalle nostre parti erano morti per aver mangiato troppo. Come rappresaglia volevano ammazzare la gente del posto, ma si scoprì che chi era deceduto aveva mangiato carne semicotta, quasi cruda.
Piano piano ripresi le forze. Terminata la licenza, mi presentai all’8° Reggimento Alpini della divisione Julia. Avevo già un foglio con l’ordine di recarsi a Udine, al Comando.
Una volta lì, un capitano venne da me e mi chiese se conoscevo lo sloveno. Io risposi affermativamente, ma non sapevo né leggere né scrivere.
Durante la permanenza al mio paese c’erano i ribelli jugoslavi e io ero ai confini della Slovenia. Il 12 settembre 1943 ero il primo dell’elenco dei partigiani. Aiutavo il battaglione Udine della divisione Garibaldi. Eravamo circa trecento, compresa una quarantina di Inglesi, fuggiti dal campo di concentramento che si trovava a Cargnacco.
A quei tempi si collaborava con l’esercito jugoslavo. La Garibaldi era un’unione santa, formata da veri partigiani che combatterono contro i Tedeschi. Io, che ero del luogo, li aiutai come meglio potevo con i vettovagliamenti: pane, pasta, carne. Noi combattevamo sulle montagne del Friuli, del Cividale, nelle valli del Natisone.
Una mattina arrivarono le SS e circondarono il paese. Catturarono anche me e finii a Gorizia, in prigione. Lì ci divisero in due gruppi: gli uomini sani sarebbero stati deportati in Germania, mentre i malati – così dissero – sarebbero potuti tornare a casa. Dopo tre giorni le SS tornarono, provviste di un elenco. Ci portarono alla stazione di Udine e fummo caricati sul treno. Nel vagone vi erano molti friulani di San Giovanni al Natisone; altri venivano da Gorizia o da Trieste. Era una tradotta intera con due Carabinieri su un “covo”.
Arrivati a Dachau, entrarono con il treno anche i Carabinieri, che avevano viaggiato con le loro armi. Una volta entrati al campo, però, le SS li disarmarono, unendoli al nostro gruppo.
Eravamo circa duecento persone. Alla mattina, alle quattro, ci misero fuori, in fila – nudi – dopo aver messo tutto in un sacco, tranne la cinta. Prima di entrare nell’edificio, un medico delle SS controllò le nostre bocche alla ricerca di denti d’oro. Cercavano anche anelli e orologi… chi aveva denti d’oro ne subiva l’asportazione. La mia sorte fu diversa rispetto a quella di vecchi e bambini che vennero avviati alle camere a gas.
Mi inserirono in un gruppo e – eravamo ancora nudi – ci cosparsero di grasso perché, dicevano, eravamo pieni di pidocchi. Ma non era vero. Ci diedero una camicia corta, giacca e pantaloni con un numero in tela; a ognuno scrissero un numero. Poi ci distribuirono nelle baracche, io ero nella numero 15.
Eccolo lì, l’unica cosa che sono riuscito a conservare. Glielo mostro: 69540! Il Tedesco mi chiamava con il numero “neunundsechzigtausendfünfhundertvierzig”, e io dovevo rispondere “Hier” (“Presente”). Quel numero voleva dire “Mario Simaz”.
Noi eravamo vermi, cavie per i Tedeschi.
Quelli che erano a Dachau erano politici, erano comunisti, preti, generali, ufficiali, di etnie diverse. Uno poteva lavorare e dopo lo mettevano in baracche, moriva senza perdita di sangue e passava direttamente al forno crematorio. Il forno a Dachau fumava sempre! Vecchi, bambini, malati. A volte non erano nemmeno morti e li portavano via ugualmente. Erano gli stessi deportati a doverli trasportare, li ho visti io con i miei occhi. Portavano dei fantasmi di uomini che pesavano venti chili, svuotati di tutto, ridotti a sole ossa.
Quando gli Americani ci liberarono, pesavo trentotto chili, le mie braccia erano come i tasti di un pianoforte. Mi salvai scappando in una frazione di Monaco insieme a un mio paesano. Mi ritrovai in un deposito pieno di ogni ben di Dio: pasta, pane, uova, burro… Sempre vestiti da zebra, portammo via un sacco pieno di roba; con noi c’erano pure due Olandesi. Anche gli Americani prelevavano i viveri da quel magazzino. Tornammo al campo con il cibo; gli Olandesi alzarono la rete e riuscimmo a rientrare. Una volta raggiunta la mia baracca consegnai ogni cosa al colonnello responsabile, così tutti poterono usufruire di quanto preso dal magazzino. Molti però, per aver mangiato troppo, morirono di diarrea.
Gli Americani chiusero un occhio, ci lasciarono un mese a morire. Anche molti miei paesani morirono, nonostante l’arrivo degli Americani. Avrebbero potuto essere curati negli ospedali, così come fecero i Russi con i prigionieri del campo di Mauthausen.
Gli Ebrei erano in campi separati dai nostri; soltanto ad Auschwitz c’erano tipologie diverse di prigionieri, ma a Dachau vi erano solo prigionieri politici contrassegnati con il colore rosso, combattenti per la libertà. Il colore nero era riservato ai ladri. I criminali avevano il verde, erano Tedeschi che non venivano messi in prigione ma deportati nei campi come quello di Dachau. Questi criminali comandavano, nei campi di sterminio. All’atto della liberazione i Russi, i Polacchi e i Francesi hanno tagliato la testa agli stessi compagni di campo perché durante la prigionia ci bastonavano e ci facevano tutte le angherie possibili. Se ci addormentavamo, arrivavano con dei nervi di gomma con dei fili dentro e ci bastonavano per costringerci a lavorare.
Quello che sopportammo a Dachau fu peggio di quanto patimmo in Russia. Della provincia di Gorizia rimanemmo una decina. Dopo la liberazione del campo, gli Americani mi portarono fino a Bolzano, poi a Udine. A Udine mi recai al Comando americano e, a sera, mi accompagnarono a casa.
L’Americano che mi aveva scortato, per aver bevuto molta grappa offertagli dalla mia famiglia, fu costretto a restare a dormire.
Io oggi mi trovo in queste condizioni… non soltanto invalido, sono anche mutilato ed è per questo che ho deciso di dare la mia testimonianza.