Intervista a Nicola Malizia

Foto di copertina: sullo sfondo Macchi MC.200 – Archivio A.M.

di Achille Omar Di Leonardo

Rimini Miramare, 2 aprile 2009

“… lo salutai come si saluta qualcosa di bello, di familiare”

L’intervista a Nicola Malizia è stata realizzata con l’intento di colmare una lacuna piuttosto evidente a riguardo delle informazioni che si riferiscono alla partecipazione della Regia Aeronautica nelle azioni belliche sul fronte russo.
Il Maresciallo Malizia, esperto e militare dell’aeronautica, ha indagato non solo gli aspetti storici dell’aeronautica in Russia ma anche il punto di vista tecnico relativi agli interventi dei piloti italiani in territorio sovietico.
Esperto di Regia aeronautica e Aeronautica militare, ha scritto molti libri divulgativi sull’argomento ed è per questo conosciuto sia in Italia che all’estero.
Il suo libro “Ali sulla steppa” raccoglie le esperienze degli aviatori italiani della Regia Aeronautica e le loro azioni nella campagna sul fronte orientale.


Breve Biografia di Nicola Malizia

L’intervista è stata divisa in due grandi blocchi. Il primo (nero su bianco) dedicato alle domande sulla campagna di Russia e il secondo (nero su sfondo grigio) dedicato alla sua vita e alle esperienze lavorative sugli aerei.
Le fotografie pubblicate in questa pagina sono state gentilmente fornite da Nicola Malizia.

 

Ali sulla steppa” è un titolo molto bello e evocativo. Lo hai scelto tu?
Sì, i titoli dei libri li scelgo io così come li scrivo da solo.

Da aviatore che importanza ha l’indagine sull’Esercito nell’ambito della tua ricerca sulla Regia Aeronautica in Russia?
Dell’Esercito non è che me ne intenda molto. Lo seguo marginalmente anche se l’Aeronautica è sempre stata a disposizione dell’Esercito. Anche nei miei libri, quando cito le divisioni, non entro mai nel merito come faccio con l’Aeronautica.

Questo è stato il tuo primo grande lavoro?
No, il mio primo grande lavoro è stato “Inferno su Malta”, pubblicato da Mursia nel 1976, che mi ha consacrato a scrittore.

La campagna di Russia l’hai trattata solo in “Ali sulla steppa”?
L’ho trattata in un paio di pubblicazioni.

Com’è nata l’idea di scrivere anche un libro sull’aeronautica nella campagna di Russia?
Perché mi sono posto l’obiettivo di fare tutti i fronti in cui ha partecipato la Regia Aeronautica.
Dal 1959 al 1964 feci parte anche io di un reparto, il 22° Gruppo C.I.O., che aveva operato in Ucraina, conoscendo già molte storie dai protagonisti, alcuni ancora presenti in seno al 51° Stormo C.I.. Ecco perché mi sono dedicato alla campagna di Russia. Il primo Gruppo a partire fu proprio il 22°. Fu avvicendato dal 21°, già reparto organico del 51° Stormo Caccia Terrestre alla sua nascita a Ciampino Sud il 1° ottobre 1939. I due reparti da caccia che hanno combattuto in Russia sono confluiti poi nel 51° Stormo.

 

Foto sotto Macchi MC.200 del 21° gruppo Aut.C.T. in Ucraina con il tipico emblema del “Centauro” – Archivio Bundesarckiv/Koblenz

Quali sono gli aerei che vengono mandati in Russia?
Come aerei da caccia inizialmente i Macchi MC.200.

Soltanto i Macchi 200
No, verso la fine al 21°Gruppo Aut.C.T. furono assegnati anche dei Macchi 202. Alcuni di questi erano anche aerofotografici.

Quanti erano?
Pochi. Un Gruppo con 4 Squadriglie, consistenza organica prevista dallo Stato Maggiore Regia Aeronautica, per il fronte russo, schierava 12 aerei per Squadriglia.
Il 22° Gruppo partì da Tirana con 51 Macchi 200, i suoi quattro Caproni Ca 133 e due S.81, aerei da trasporto. Gli organigrammi dei reparti di volo della Regia Aeronautica erano formati dagli Stormi. Ciascuno di questi aveva due Gruppi e ciascun Gruppo incorporava tre Squadriglie per la caccia e due per il Bombardamento e l’Osservazione Aerea. In Russia vi fu un rafforzamento organico.

Com’è avvenuta la scelta di inviare aerei in Russia?
La partecipazione in Russia è stata una questione politica. Ad un certo punto l’aeronautica stabilisce di mandare degli aerei, quel poco che ha ovviamente.

Quindi l’Aeronautica in Russia ha partecipato tanto per esserci?
Come la partecipazione che abbiamo fatto con il C.A.I. (Corpo Aereo Italiano), inviato in Belgio, per la “Battaglia d’Inghilterra”, dove facemmo una grama figura. In Africa cominciammo bene così come su Malta e in Sicilia. A Malta c’era poco o nulla. Niente appoggio navale, mentre quello aereo era affidato a pochi “Sea Gladiators”, biplani alquanto obsoleti. In campo terrestre un contingente della “Malta Infantry Brigate”, che contava cinque battaglioni, ma vi erano molti cannoncini c/a dal tiro rapido, i famosi ”Bofors” da 40 mm, qualche carro armato e alcuni grossi calibri navali, antisbarco, posizionati sulle coste. Non sarebbe stato difficile conquistarla anche se, avendo loro il Radar, uno dei due fuori dal Regno Unito (l’altro era ad Adem), erano capaci di intercettarci in tempo. Nel 1942, con la pomposa “Operazione Malta C.3”, sarebbe stato impossibile per noi occuparla. C’erano ormai due flotte sul Mediterraneo: ad Alessandria d’Egitto vi era la “Mediterranean Fleet” dell’astuto Amm. Andrew Gunningham e a Gibilterra c’era la “Forza H” dell’Amm. James Somerville. Loro passeggiavano nel Mediterraneo senza nessun problema, facevano il loro comodo, ci abbattevano aeroplani, ci affondavano le navi, facevano quello che volevano.

Anche per l’aeronautica ha avuto lo stesso iter la partenza per la Russia? Cioè non era stato richiesto dai tedeschi quanto il desiderio da parte italiana di doverci essere anche con un gruppo d’aviazione?
Lo ripeto è stata una questione politica e d’orgoglio nazionale del tempo! L’Italia voleva partecipare perché i croati, i romeni avevano l’aviazione tre volte più della nostra, quindi una partecipazione con nostri aerei era un’esigenza di facciata finita in tragedia!

Come si è svolta la tua ricerca?
Le mie ricerche sulla campagna di Russia non sempre hanno avuto risposte esaustive, nulle da parte sovietica (!) ed è stato difficile raccogliere le informazioni che avrei desiderato avere, per proporre delle precise comparazioni!

Il 22° è stato un Gruppo che non si è sciolto dal momento che anche tu ne hai fatto parte?
In verità si sciolse dopo l’8 Settembre 1943, ma poi è rinato, dieci anni dopo, a Treviso, come reparto Caccia Bombardieri. Nel momento in cui abbiamo avuto i caccia intercettori ha mutato la sua missione operativa. In seguito è stato disciolto nuovamente, così oggi si trova nella posizione di “Reparto Quadro”. Ha avuto un bel distintivo fin dalla campagna di Russia, nato però in Albania, dalla felice “penna” di un S.Tenente, oggi Generale, che ha quasi 90 anni, ma francamente ignoro se sia ancora vivo. Voci non controllate lo danno per scomparso.

Mi mostra bozzetto preparatorio dello spauracchio, distintivo del 22° gruppo che operò in Russia

Foto sotto schizzo e distintivo dello spauracchio disegnato da Bepi Biron – rispettivamente Archivio G. Biron e Archivio N. Malizia.

Come nasce questo soggetto dello spauracchio?
Beppe Biron lo realizzò quando il 22° Gruppo Aut. C.T. aveva operato quasi alla fine della campagna in Albania, fermo a Tirana, nel momento in cui la Germania aveva messo in atto la sua programmata “Operazione Barbarossa” (occupazione dell’Unione Sovietica), quindi si vociferava qualcosa sulla sua successiva destinazione. Non si sapeva se fosse stato inviato in Africa o verso altra destinazione. Il Beppi Biron, all’epoca era un bravo disegnatore, quindi ideò questo schizzo. Come si nota nel disegno preparatorio, inizialmente riportava intorno 5 stelline. Nella realizzazione finale, ma in Russia, invece diventano 6. Molti storici sostenevano che questo disegno fosse nato in Russia mentre io posso affermare, con certezza, come sia nato in Albania, prima ancora che il Gruppo si muovesse da Tirana. Si mosse infatti alla data del 9 Agosto del 1941.

Che origine hanno gli stemmi nell’aeronautica?
L’Araldica del Cielo è scienza antica, nata già nel corso della 1^G..M.. Tutti i reparti di volo sono caratterizzati da un distintivo che portano dei motti, in gran parte veneti. C’è ne uno, che operava in Egeo, che rappresenta un gatto in fase aggressiva il cui motto era “Varda che te sbrego” (attento che ti graffio). Al museo di Vigna di Valle hanno rifatto un CR.42 con questo simbolo.

Sembrerebbe che nella simbologia ci sia molta goliardia diffusa.
Sì, molta. Infatti nel distintivo dello spauracchio le stellette rappresentano 6 aerei abbattuti. Quando i nostri aviatori andarono in Russia si racconta che, nel primo combattimento, abbatterono 6 aerei russi. Non ci sono documenti che attestino questi fatti, per cui, con ogni probabilità, le “Relazioni Giornaliere” del reparto andrebbero prese con le pinze, ma questo simbolo, scaramanticamente, si prefigge di ricordare quell’evento. Ogni gruppo aveva il suo proprio particolare distintivo.

Come hai conosciuto il Biron?
Beppe, “Bepi” Biron, è stato anche il mio comandante. Presso il 51° Stormo, a Treviso e a Istrana, il “Mitico” Bepi Biron fu un pilota eccezionale. Oltretutto è stato anche ferito con la menomazione di un occhio sul fronte spagnolo.

Dove venivano usati gli stemmi del gruppo?
Un po’ dovunque: sulle fiancate di fusoliera, sulle derive. Per il 22°Gruppo Aut. C.T. dapprima fu impresso di poco al di sotto della cabina di pilotaggio, ma poi venne spostato dietro la fascia ottica bianca di riconoscimento degli aerei. L’espediente della fascia bianca è nato alla fine degli anni 40, quando vennero i tedeschi. La si adottò per distinguerci dai loro aerei.

Che caratteristiche avevano gli aerei tedeschi?
Gli aerei tedeschi erano semplicemente eccezionali, data la loro piena evoluzione nella tecnica aeronautica, oltre al fatto di operare in un’arma giovane, giovanissima, nata nel 1933. Per la identificazione in cielo, i loro aerei adottarono una fascia sottile gialla in fusoliera, oltre ad avere, tra noi e loro, i segni distintivi di nazionalità. In Africa molti aerei della Regia Aeronautica, soprattutto i caccia, adottarono dei segni di riconoscimenti bianchi anche sulle punte della ali. Tutti gli aeroplani che operavano nei Balcani o nell’Est ebbero dipinti i “cappottoni” di giallo. L’aereo riprodotto in questa foto, un Macchi MC.200 in Ucraina, ha una fascia bianca, sottile o un tondo bianco, a fianco della regolamentare fascia ottica di riconoscimento, in Russia gialla; questi particolari segni aggiuntivi indicano che l’aereo appartiene al capo formazione, al comandante di Squadriglia. Serviva per capire, quando si era in formazione, chi fosse il leader. All’inizio gli aeroplani italiani avevano il tricolore sul timone di direzione, ma sul fronte francese, dal momento che la Francia aveva lo stesso tricolore – anche se blu, bianco e rosso – per evitare che vi fosse confusione, per i velivoli della Regia Aeronautica fu prescritta la Croce Sabauda al posto del tricolore.

I segni sopra e sotto le ali cosa rappresentavano?
Erano i segni distintivi di nazionalità, i tipici tre fasci littorio, fino a tutto il 1940 fasci neri su tondo bianco, poi fasci ancora neri ma su fondo naturale, quindi niente più fondo bianco.

Questi triangoli sulle ali invece?
I triangoli sulle ali sono altri segni distintivi per gli aerei operanti in Russia. Furono applicati durante la loro sosta forzata a Bucarest, mentre erano in volo di trasferimento verso le loro basi di rischeramento in Ucraina. Era un altro segno distintivo, visto dall’alto o dal basso, ma per un povero pilota del 22° Gruppo Aut. C.T. servì poco perché fu abbattuto da una batteria c/a tedesca!

Le basi dell’Aeronautica in Russia dov’erano?
Per il concentramento iniziale di uomini e materiali fu scelta Tudora, mentre la prima base operativa per il 22° Gruppo Aut. C.T., al quale venne ad affiancarsi una sola Squadriglia del 61° Gruppo Aut. Osservazione Aerea (Caproni Ca 311), fu quella di Kriwoj Rog, minuscolo aeroporto ucraino, probabile sede di un reparto bombardieri sovietico.

Odessa invece, aveva anch’essa una base aerea?
Lo era, anche per ospitare aerei proveniente dall’Italia. Odessa, comunque, rappresentò la sede principale dopo la nostra ritirata!
Altri basi di smistamento furono la già citata Tudora, Botosani e, più avanti, Balta.

Seguivano sostanzialmente quasi la stessa rotta delle tradotte?
In linea di massima sì. Inizialmente era stato scelto un altro aeroporto, Rikowo, ma poi fu preso dai tedeschi per cui venne assegnata la base di Krivoj Rog.

In questo modo l’aeronautica si insediava nelle zone che venivano conquistate di volta in volta dalle truppe di terra.
Certo, erano in loro appoggio. Da Krivoj Rog, poco dopo il 22° Grupopo Aut., e alcune unità del 61°Gruppo Aaut. O.A., si spostarono a Stalino, una città più importante con un aeroporto più grande. Quello di Krivoj Rog era un vecchio aeroporto che in seguito venne smantellato. In effetti non era attrezzato ed era stato, oltretutto, anche sabotato.
Dal racconto dei veterani pare che la zona intorno a questo aeroporto luccicasse per via della pirite. Mi ricordo che a Crotone venivano navi russe che scaricavano questo minerale, per la “Pertusola” e la “Montecatini”. L’Aeronautica in Russia operava in condizioni molto difficili perché gli aerei erano a cabina scoperta per cui, ripararsi dal freddo era molto complicato. I piloti da caccia avevano un caschetto di pelle, un berrettone di lana, una o due maglie di lana, calzettoni, tuta da volo e, bardati in quel modo, venivano issati sulle cabine dagli specialisti così come si issavano i cavalieri medievali sui cavalli. Quando combattevano però, con la tensione accumulata in volo, sudavano.
I russi non avevano una grande aviazione in quel settore tanto che i nostri aviatori, almeno inizialmente nel primo anno (1941), hanno spadroneggiato. Quando invece gli Alleati cominciarono ad aiutare e ad armare i russi non è stato più così scontato. Furono equipaggiati anche con Spitfires Vc e con P-63 ”Kingcobra”, che noi italiani non incontrammo.

Quali erano gli aerei migliori in quel fronte?
Per i russi la serie dei Mikoyan Gurevic, quali MiG1, MiG3 e MiG5. Poi i Lavochin, Lag.1, Lag.2 e Lag.3. Gli Ilyuschin Il-2 “Shturmovick”, la buona serie dei Yakovlev, quali Yak-1 e Yak-3, tutti aerei che prendevano le iniziali degli ingegneri che li avevano progettati.
Inizialmente avevano combattuto con il Rata e i Super Rata, costruiti dall’ingegnere Nicolaj Polikarpov. Il Rata lo avevamo già incontrato nella guerra di Spagna. Aveva un motore e un armamento eccezionali e poi si metteva in moto elettricamente, mentre i nostri erano a manovella. Lo chiamavano “il Rata” perché attaccava da sotto come il topo, il “rat” (dal francese). Come aereo bombardiere avevano i Tupolev, l’SB2, un bombardiere bimotore medio, di scarso interesse, anche questo presente durante il conflitto spagnolo.

Che rapporto c’era tra l’aviazione e il Csir?
La nostra aviazione, come aerei da caccia, ha operato soprattutto a sostegno della Luftwaffe piuttosto che con il Csir. Infatti, il 22°Gruppo Autr. C.T. operò con una certa continuità nel 5° Fliegerkorps, scortando “tuffatori” germanici inviati a smantellare presidi di resistenza sovietici.

In effetti si ha la netta impressione che l’Aeronautica italiana in Russia non abbia partecipato alle rispettive azioni delle truppe di terra.
Attività discontinua per la caccia, mentre molto più attivo, per le sue caratteristiche, il reparto dell’Osservazione Aerea, il 61°Gruppo Aut. O.A., prima, ed il 71° dopo. Il guaio era che non avevano aerei adeguati, se non affidarsi, per il 1941, ai mediocri, per non dire pessimi Caproni Ca 311, rafforzati nel 1942 dai FIAT BR.20M. Tuttavia non si creda che i nostri MC.200 ed MC.202 non abbiano fatto proprio nulla per le nostre forze terrestri. Ti dirò che i Caproni Ca 311, tutto vetro, legno e compensato, poca lamiera, erano scherzosamente chiamati anche “vetrine volanti”.

Quanto ha inciso il clima sulle missioni aeree?
In effetti il clima ha avuto il suo peso, c’è stata poca efficienza e di conseguenza anche poche missioni.

Sostanzialmente l’aviazione non ha mai servito il Csir, non ha mai volato per fare azioni di supporto al Csir ed invece erano piuttosto al servizio dei tedeschi. Ma quanti erano gli aerei e come venivano usati?
Sì, in gran parte era subordinata al volere e alle esigenze della Luftwaffe. Scortavamo i loro Junkers 87D, gli “Stuka”, oppure dei ricognitori, i modesti ma efficaci Henschel Hs 126. Di Macchi 202 ne arrivarono pochi, solo 14 in tutto. Il secondo reparto che avvicendò il 22° era il 21°Gruppo Aut. C.T. ed aveva per emblema il “Centauro”. I dodici + 2 Macchi MC.202 inviati, sopperirono la formale richiesta di un secondo Gruppo da Caccia, inizialmente destinati sul fronte dell’Africa settentrionale, per cui molti avevano una mimetica adatta a quei territori e meno adatti invece per la Russia.

Così anche i russi non avevano una grande aviazione, almeno nel 1941.
Sì, non avevano una grande aviazione inizialmente. Questo in foto è un nostro aereo del 61° Gruppo Aut. Osservazione Aerea – un Ca 311.

Facevano fondamentalmente fotografie?
In linea di massima sì, ma anche dei bombardamenti sulle linee nemiche. Erano armati con tre bocche da fuoco: una mitragliatrice Scotti Isotta Fraschini in torretta dorsale, una fissa alla radice di un’ala ed una una retrattile, ventrale, tutte da 7,7 mm. L’equipaggio era formato da tre persone: pilota, motorista e normalmente un Ufficiale Osservatore del Regio Esercito.Come in tutti gli aeroplani da bombardamento, siluranti o ricognitori marittimi, plurimotore, hanno imbarcato come osservatori Ufficiali della Regia Marina o del Regio Esercito ed usavano lo stesso equipaggiamento da volo degli aviatori.
Questa è la famosa “Marus”, giubbotto e pantaloni in gabardine, munita di felpa interna, con colletto di pelo d’agnello. Sono stato anche un collezionista di uniformi.
Questo aereo russo è uno Ilyuschin Il-2 “Shturmovik”, un velivolo blindato, assaltatore terrestre formidabile, anche se pesante
Questa è una foto dei granai in Ucraina, amministrati tutti dai tedeschi, sotto la loro assoluta tutela, come lo erano i prigionieri di guerra. Nel mio volume c’è un episodio gustoso che racconta come tre piloti del 21°Gruppo Aut. C.T. andarono a sottrarre alcuni quintali di grano ad una guarnigione germanica…con documenti posticci! Ai soldati sovietici, dai loro Comandanti, al fine di evitare defezioni in massa, veniva detto di non cadere prigionieri dei tedeschi, perché avrebbero preso il tifo petecchiale. E di questo, quando finivano davvero in mano nemica, erano terrorizzati.

Come l’hai recuperata questa foto?
Al Ministero. Ne ha molte in archivio. Qui si vede una diga progettata dagli ingegneri italiani e distrutta dagli “Stuka” tedeschi.

Come cedono le foto gli archivi?
Adesso le fanno pagare ma non so come funzioni attualmente la ricerca. Quando ero in servizio delle stesse foto ne avevano diverse copie per cui era facile procurarsele facendone richiesta. Da questa foto aerea si vedono i fossi anticarro.

Questi fossi sono presso un aeroporto?
Credo sia nei pressi di Odessa. Quando i nostri arrivarono, in Agosto, tempo scelto ad arte, sembrava di essere in Sicilia. Era un’estate molto calda, tutti stavano a dorso nudo. Ma a Settembre e a Ottobre cominciò il primo freddo.
Questa foto mostra un cimitero di guerra. I nostri cimiteri sono stati tutti distrutti dai russi. Nei pressi della zona dove cadde un nostro pilota, l’eroico Capitano Giorgio Iannicelli, da Roma, Medaglia d’Oro al V.M. “alla memoria”, i carri sovietici smantellarono quel nostro cimitero, dove erano stati seppelliti, oltre a Iannicelli, diversi aviatori italiani. Il figlio dell’Eroe, l’Avv. Gianluigi Iannicelli, è andato un paio di volte in Russia, nel tentativo di rintracciare le spoglie.

Azioni particolari in Russia da parte dell’aviazione italiana non si ricordano quindi.
Ci sono, in verità. Nei miei viaggi a Roma ho conosciuto un generale, un certo Cazzaniga. Lui era stato in Russia e faceva i rilevamenti fotografici. Aveva una cassetta dove teneva la documentazione, con la scritta A.R.M.I.R. Esperto in planimetria aerea insegnava all’Accademia Aeronautica. Era stato ufficiale (tenente o capitano non ricordo), ma volava con le “Vetrine Volanti”! alias Caproni 311. Soltanto gli S.81 da trasporto hanno imbarcato personale dell’Esercito, anche feriti tedeschi.

Solo soldati o anche merci?
Di tutto: materiali bellici, rifornimenti, medicinali, la posta l’elemento indispensabile per il combattente di prima linea. Poi lungo la rotta di rientro imbarcavano feriti.

Immagino che i nostri aerei abbiano principalmente trasportato soldati tedeschi dal momento che non hanno fatto servizio per il Csir.
Sì, anche tedeschi, ma non solo. Il compito della nostra aviazione da trasporto non era forzatamente legato alle esigenze dei tedeschi. Questo assolutamente No. Questi aerei volavano con ogni tempo. Una delle tre unità era dislocata a Bucarest, le altre due sui campi di prima linea. Il Generale di Brigata Aerea Enrico Pezzi, Com/te del CAFO (Corpo Aereo Fronte Orientale), succeduto al Comando dell’Aviazione del CSIR al Col. Pil. Carlo Drago, si portò finanche sulla base di Scertkowo, fatalmente per compiere il suo ultimo eroico volo. Si recò sull’aeroporto di Scertkowo quando seppe della disperata situazione dei nostri aviatori, accomunati da reparti terrestri, accerchiati dalle avanguardie sovietiche. Egli tentò di salvare quanti era possibile imbarcare sul suo limitato S.81.

Anche l’aviazione italiana perciò ha subito gli accerchiamenti.
Certamente! Quei pochi aviatori, spintisi in avanti, si trovarono invischiati nella tragedia di quei giorni. Pezzi atterrò a Scertkowo con un equipaggio di ferro, portando con sè anche un Colonnello Medico del Regio Esercito, perché potesse fare le dolorose scelte di chi imbarcare sul suo D’altronde il nostro trimotore poteva trasportare poche decine di uomini.

Foto sotto aereo S.81 da trasporto in un campo innevato in Ucraina – Archivio Interconair/London

Mi viene in mente un film di De Santis, “Italiani brava gente” dove c’è una scena simile. Alcuni soldati dell’esercito italiano si frammischiano ai tedeschi e cercano di salire su un aereo di trasporto feriti. Molti si fingono feriti nella speranza di poter essere accolti ma è chiaro che non tutti poterono salire.

Ti leggo il passaggio che racconta la vicenda “Sotto la poderosa spinta delle forze sovietiche i nostri reparti arretrano verso le posizioni di partenza per recarsi a Scertkowo, dove si tenta di organizzare un nucleo di assistenza ma su questo campo si compie un altro dramma della nostra aeronautica. Il presidio italiano, ormai completamente accerchiato, subisce la pressione sovietica che lo stringe sempre di più nella morsa di ferro e di fuoco. A Scertkowo si contano undicimila uomini molti dei quali feriti, congelati, ammalati ormai disfatti dalla fame […] quando il comando del Cafo apprende la sorte di quegli uomini sventurati, è lo stesso comandante di brigata aerea, generale Enrico Pezzi, che vuole organizzare immediatamente un disperato soccorso portandosi sul campo con l’S81 nella 245^” C’erano due squadriglie la 246^, la 247^ e la 245^ “Per tale missione il Generale Pezzi selezione un equipaggio eccezionale preferendo imbarcare per primo un colonnello medico dell’esercito. Quindi decolla da Voroscilograd nel tardo mattino del 29 dicembre per atterrare a Schertkowo alla ore 12,15 in punto, a bordo dell’S81, Matricola Militare 20257, che tralaltro trasporta anche medicinali e viveri di prima necessità. Oltre a Pezzi si trovano i seguenti uomini: il tenente pilota Giovanni Bosacchi, sergente maggiore marconista Antonio Arcidiacono […] primo aviere armiere Salvatore Caruso, […] colonnello medico del Regio Esercito Federico Bocchetti […] maggiore osservatore del Regio Esercito Romano Romanò. L’S81 atterra […] tutto l’orizzonte si chiude, ‘Qua bisogna far presto’, scaricano i materiali trasportati con il generale che si presta a dare un amano. Si cerca di affrontare tutte le operazioni previste perché, probabilmente, i russi avevano sentito il rombo dell’aereo avvicinarsi al presidio cercato. Quindi il generale Pezzi sollecita il colonnello Bocchetti perché decida per chi debba essere o no imbarcato sul trimotore, ultimo legame di salvezza di quanti sono destinati ad essere accertati o, tuttalpiù, fatti prigionieri. Si selezionano i feriti più bisognosi, gli ammalati più gravi, i sofferenti, tutti coloro che potranno trovare le cure necessarie nelle retrovie ma, purtroppo, la capienza dell’S81 non consente di portare ed accogliere quanto vorrebbero imbarcare. Si devono fare delle scelte penose mentre quegli uomini guardano negli occhi quel generale italiano della Regia Aeronautica che promette di tornare […]” aveva promesso di tornare “[…] lo farà fin quanto gli sarà possibile, lo assicura, fin quanto il presidio disporrà di un ritaglio di neve per poter posare le ruote del trimotore. Dopo aver imbarcato i feriti, tutti coloro che il destino, il caso e la pietà hanno indicato quali suoi compagni di volo, il generale Pezzi decolla da Schertkowo. È il primo pomeriggio di quella giornata di dicembre 1942 quando […] l’aereo sparisce nel nulla.”.
È sparito nel nulla, senza lasciare traccia di sé! Ogni tanto si sente dire che qualcuno ha trovato qualcosa. Ma lì, quell’aereo, o è finito in un fiume – o in un lago – ed è sparito, altrimenti i russi avrebbero dovuto trovare dei resti ma c’è da dire che, anche se li avessero trovati, per loro avrebbero avuto poca importanza. Il fatto vero è che, in quelle circostanze, i russi non avrebbero potuto fare altro che prenderne atto. Se avessero catturato l’equipaggio sarebbe stato diverso, avrebbero anche comunicato la cattura di un generale ma in quelle circostanza era, per loro, un rottame come tanti altri. Io credo che con l’impatto a terra si sia disintegrato. Se avessimo ripreso le posizioni avremmo anche potuto pensare di ritrovare qualcosa, ma purtroppo dovemmo ritirarci e questo fece sì che perdemmo tutto. In quella occasione i tedeschi ci considerarono dei vili. La rottura del fronte era avvenuta tra noi e quella ungherese e i russi in quella occasione hanno dilagato.

Cosa puoi dire dei reduci aviatori che hai conosciuto?
Ho conosciuto anche reduci del gruppo al quale, in tempi diversi, ho fatto parte anche io. Casal Beltrami, ad esempio, un veneto, arrivato a Generale di Brigata, morto alcuni anni fa a Roma. Lo chiamavano scherzosamente il “Presbiterino”. Lui amava le bestiole, cercava di proteggere i topi famelici che mangiavano di tutto. Gli altri li ammazzavano mentre lui li preservava, così da meritarsi anche il nome di “topino”. Io da giovane l’ho conosciuto da Tenente, aveva i capelli sempre dritti. Tu sei giovane e non hai presente la reclam della Presbitero, in ogni modo c’era questa reclam, ai tempi in cui frequentavo il Ginnasio, che pubblicizzava le matite e c’era questo volto di uomo sorridente con in testa le matite a mo di capelli.
Poi ho conosciuto la vedova Iannicelli che mi ha dato delle fotografie bellissime. Iannicelli era stato colpito dallo scorbuto, per mancanza di vitamine: nonostante che il Ministero inviasse della frutta fresca, ma in Russia si congelava e si sbriciolava, quindi non era più commestibile. Iannicelli fu colpito subito da questa grave carenza, tornò a Treviso facendosi due o tre mesi di licenza per malattia per poi tornare al fronte. C’è una lettera bellissima che un ufficiale dell’esercito scrive alla vedova Iannicelli.

Hai scritto sul libro la storia legata a Iannicelli?
Sì, è scritto lì. Questa è una foto di Iannicelli. In Accademia, scherzosamente lo chiamavano “Il gatto”. Il figlio, l’ho già detto, è un Avvocato, Piergiorgio Iannicelli.

Pare che il figlio si fosse recato in Russia in cerca delle spoglie.
Il figlio è andato nel luogo dove l’aereo è stato abbattuto. C’è una lettera di un ufficiale dell’Esercito che scrive alla moglie, alla madre di Piergiorio Iannicelli. Io ho tentato anche di cercarlo. Alcuni reduci mi avevano detto che poteva essere fiorentino, si chiamava Angelo Facchinelli Mazzoleni, però non si capiva se fosse stato un Ufficiale medico o un Ufficiale d’altro ruolo, comunque era dell’Esercito. Lui scrive questa lettera descrivendo la scena dei soldati che recuperano il corpo di Iannicelli. Te la leggo. “[…] vi posso assicurare che la sua salma fu ricomposta dagli stessi fanti che lo trovarono con quella religiosità che sanno trovare nei loro umili cuori i nostri soldati. Non so, signora, se voi avete mai visto la commovente delicatezza dei nostri soldati in queste tristi incombenze. Io, che ho già visto due guerre, vi posso assicurare che in loro c’è una meravigliosa tenerezza e mano di madre non potrebbe essere più lieve”. Facchinelli partecipò alla raccolta dei resti del capitano insieme ai suoi soldati.

Che data riporta la lettera?
15 marzo 1942. Lui è caduto il 29 dicembre del 1941. Il gentile Angelo Facchinelli Mazzoleni mandò alla Signora Iannicelli anche uno schizzo del posto in cui era ubicato il piccolo cimitero di guerra di Jussowka. Io andai a trovare la Signora e mi mostrò questo disegno. Come dicevo lui aveva passato questa convalescenza a Treviso. Poi rientra al fronte, si rimette dallo scorbuto, e riprende servizio. Quando muore è Comandante interinale del 22°Gruppo Aut. C.T.. Un Capitano non potrebbe assumere il comando di un Gruppo, ma lo può fare “ad interim”.

Anche il reduce Riccardo Riccardi, nell’intervista che gli feci a Roma, a riguardo di una mia domanda sulla qualità delle scarpe dei soldati, riferisce di Iannicelli e dice “In una recente intervista al figlio della medaglia d’oro Giorgio Iannicelli […] emerge la sua diretta testimonianza […] di aver assistito alla riesumazione delle salme nel cimitero di Yussowka, presso Stalino […].
Noi (della divisione Torino ndr.) assistemmo a quel combattimento (dalla città di Rikowo ndr.) che coinvolse Giorgio Iannicelli a fine dicembre del 1941. Quando i russi fecero l’offensiva nella notte del 24, lui affrontò da solo una quindicina di aerei da caccia russi ma fu abbattuto. Il figlio si era prodigato per poter recuperare le spoglie e si recò a Stalino, presso il cimitero dove era sepolto (anche ndr.) il padre […] Dal momento che avevano costruito un palazzo, la prima fila dei morti li avevano dovuti prelevare spostandoli nel loro cimitero” nonostante ogni corpo di soldato seppellito avesse posta vicino una propria bottiglia di riconoscimento, nella quale venivano riportate le generalità, la salma non poté essere identificata perché ormai frammista ad altri resti di soldati italiani .

Pare che Iannicelli sia morto solo, accerchiato in un combattimento.
In verità, all’inizio, non era solo, perché la mini-pattuglia decollata da Stalino era composta da tre Macchi MC.200. Uno di loro venne colpito gravemente, per cui fu costretto a rientrare. Poi lo stesso tornò di nuovo in Russia col 21°Gruppo Aut.C.T. e questa volta venne abbattuto, trovando la morte! Un altro esaurì le munizioni e tentò la fuga riuscendo a rientrare. A quel punto Iannicelli rimase solo e venne abbattuto. Il cimeterino di guerra a Jushowka, era stato allestito dai Cappellani Militari, in particolare da Don Ferrari, appartenente al 159°Ospedale da Campo. Vi erano sepolti anche fanti e bersaglieri. Nella lettera Angelo Facchinelli Mazzoleni descrive nei dettagli l’ubicazione, dicendo che si trova vicino alla stazione di Stalino, dopo il cavalcavia. Ma nessuno. che io sappia, riuscì a ritrovarlo. In uno dei viaggi dell’Avv. Pierluigi Iannicelli, un comune amico, un Maresciallo toscano, un pilota che lo accompagnò in Ucraina, mi fece vedere una foto che lo riprendeva con una grande croce di ferro, trovata in quei luoghi. L’assurdità è stata che dove era presente il cimitero di Jussowka, quindi luogo della sepoltura di Iannicelli, era stato costruito un supermercato.

Sì, in effetti questa era la notizia poco confortante. Da quello che sai è stata recuperata?
No, da quello che so non l’ha recuperata nessuno. Non sono riusciti a recuperarla, ma se avrai notizie in merito mi farà piacere apprenderle e comunicare la mia felicitazione all’Avvocato Piergiorgio Iannicelli. Come ti dicevo ho incontrato la signora Elisabetta Orlando, vedova Iannicelli, una persona squisita. Mi diede il diario di suo marito scritto durante la guerra di Spagna, che ovviamente riconsegnai dopo averlo copiato. Ho pubblicato anche la sua lettera che scrisse prima che succedesse la tragedia “29 dicembre 1941, notte inoltrata. Mia Cara, sono da ieri a Stalino e voglio mandarti subito un saluto. Ti devo scrivere molto in fretta perché sta per partire un corriere e, date le condizioni di difficoltà, desidero non perdere questa opportunità […] ” ogni giorno le mandava un telegramma “ […] A questo riguardo, non preoccuparti di eventuali ritardi, io cercherò, come sempre, di fare il possibile per non farti mancare mie notizie. Desidero saperti, in ogni caso, serena. Anche per quanto riguarda i telegrammi incontrerò maggiore difficoltà sempre per le condizioni locali. Con la mia prossima lettera ti darò più ampi particolari. Sulla mia sistemazione e la mia attività. Ora sono semplicemente accampato tanto da dover dormire vestito ma, spero, per domani di aver rimediato a tutto […]” l’indomani invece perde la vita!“ […] sulla mia salute puoi stare tranquilla. Giorgio”.
Deve esserci anche una fotografia del suo alloggio. Aveva 29 anni.

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