Intervista a Nicola Pignato

di Achille Omar Di Leonardo

Roma, 15 marzo 2009

“… non si provoca un gigante se non si hanno le capacità per poterlo affrontare”

L’intervista al professor Nicola Pignato è stata realizzata grazie all’aiuto di Lorenzo Tonioli (esperto di “Mezzi e artiglieria”). Il Professore, anche dopo la sua scomparsa, gode ancora di grande stima tra gli appassionati di modellismo, di mezzi e di Storia militare. Averlo intervistato è stato un grande privilegio se consideriamo che questa è forse l’unica intervista rilasciata a un sito di storia. In rete infatti mancano suoi contributi scritti è interviste dirette. Oltre ad essere stato un importante storico era anche un ottimo illustratore di mezzi militari.
Breve Biografia Nato ad Udine ha vissuto a roma sino alla sua scomparsa. Ha collaborato  con molte riviste italiane e straniere di storia militare su tematiche di difesa e modellismo. Ha pubblicato molti libri ed articoli sulla storia militare italiana, anche in inglese, con particolare riferimento alla motorizzazione militare ed ai veicoli militari. Ha tradotto dall’inglese e dal tedesco molte pubblicazioni di argomento militare. Ha collaborato fino alla sua scomparsa con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Autocarro Fiat 666 MN - 1940 Autocarro Fiat 666 MN – 1940

Bibliografia Di Nicola Pignato

Si parla di Gino Papuli e del suo libro “Il labirinto di ghiaccio” incentrato sulla sua esperienza nella ritirata a sud con la colonna Carloni, eclissata dalla memorialistica alpina

Che tipo di reggimento era il 120°?

Il 120° aveva il vantaggio di avere dei cannoni moderni. Era l’unità più adatta al fronte russo. Apparteneva in effetti alla III Celere, l’unica divisione motorizzata, che nasceva come divisione di cavalleria alla stessa stregua delle altre divisioni celeri. Alla fine della campagna di operazione del C.S.I.R. fu motorizzata e i reparti a cavallo, sia quello di artiglieria che i due reggimenti, passarono a far parte di un raggruppamento. La III Celere, oltre ad essere stata motorizzata, ebbe in più il 67° battaglione Bersaglieri corazzato.

Come mai, secondo lei, non si parla mai della Colonna Carloni? Di questo ripiegamento verso sud. Come mai, pur essendo stato l’ultimo raggruppamento a lasciare la Russia, che ha quindi combattuto per ultimo, viene lasciato nell’ombra?

Non se ne parla, perché gli alpini hanno monopolizzato questa campagna. Ne sono morti moltissimi e questo fa sì che si parli principalmente di alpini. C’è stato un avvenimento cruciale che ha indotto al sacrificio di molti soldati: il comando alpino aveva perso tutte le stazioni radio a Opit, come confessa lo stesso generale Nasci in un suo documento; questo comportò un’interruzione delle comunicazioni con le sue le divisioni. Gli rimaneva quindi solo la Tridentina; la Julia e la Cuneense procedettero per conto loro andando a finire nelle mani dei russi. Nasci inviò, tramite la radio del XXIV Corpo Germanico, il telegramma del 21 gennaio 1943:

DA C.A.A. A COMANDO 8^ ARMATA TRIDENTINA GIUNTA ORE 16 ROMANCHOWO PROSEGUIRA’ DOMATTIMA PER L’OCCUPAZIONE DI NIKITOWKA ALT TROVATA RESISTENZA A MALA KEJEWKA, DOVE INFLITTE GRAVI PERDITE AVVERSARIO ET DISTRUTTI 12 PEZZI M.C. AUTOCARRI E MATERIALE BELLICO ALT SI E’ VISTO SORVOLARE NOSTRA COLONNA AEREO TEDESCO RICOGNIZIONE.MARCIA FATICOSISSIMA PER NEVE ALTA E TORMENTA ALT TRUPPE OPERANTI SONO SEGUITE DA INTERMINABILE COLONNA CARREGGI E SLITTE UNGHERESI E TEDESCHE E ITALIANE ALT ATTENDO RISPOSTA MIEI PRECEDENTI RADIOGRAMMI IN SPECIE CIRCA SITUAZIONE AVVERSARIA FACENDO PRESENTE CHE PER PERDITE ELEVATE IN MATERIALE E UOMINI C.A. NON E’ PIU’ IN EFFICIENZA ALT URGONO RIFORNIMENTI AEREI GIA’ RICHIESI

Il sacrificio degli alpini ha fatto sì che si parlasse quasi esclusivamente di loro.

Mi è capitato diverse volte di partecipare a commemorazioni o a incontri tenuti da alpini e quando si sarebbe dovuto parlare del C.S.I.R. ci si è limitati a piccoli accenni. Altre volte invece siè glissato quasi completamente l’argomento senza nemmeno citarlo. Eppure ha passato un intero anno in Russia partecipando a un lungo periodo di operazioni militari importanti, al contrario dell’Arm.I.R. che invece arrivava in un secondo momento in Russia. Ho assistito spesso a incontri organizzati da certe associazioni un po’ troppo autoreferenziali in cui si sottolineavano le  gesta del proprio corpo militare, delle proprie perdite, e si dimenticava di soffermarsi anche sulle perdite e le gesta di altre divisioni o reggimenti.

C’è da dire che sono stati ben pochi gli storici che hanno studiato la campagna di Russia sui documenti originali custoditi negli archivi, questo ha fatto sì che la memorialistica prendesse il sopravvento sulla storia ufficiale, lasciando più spazio ai vari Bedeschi con “Centomila gavette di ghiaccio” ed a Rigoni Stern con “Il sergente nella neve”.

Dal mio punto di vista, per quella che è la mia modesta conoscenza della campagna di Russia, ho potuto costatare che gli alpini avevano, ed hanno, dalla loro parte una coesione forte all’interno del loro gruppo che altri reparti non hanno e non hanno avuto, tranne, per certi versi, i bersaglieri.

Intanto bisogna dire che per il loro mestiere di soldati erano armati bene. Erano dotati di una forte artiglieria da montagna (obici da 75 e 105), avevano un buon numero di muli. Purtroppo avrebbero dovuto essere impiegati sul Caucaso e non sul Don.

A proposito di questo aspetto mi sono fatto una mia idea sulla scelta, da parte russa, di attaccare in determinate zone. Non ho un’esatta conoscenza diretta della tipologia delle sponde destra e sinistra del Don ma, guardando le mappe, osservando le foto, leggendo libri e racconti che descrivono questo territorio, ho constatato che i primi sfondamenti sono avvenuti in zone piuttosto pianeggianti.

Lo sfondamento dei russi è avvenuto sulla fanteria, mentre per gli alpini era previsto il loro accerchiamento.

Questo a livello tattico. Ma per la scelta del territorio?

Si, erano zone generalmente pianeggianti anche se a volte erano presenti delle balke, gli avvallamenti tipici del terreno presenti nel territorio russo.

Generalmente di parla degli alpini come i soldati più preparati, del corpo che ha resistito di più ai russi, quello considerato imbattuto nell’ambito della guerra al fronte orientale. Tutta questa fama è frutto di bravura alpina o è il risultato di una casualità indotta appunto da questioni legate a scelte, da parte dei russi, di sfondare in zone più pianeggianti visto che gli alpini erano su quote più alte?

Gli alpini si erano fortificati e avevano abbattuto, almeno così dicono, ottomila betulle per farne dei ricoveri pensando di passare l’inverno in una guerra di posizione. Situazione che, logicamente, non si è creata. Bisogna dire prima di tutto che c’è stato un errore di partenza, non si dovevano schierare gli alpini sul Don perché gli alpini non sono fanteria comune, non erano attrezzati per quel tipo di territorio. Nella ritirata poi il dramma è stato che non hanno potuto sgomberare i muli, sono stati costretti spesso ad abbandonarli. Ma sempre tornando alla loro fama, il “vantaggio” degli alpini è stato quello di essere riusciti ad aprirsi un varco nella sacca a Nikolajewka. Questo ha fatto sì che, giustamente, tutto il merito e la bravura si concentrasse su di loro. La leggenda degli alpini “imbattuti” (raccolta anche dal Petacco), è stata purtroppo smentita più volte, e, purtroppo, non solo dai fatti.

Ma anche in questo caso, probabilmente, il vantaggio è stato aver saputo trovare i canali giusti di diffusione della loro storia. Avere i mezzi per poter amplificare certe vicende ha dato loro un vantaggio in più rispetto agli altri.

Questo non saprei dirlo. È un fatto però che gli alpini hanno rischiato il tutto per tutto. La colonna dei profughi, non si possono chiamare che in questo modo – avevano ormai abbandonato le armi – erano frammischiati con dei civili, non erano più armati, erano una moltitudine in ripiegamento che ha permesso a molti di salvarsi. Loro hanno avuto la capacità di raccontare quello che era successo, visto che erano i più malandati. Per la questione legata al carburante, che mancava un po’ per tutti, avevano dovuto abbandonare gli automezzi, quelli c’erano, 9000 automezzi nell’Armata non sono pochi. Se pensiamo alla divisione Vicenza, schierata per tappare i buchi. Una divisione nata per il controllo delle retrovie, non attrezzata, e che non aveva armamenti pesanti, quindi anche questo è stato uno dei fattori che ha determinato l’esaltazione degli alpini. Gli alpini erano settentrionali ed erano, inutile nasconderselo, un po’ più colti degli altri.

Credo che, per quel che riguarda la memorialistica alpina così preponderante, abbia giocato molto la loro forte coesione di gruppo: piccole comunità raccolte in piccoli paesi, in piccoli territori dove tutti si conoscono, dove spesso ci sono legami di parentela forti e radicati.

Certo, era gente che si conosceva ed era quindi più facile che si creasse un gruppo forte anche più facile da comandare.

C’è un passaggio nel libro di Papuli che è illuminante rispetto a questo discorso della coesione tra alpini. Ad un certo punto Papuli racconta che si ritrova su un camion insieme a un gruppo di altri artiglieri, facente parte del suo stesso reggimento, il 120°, artiglieri che non conosceva. Ad un certo punto lui dice di aver avuto un certo rifiuto istintivo verso questi stessi compagni visti come dei rivali e degli intrusi all’interno del proprio gruppo ormai consolidato. Quando lessi quel passaggio capii quale fosse la differenza sostanziale tra gli alpini e gli altri soldati e quale fosse la giusta chiave di lettura rispetto a questo discorso.

Non è da sottovalutare l’aspetto legato alla comunicazione verbale attraverso una “lingua” comune, il dialetto era un elemento molto importante che li avvicinava, per non parlare poi del reclutamento regionale. Tutti questi fattori incidono sull’amalgama di un reparto. Entrando nel merito della campagna di Russia, quali sono stati gli errori più evidenti? L’avvicendamento nell’imminenza della controffensiva sovietica. Questo aspetto ovviamente non riguardava gli alpini ma tutti i soldati del C.S.I.R. In quella occasione anche il giornale“Dovunque” fu chiuso proprio perché i soldati che vi lavoravano furono mandati a casa. Il provvedimento risale al 20 agosto 1942:

N° 23110/OP At Superesercito et Comando 8^ armata. Est intendimento di questo Comando Supremo provvedere graduale avvicendamento personale vecchio C.S.I.R. che habet già trascorso un inverno in Russia/Prego comando 9^ armata riferire circa modalità esecutive ritenute più convenienti per graduale sostituzione personale et segnalare Comando Supremo et Superesercito numero approssimativo ufficiali/sottufficiali et truppa per riportare unità XXXV corpo d’armata at forza organica/Superesercito est pregato porre di urgenza allo studio programma sostituzione personale suindicato/da completare entro mese di dicembre/et riferire al più presto in merito a questo Comando Supremo/Per ovvie ragioni questione deve essere trattata con massima riservatezza. Ugo CAVALLERO.

Certo ma i comandi italiani non sapevano che i russi avrebbero attuato questa controffensiva, non possiamo considerarlo un errore.

Chiaramente, ma dovevano aspettarselo, l’errore è stato di valutazione nel mandare soldati in Russia che non erano abituati a quel rigido inverno. Per gli alpini era un po’ diverso perché erano più avvezzi a certi climi, anche da noi gli inverni in montagna possono essere molto i rigidi con altrettante basse temperature.

Ma l’avvicendamento non veniva concordato con il comando tedesco? Questo non so dirlo. Come è possibile che dello sfondamento da parte russa, avvenuto a dicembre ’42, gli alpini non vennero avvisati?

Perché avevano distrutto le stazioni radio, come le ho detto. È stato un errore mettere tutte le radio concentrate in un unico luogo, e lo dice lo stesso generale Nasci in una sua relazione che aveva concentrato tutte le stazioni radio in una località. I russi avevano bombardato e aveva perso tutte le stazioni radio. Di conseguenza la Tridentina non aveva più collegamenti con le altri divisioni superstiti Cuneense e Julia. Successe quindi che si ritrovarono a camminare parallelamente a circa 20 km di distanza senza sapere l’una delle altre.

L’aeronautica che ruolo ha avuto in questo fronte visto che se ne parla poco?

È uscito un libro di Nicola Malizia sulla campagna di Russia dal titolo “Ali sulla steppa” (libro del 1987 riedito nel 2008 ndr.). In Russia c’era un gruppo di aerei ma era esiguo. Avevano il compito di difendere le truppe dagli attacchi aerei. Malizia è un maresciallo dell’aeronautica ormai in pensione che ha scritto molto.

Parliamo del rapporto tra i tedeschi e gli italiani visto che, specialmente nella memorialistica, si riscontrano pareri discordanti in merito.

È un tema che ho trattato in un articolo pubblicato sulla rivista STORIA MILITARE. Lo scrissi in occasione della scoperta di nuova documentazione dove si racconta, nei particolari, di un’ispezione fatta sul fronte russo e dove emergono i lati negativi e positivi. Inizialmente, nell’articolo, parlo del generale Gariboldi. Il generale, prima di comandare l’ Armata in Russia, era stato in Africa settentrionale e sapeva benissimo i rapporti che ci dovevano essere tra gli italiani e i tedeschi. C’era stata una clausola nell’accordo dell’Africa Korps (anche detto DAK) che sarà poi quello delle nostre truppe, invertite le parti, in Russia. Questo accordo stabiliva che il comando italiano poteva non osservare le disposizioni impartite dai tedeschi qualora queste ultime avessero pregiudicato la “fortuna” o l’onore delle unità italiane. Così come appunto avevano fatto i tedeschi in Africa con noi. A seguito di questo accordo il Generale Gariboldi non si oppose allo schieramento a cordone sul Don senza riserve retrostanti, o meglio “unità di seconda schiera”. Tanto per fare un paragone: perché abbiamo perso a Caporetto? Perché non c’erano delle riserve. Altrimenti, una volta rotto il fronte, li avrebbero presi in trappola. La stessa cosa è successa in Russia, sono mancate le riserve. Alcuni dicono che i tedeschi avevano promesso di tenere alle nostre spalle dei reparti corazzati ma questo non si sa bene, non è un aspetto molto chiaro.

E questo perché secondo lei, perché Gariboldi non si oppose?

Perché Gariboldi poteva essere stato debole, o inadeguato, in quella circostanza. Chi può saperlo?

Ma anche dal punto di vista tedesco è impensabile pensare di difendere un fronte senza riserve e con uno schieramento così debole.

Fu un errore anche da parte dei tedeschi è ovvio. I tedeschi, oltretutto, non è che avessero grande fiducia in noi. Gariboldi si era allineato al volere dei comandi alleati.

Da quello che si evince dalla storia sembrerebbe un errore piuttosto grossolano pensare di resistere in quel modo.

Specialmente in pianura, certo. Un altro errore grave fu quello di aver avvicinato i magazzini al fronte. Per avere agevolmente e in breve tempo dei rifornimenti avevano avvicinato troppo i servizi. Quando i russi hanno sfondato, ovviamente, è “partito” tutto.

Di quanti chilometri parliamo di vicinanza dei servizi alle linee?

Da circa un centinaio di Km in su, i centri logistici. Le scorte, ad immediata portata.

Distante troppo brevi?

Due terzi dei magazzini sono caduti nelle mani dei russi. Queste sono le motivazioni principali. La mancanza dei mezzi corazzati poi era un fatto noto al Comando Supremo. Tant’è vero che volevano mandare un raggruppamento di semoventi da 90. Pare che siano arrivati fino al confine ma poi sono stati portati indietro perché ritenuti, evidentemente, utili per altri fronti. D’altronde, era l’unico raggruppamento che avrebbe potuto mettere in ginocchio qualsiasi carro armato esistente. Era per questo che il fronte Africano, così come altri fronti, compreso quello nella penisola, se lo contendevano. Cavallero, facendo un grande errore, non li mandò in Russia. Probabilmente non avrebbero fatto molto sia per via del vasto territorio sia per il numero esiguo. Cosa possono fare una trentina di cannoni in più o in meno? In verità avrebbero voluto mandare anche un reggimento di cavalleria corazzata ma neanche questo partì e fu mandato in Tunisia.

A quale periodo si riferisce l’invio di questo raggruppamento?

Del settembre 1942. Il reggimento a cui mi riferisco era il reggimento Lodi.

Ma qual era il rapporto, in generale, tra italiani e tedeschi?

I giudizi sono contraddittori. Ho letto parecchi interrogatori fatti ad ufficiali e alcuni dicono che sono grati ai tedeschi che li hanno salvati, mentre altri accusano i tedeschi di averli abbandonati. Quindi, evidentemente, dipendevano dalle circostanze e dal carattere di chi racconta. E anche da altre motivazioni, come l’ opinione sui comportamenti dei tedeschi.

Direi che nella memorialistica predomina un giudizio negativo sui tedeschi visti come degli approfittatori, dei calcolatori e sostanzialmente cattivi camerati. E allora come stanno le cose?

Ci sarà stato anche dell’egoismo da parte tedesca. Personalmente penso che l’errore tedesco sia stato di non aver preventivamente messo a disposizione dell’armata italiana, riserve corazzate. Bisogna capire se effettivamente le avessero a disposizione oppure temevano che altri fronti ne sarebbero stati sguarniti. Certo che è stato un errore Stalingrado. La resistenza sovietica attirò il grosso dell’Esercito tedesco, indebolendo gli altri fronti e permise lo sfondamento sul Don l’accerchiamento dell’Armata che tentava di impossessarsi della città. I risvolti di quella guerra sono dipesi da questo errore. È folle poter pensare di conquistare una città penetrandovi all’interno. E lo dirà pure Zukov nelle sue memorie. Una città si può far capitolare accerchiandola e privandola dei viveri, dell’acqua e di tutto quello che le è vitale. Se a una città si toglie tutto questo questa cade automaticamente.

Perché allora c’è stato questo accanimento sulla città di Stalingrado?

Perché aveva il nome di Stalin, era una questione simbolica.

È vero dunque che era una questione più politica che strategica?

Sì, senz’altro un fatto politico.

In questo senso però ho letto commenti discordanti c’è chi sostiene che sia stato un fatto simbolico, quello appunto di portare il nome del dittatore sovietico, ma anche chi sostiene, e forse a ragion veduta, che Stalingrado fosse una città strategica per i rifornimenti provenienti dal Caucaso attraverso il Volga.

La sconfitta tedesca in verità ha radici ancora più lontane, dall’estate 1942. Se avessero attaccato prima sarebbero arrivati a Mosca. Certo non sappiamo se, occupata Mosca, sarebbe caduta tutta la Russia. Quando Napoleone arrivò a Mosca, la Russia non cadde. Nel 1942 capitò anche un inverno più freddo degli altri e i tedeschi non si erano preparati al freddo mentre gli italiani erano stati previdenti.

Ecco questo è un aspetto che non è del tutto chiaro. Di solito chi racconta tende a dire che l’esercito italiano era mal equipaggiato. Non è vero, ci sono i documenti. In effetti c’è qualche reduce che va contro corrente e si impone dicendo che non è vero questo luogo comune. Allora chi ha ragione?

Intanto l’esercito è una moltitudine. Ogni reparto ha comandanti buoni o comandanti meno buoni, intendenti onesti o intendenti disonesti, c’era gente che si vendeva persino il materiale dei magazzini.

La questione è sempre la stessa: mancanza di organizzazione?

Ci sarebbe voluta una disciplina ferrea, che all’epoca non c’era.

Quindi non si può sindacare sulla qualità del materiale.

Il materiale è stato mandato, che poi non sia arrivato a tutti è un discorso di altra natura. La qualità era comunque discreta. E infatti c’è un documento in cui si afferma “quello che abbiamo mandato in Russia va bene in vista di un inverno successivo”. Si pensava quindi di rimanere sul fronte russo, e siamo nel 1943. Era un resoconto sugli equipaggiamenti che erano stati mandati, sulla idoneità del vestiario, sulla tipologia delle baracche e sulla loro fattura, sulle slitte e su tutto il resto.

A supportare quello che dice, in effetti, il reduce Riccardo Riccardi, nella sua intervista, dice addirittura che i tedeschi andavano dagli italiani a vestirsi.

Che ci fosse stata più previdenza da parte italiana rispetto ai tedeschi è un fatto acclamato. I tedeschi, nell’estate precedente, erano così sicuri della vittoria che non pensarono alle difficoltà che avrebbero incontrato con l’inverno.

C’è un’altra questione molto dibattuta che spesso viene presa come motivo ricorrente nella critica all’abbigliamento del soldato in Russia. Quella delle scarpe.

Quello che si dice sulla scarpe che fossero addirittura di cartone è una invenzione. A me capitò, una volta, di acquistare scarpe con un tipo di suola fatta di cuoio sbriciolato e incollato, ma si trattava di cuoio e non di cartone. Allo stesso modo, le scarpe dei nostri soldati, potevano essere stati confezionate in questo modo, con del cuoio sbriciolato poi compresso e incollato. Si potrebbe addurre la colpa al fatto che non fossero state incollate bene, ma non che non fossero di cuoio. Il problema vero semmai erano i chiodi, di cui ci si accorse che trasmettevano il freddo. Riccardi, nell’intervista, menziona proprio questo particolare e dice, affermandolo con certezza, che quelle in dotazione alla Torino erano suole fatte di cuoio e non di altro materiale. C’erano reparti che avevano anche le scarpe “Vibram”.

Ma quelle erano in dotazione o se le compravano i soldati, gli ufficiali?

No, erano in dotazione ai reparti speciali come il battaglione Monte Cervino, però ce n’erano grandi quantità e si scoprì, in Italia, dopo l’armistizio, che i magazzini ne erano pieni. Così come c’erano molti mitra che, al fronte, venivano centellinati o venivano distribuiti solo in piccola percentuale. In Italia, con la guerra civile, ne vennero fuori molti, sempre dai magazzini abbandonati. La Beretta continuò a produrre mitra per un anno e più a favore dei tedeschi e pare che ne abbia fornito circa un milione.

Anche per quel che riguarda le economie si sente spesso dire che i soldati italiani erano indotti, gli veniva espressamente chiesto, a risparmiare sui tiri, sulle munizioni. Le risulta?

Ogni reparto ha un certo numero di “Unfoc” (unità di fuoco), che corrisponde a una giornata media di fuoco, espressa in proiettili. Cioè, è quanto previsto che dovrebbe sparare ciascun’arma. Dipendeva logicamente dalle disponibilità, in genere da 2 in su. In questo caso non sappiamo con precisione quante unità di fuoco avessero i singoli reparti, anche perché gran parte del carteggio si è perduto. Noi sappiamo solamente quello che veniva comunicato a Roma.

Ma anche qui, come mai non c’era un coordinamento tra i tedeschi e gli italiani? Perché, da quello che si dice, i tedeschi potevano sparare liberamente mentre gli italiani dovevano “risparmiare”?

Non è vero! C’era un contratto per cui i tedeschi dovevano offrirci un certo numero di treni di materiali, gli accordi dicevano questo. Che i tedeschi l’abbiano rispettato o meno, questo è da verificare però risulta, anche dal giornaletto, che venivano inviati pure treni con tutti i generi di conforto. Poi, in tempo di guerra ci sono delle priorità, venivano privilegiati i materiali di ordine bellico o il carburante. Può darsi che i nostri treni di rifornimento venissero tenuti indietro. Sono tanti fattori che bisognerebbe verificare.

Molte cose quindi resteranno senza una chiarificazione.

Credo proprio di sì. È da considerare che solo il carteggio dell’armata si è salvato, stando questa in zone più arretrate rispetto alla prima linea, mentre i documenti delle singole divisioni sono andati, in buona parte, perduti. Non so se i russi fossero interessati a questo materiale, ammesso che lo abbiano raccolto e lo abbiano conservato.

Torno un attimo indietro alla questione delle scarpe Vibram. Mi ricordo che nel libro “Ritorno” di Nelson Cenci, ufficiale del battaglione Vestone, parla di questo tipo di scarpe e dice, parlando in terza persona, “si legò gli scarponi ‘Vibram’ che aveva portato con sé dall’Italia” ma non dice che erano in dotazione. Era possibile che se li comprassero in forma privata?

Anche oggi succede che un soldato possa comprarsi, per conto proprio l’equipaggiamento che gli sembra più idoneo e quindi anche proprie scarpe, ma in questo caso mi sembra strano. Comunque, per quel che riguarda i soldati del Monte Cervino, ho le prove fotografiche, avevano tutti gli scarponi “Vibram”. Ricordo che mio padre, ufficiale di guerra, aveva gli scarponi da montagna chiodati, non gli scarponcini o “stivaletti” che indossavano i soldati semplici, ma proprio quelli da montagna con i chiodi. Ho una fotografia che lo testimonia, dove mio padre è insieme al comandante dei guastatori del genio alpino, un ufficiale che in Russia ci rimise la vita. Mio padre era meno anziano di lui e affidarono al maggiore Mazzucchelli la guida di questo battaglione.

Quindi suo padre in Russia non ci è mai arrivato?

No, altrimenti non sarebbe morto a ottant’anni.

Parliamo di Messe. Che tipo di generale era?

Messe era un ufficiale abbastanza intelligente, un uomo che veniva dalla gavetta. Mi è capitato di scrivere su Messe, ho conosciuto anche il figlio. Messe è stato fortunato, perché gli è andata bene.

Gli è andata bene in che senso?

Perché se n’è andato prima.

Furbamente o perché le circostanze non prevedevano altra soluzione?

Perché era previdente, sapeva muoversi, sapeva puntare i piedi. Sono in molti a non avere il coraggio, nelle forze armate, di protestare verso i propri superiori. Le racconto un episodio legato alla mia famiglia, a mio padre. Quando il suo reparto fu mobilitato ebbe degli automezzi vecchissimi risalenti alla prima guerra mondiale, si trattava di roba nuova, tenuta nei magazzini ma pur sempre della prima guerra. Dal momento che si trovava in zona insidiata da partigiani, a un certo punto, una colonna non dava segno di vita. Andarono a cercarla ma non era stata attaccata: semplicemente i mezzi si erano fermati per strada. A quel punto mio padre protestò e lo rifornirono di autocarri nuovi. È evidente che, quando uno ci tiene, ottiene anche quello che vuole. Altre volte invece, per non dare fastidio, si evita di sollevare problemi.

Quindi Messe protestava?

Certo, fu per questo che ebbe nuovi autogruppi. Il corpo d’armata di Messe aveva divisioni “autotrasportabili”. Questo significa che avevano i servizi e le artiglierie motorizzati, fermo restando che la fanteria era appiedata. Di conseguenza, se dai comandi viene assegnato un autogruppo potevano, a quel punto, essere autocarrati.

C’è tutta una questione legata alla terminologia se “autotrasportati” o “autotraspostabili” che coinvolge anche i tedeschi. Mi faccia chiarezza sull’uso di queste parole.

Nel simbolo tattico venivano usate, da parte tedesca, delle rotelline sopra questo simbolo. A un certo punto Messe dice che fu costretto a spiegare ai tedeschi che le proprie divisioni, erano solo “motorizzabili” visto che si riteneva, erroneamente, che fossero motorizzate. Era una questione di lingua.

Ribadisca allora bene questi due concetti.

Motorizzati: sono i reparti che hanno gli automezzi in proprio. Motorizzabili, o autotrasportabili: sono quei reparti che devono ottenere i mezzi, volta per volta, dai comandi superiori.

Quindi il 120° reggimento artiglieria motorizzato?

Aveva automezzi propri.

A volte però si tende a dire 120° reggimento artiglieria motorizzata. A cosa si deve fare riferimento allora al reggimento o all’artiglieria? Cos’è “motorizzato” e cosa “motorizzata”?

Anche se poi è la stessa cosa, il significato sostanziale sta ad indicare che è un reggimento munito di mezzi propri. L’automezzo è oltretutto considerato non solo come mezzo di trasposto ma come mezzo di combattimento. Gli autoveicoli dei reparti “autotraportabili”, invece, venivano impiegati per il trasposto della truppa e poi tornavano indietro, non erano quindi “in organico”.

Posta così, la parola “autotrasportabili” non significava molto, si prestava in effetti  facilmente all’equivoco da parte tedesca oppure. Era fin troppo evidente che fosse un gioco di parole.

I tedeschi dovevano però sapere benissimo il significato delle due terminologie.

Perché giocavano allora su questo equivoco?

Probabilmente fingevano. Non credo che ignorassero la situazione italiana. Ho trovato un documento in tedesco, se non sbaglio del 1941, che ho tradotto io stesso, in cui si descrive perfettamente la situazione dell’esercito italiano, con tanto di numeri e di cifre correlati. Loro avevano un Taschenbuck sulle forze armate italiane dove vi erano riprodotti fregi, gradi, armamenti e tutto quello che poteva essere in distribuzione ai reparti italiani. Essi avevano promesso carri armati pesanti alle unità italiane, carri francesi di preda bellica. In quel documento lì, li avevano già considerati come consegnati. Non so se i tedeschi fossero disposti realmente ad adempiere alle loro promesse. Pare però, che in questo caso, fossero stati gli italiani a non volerli acquisire. I nostri comandi sostennero che erano sprovvisti dei mezzi per trasportarli sulle strade. In verità io ho constatato che, in Francia, il trattore con il rimorchio per trasportare tali mezzi pesanti c’era. Era possibile che i tedeschi ne avessero catturati solo un certo numero e preferissero tenerli per proprio uso. C’è da dire però che i francesi usavano in genere la ferrovia per poterli trasportare e allo stesso modo avremmo potuto fare anche noi.

Tornando a Messe. Fu lui che ebbe l’intuizione di pensare che sarebbe stato prudente prepararsi per l’inverno. Stagione che, quell’anno, fu particolarmente fredda.

Lui previde l’inverno rigido, e fu sempre lui che sconsigliò Mussolini dal proposito di mandare l’Arm.I.R. Ma, purtroppo, nessuno gli diede retta.

L’argomento però è poco chiaro. C’è chi sostiene che Messe non fu proprio messo in gioco per l’approntamento dell’Arm.I.R. Quindi, in teoria, non doveva esserne a conoscenza.

Messe, in realtà, sperava di poter comandare lui l’Arm.I.R., nel momento in cui fu costituito. Invece, per questioni di anzianità, come di consueto e di usanza nelle forze armate, toccò a Gariboldi. I nostri generali erano quasi tutti piuttosto anziani, Messe era uno dei più giovani. In Italia l’anzianità fa grado. La questione legata a Gariboldi poi fu anche strana perché gli stessi fascisti, che lo misero al comando dell’armata, lo processarono durante la Repubblica Sociale perché non aveva saputo salvaguardare i propri soldati. Non lo processavano per motivi politici, ma per la disfatta della campagna di Russia.

Comunque risulta dalla storia che Messe fu l’unico a farsi carico dei problemi dei propri soldati.

Non sappiamo però cosa avrebbe fatto Messe al comando dell’armata, cioè se sarebbe riuscito ad opporsi ai tedeschi.

Anche se in qualche occasione, lui lo dice nel suo libro, ha fatto la voce grossa verso i comandi tedeschi.

Nel libro accusa anche i tedeschi che, sul cedimento della divisione Sforzesca, avevano cominciato a parlar male degli italiani.

A proposito di quell’episodio sulla Sforzesca ho da sottoporle un mio solito convincimento a riguardo del territorio russo sul fiume Don. Nella prima battaglia del Don, la Sforzesca, fu attaccata ed ebbe un primo cedimento guadagnandosi anche l’appellativo di Divisione “cicai”, divisione che scappa. Mi sono sempre chiesto allora se il territorio, se la tipologia o la conformazione del terreno potessero davvero entrarci qualcosa nella scelta, da parte dei russi, di attaccare una divisione piuttosto che un’altra. Era un fatto legato alla conoscenza delle nostre divisioni, più o meno vulnerabili, oppure attaccarono in quel punto solo perché era più comodo, perché dislocate in una zona pianeggiante?

Io ho visto un documentario in cui si vedevano i mezzi catturati alla Sforzesca e c’erano cannoni modernissimi. Lo conferma Papuli.

Quindi lei pensa che la possibilità di fronteggiare l’offensiva russa, almeno in quel caso, c’era?

Bisogna anche valutare il valore dell’unità, nella sua saldezza, nella sua disciplina, nel suo addestramento e, non ultimo, i suoi comandanti.

Così è plausibile che quello che si dice su questa divisione sia vero. Che siano cioè stati colti di sorpresa?

È possibile che le cose siano andate proprio così. Noi abbiamo avuto parecchie sconfitte quando eravamo superiori di numero. I difetti potevano essere a vari livelli, nei comandi, nella pianificazione. Non si può dire con certezza la motivazione reale, bisognerebbe indagare molti aspetti. Dal livello di preparazione e di coesione della truppa fino ai comandi. Per quel che riguarda i miei studi posso dire che non essendo stato ovviamente presente ai combattimenti, mi sono potuto fare solo un’idea dalle fonti storiche, dai documenti che ho consultato e che spesso non vengono letti. L’articolo che ho pubblicato su STORIA MILITARE è basato tutto su documenti ufficiali. Sono quelle cose che il signor Petacco non ha letto quando ha scritto il suo libro “L’Armata scomparsa” dove ha trascritto una quantità di inesattezze, talvolta grottesche, come per i carri L. (leggeri, ma che egli chiama “Littorio” e da lui alleggeriti di una tonnellata – come se non lo fossero già abbastanza) omettendo invece alcuni importanti aspetti.

Tendo a pensare che l’impressione di Gino Papuli fosse corretta, da uomo attento che era, quando ha scritto a Petacco una lettera adducendogli una certa superficialità nel raccontare solo una parte della storia riguardante la campagna di Russia. Sul sito è oltretutto presente questa famosa lettera che tutt’ora non ha ricevuto una risposta.

Posso dire che Petacco ha dimostrato una scarsa informazione. Non basta scrivere bene, se non si è padroni della materia. A lui interessa solo il fatterello, il soldato che va nell’isba e maltratta gli abitanti. I partigiani che entrano e vedono che ci sono italiani mentre la padrona, che è stata maltrattata dai partigiani, dopo averli rifocillati li manda via in malo modo, figuriamoci. Gli italiani che continuano a mangiare e poi, quando se ne vanno, la padrona che li prende a schiaffi per la villania ricevuta. Insomma sono questi i pezzi “di colore” che piacciono al Petacco e a vari altri scrittori che vogliono fare gli storici. Ma in questo modo si perde il quadro generale della situazione, pur se la realtà è fatta di mille episodi.

E allora qual è il “giusto” modo di leggere la storia?

Andare a cercare i documenti. La testimonianza o la si prende sul momento o perde di valore.

Sul momento quando?

Subito dopo il fatto accaduto, oppure viene mediata da quello che si legge, da quello che da altri si racconta.

Ma questa possibilità, è evidente, non c’è e allora come se ne esce fuori?

Certo, non c’è. Però io utilizzo, per esempio, gli interrogatori. Quelli fatti subito dopo la ritirata e non gli interrogatori fatti dopo una prigionia, quando un soldato non ricorda più nulla o i ricordi sono stati influenzati da quello che è avvenuto o che ha sentito successivamente. Oppure vuole giustificare l’essersi fatto prendere senza reagire.

Dal suo punto i vista il riscontro della testimonianza della memorialistica, a posteriori sembrerebbe non avere nessun valore o, quantomeno, poca importanza nell’ambito della ricostruzione storica generale?

Dopo trent’anni una testimonianza è ridicola. È come se uno le domandasse cosa ha mangiato quindici giorni fa, a meno che non abbia un menù settimanale cadenzato, per cui può esercitare la memoria, è molto probabile che non se lo ricorderà oppure il tempo avrà alterato questo suo ricordo.

Ma se la fonte fosse un diario? Cambierebbe qualcosa a suo giudizio?

I diari sono le migliori testimonianze.

Le capita di fare dei riscontri con i diari di guerra?

A volte mi è capitato. Mi sono capitati dei diari interessanti, quelli scritti “sul tamburo” dove è possibile leggere di fatti che incidono sulla realtà dell’episodio e non di approssimazione come quando si parla degli armamenti. Per esempio del fucile modello ’91. Questo fucile era un’arma a ripetizione ordinaria, un tipo che usavano tutti i belligeranti compresi gli americani. Quando gli alleati sono sbarcati in Italia avevano ancora il fucile a ripetizione. Poi sono venuti i Garand. Lo stesso vale per i russi. Da bambino ho avuto tra le mie mani uno di questi primi fucili Tokarev automatici, tra l’altro pesantissimi, quelli con la canna coperta da un manicotto scanalato, lunghissimo. Il mitra PPS soprannominato (inventato da un certo Shpargin, da cui l’ultima lettera del nome) veniva dato solo ai reparti speciali. È inutile dire, come dice Petacco, che tutti i russi erano armati con quelle pistole mitragliatrici, non è vero nulla. Erano solo in dotazione ai reparti speciali (unità scelte “della guardia”, quelle che si erano distinte in guerra) come del resto li avevamo noi con il battaglione Monte Cervino o nei reparti dei bersaglieri.

I reduci parlano spesso di questo “parabellum” russo, un fucile mitragliatore che aveva un disco, un tamburo con molti colpi.

Il modello 41, lo Sphargin appunto. Lo chiamavano “parabellum” perché aveva le pallottole simili alla cartuccia tedesca. Ma quel fucile non era una novità, i tedeschi avevano utilizzato moschetti automatici già nella Grande Guerra e noi ce li eravamo visti davanti in Africa orientale. Li avevano gli abissini che li avevano ricevuti, a loro volta, dai tedeschi. I tedeschi davano le armi agli abissini, nonostante Mussolini e Hitler fossero già in amicizia. La produzione sovietica era comunque mostruosa di fronte a quello che potevamo produrre noi. Era un confronto impari, come se un grande pugile dovesse combattere con me, anche se fosse vecchio, io non potrei certo competere con un ex pugile. L’errore fondamentale è stato quello di andare a provocare un pugile, non si provoca un gigante se non si hanno le capacità per poterlo affrontare.

E allora è vero che il nostro fucile, pur essendo più preciso del parabellum russo, non poteva competere con un fucile mitragliatore?

No di certo, quando un modello ’91 si trovava davanti un phe-phe-sha russo. Ma è tutta una questione di occasioni. È chiaro che in uno scontro tra un reparto speciale e una normale fanteria avesse la peggio la seconda. In proporzione però, i Beretta, erano distribuiti agli ufficiali superiori e ai sottufficiali, cioè a coloro che avevano maggiore esperienza. Darlo in mano a un soldato sarebbe stato sprecato. Tra gli stessi paracadutisti, quelli della Folgore per intenderci, non è che tutti avessero il mitra, lo avevano solo gli assaltatori.

Quanti colpi sparavano?

Quaranta e non trenta come dice Petacco nel suo libro.

Si tirano i numeri come quando si gioca a tombola!

Sì, a casaccio. Mio padre se lo comprò uno di questi mitragliatori, lo pagò 800 lire. In seguito ne vietarono la vendita agli ufficiali. Anche questo, così come la pistola, l’ufficiale aveva potuto acquistarselo privatamente o riceverlo in dotazione. Su uno di questi libri sulla Russia scritto da Caruso, si parla di una cifra di 1000 lire io invece ricordo benissimo queste 800 lire, lo ricordo pur se allora ero un bambino. Anche il cavallo, o te lo passava lo Stato o era il cavallo di proprietà.

Devo dire che ho letto un libro di Alfio Caruso “Tutti vivi all’assalto”, che tratta – nemmeno a dirlo – degli alpini in Russia, e non mi ha entusiasmato pur essendo un libro ricco di notizie e che ritengo utile per chi voglia farsi un’idea sugli alpini in Russia. Leggendo questo libro si ha l’impressione però che l’autore abbia copiato i vari libri di testimonianza dei reduci da Bedeschi a Rigoni Stern, un copia e incolla di interi paragrafi rimaneggiati. Un tipo di lettura che, francamente, non capisco, non comprendo la necessità di dover plagiare interi racconti. Non so quale possa essere la soddisfazione nello scrivere un libro con queste caratteristiche.

Alcuni hanno fatto più o meno lo stesso. Il fatto vero è che è molto più difficile e faticoso lavorare sui documenti d’archivio. Io ho avuto la fortuna di avere contatti con gli uffici storici per cui si instaura un certo rapporto di fiducia che ti porta a scoprire sempre nuova documentazione. Gli archivi bisogna saperli anche consultare, è importante che la persona addetta al reperimento di documentazione sia capace e abile nel rintracciare i fogli. Spesso, però, anche con la buona volontà degli addetti, si riesce a trovare ben poco. È difficile orientarsi nella documentazione soprattutto a distanza di decine e decine di anni. In un certo senso si è voluto dimenticare la guerra e gli archivi di oggi sono il frutto di questo processo. Fino agli anni settanta la guerra la si è ricordata solo per determinati aspetti.

Però devo chiederle chi ha voluto dimenticare?

La politica intendo.

Dall’una e dall’altra parte?

No, dall’altra parte cercavano, ma non gli aprivano le porte, non gli veniva concesso di accedere. E quelli esageravano nell’altro senso. Si era eroi o traditori. Si parlava spesso senza cognizione di causa sia da una parte che dall’altra.

C’è, secondo lei, un punto in cui la storia può avere la sua pacificazione e quindi trovare un punto in comune, una verità condivisa?

No, finché si parte dal presupposto che l’uno vuole mettere in evidenza le malefatte dell’altro non si arriverà mai ad una pacificazione.

Però ci si può sempre provare.

Ma sarà sempre un’operazione difficile. Oltretutto gli stessi reduci, per una motivazione o per l’altra, rimanevano in silenzio.

Beh, su questo posso essere d’accordo.

I reduci hanno cominciato a parlare quando i rancori si sono dissipati, quando non ci si vergognava più di aver combattuto.

Oppure quando il vento soffia da una parte piuttosto che dall’altra.

I primi reduci che hanno parlato sono stati quelli che hanno fatto i partigiani.

Tra i primi Rigoni Stern, così come Nuto Revelli.

Così come Giorgio Bocca.

Ma Bocca non ha fatto la campagna di Russia.

No, però ha voluto scrivere di tutto.

Però certi argomenti non li comprendo, almeno non mi sembra di riuscirli a capire affondo. Io ho, tendenzialmente, un pensiero rivolto a “sinistra” ma non capisco perché in questi argomenti, quelli che toccano la gente, che ci riportano a una storia comune, si debba fare tanta difficoltà a leggere la storia marchiandola come storia di destra o storia di sinistra. Come mai deve esserci necessariamente questo colore politico nella ricostruzione dei fatti accaduti?

Perché ci si rifiuta di vedere i documenti. O si scelgono quelli che servono ad avvalorare una propria tesi e non altri. Parlo dei documenti che sono sopravvissuti, perché molti sono andati perduti oppure sono stati distrutti. Nell’immediato dopoguerra, molta gente andava a comprarsi le fotografie e i negativi dagli archivi, magari perché documentava la sua presenza accanto a un gerarca fascista. Così facendo si è persa, spesso, la testimonianza di un avvenimento significativo. Lo stesso può essere avvenuto per alcuni documenti fatti sparire.

Così da questa situazione di contrapposizione non se ne esce fuori?

No, non se ne esce. C’è un rincorrersi di esagerazioni da una parte e dall’altra. Io ho letto dei resoconti della lotta partigiana che recitava più o meno così “fummo accerchiati da una divisione corazzata” quando invece sarà stato la massimo un carro armato. Ora mi chiedo come si possa arrivare a dire una tale assurdità. Figuriamoci se i tedeschi, che avevano tante altre gatte da pelare con gli anglo-americani, potevano schierare una divisione corazzata per accerchiare un gruppo di partigiani. Se si pensa che una divisione corazzata occupa 40 km di strada solo per sfilare, diventa impensabile una affermazione di quel genere.

Allora la storia è fatta a macchie di leopardo, a episodi distaccati?

Bisogna raccontarla con una certa serietà ma questo costa fatica, indipendentemente dall’ideologia cui uno è fedele. E, ripeto, leggersi le carte è faticoso. Per andare nell’archivio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, può sembrare superfluo dirlo, ma si deve attraversare tutta Roma, è difficile perfino trovare un parcheggio. Per non parlare poi dei controlli per la sicurezza entrare non è così agevole. Per quanto mi riguarda non ho grossi problemi anche perché il tempo a disposizione ce l’ho, ormai faccio questo per passione.

Lo studio diretto della documentazione d’archivio, in generale, credo sia un modo molto avvincente di scoprire la storia. Trovo sia non solo il modo migliore ma anche la strada più vera.

Ci si diverte. Non vorrei essere polemico, ma, avendo conosciuto dirigenti di biblioteche e direttori di archivi di stato, mi dicevano di non aver mai visto molti di coloro che pretendono di fare gli storici, andarsi a sporcare le mani tra i documenti d’archivio.

Mi sta dicendo che lei è uno dei pochi che va direttamente e non manda qualcuno al posto suo a fare le ricerche.

Tanto per cominciare, non ho persone che mi aiutino in questo tipo di ricerche altrimenti, chissà, forse li manderei anche io. De Felice, per esempio, si dice, mandava i suoi collaboratori negli archivi eppure, lui era un uomo di cultura. Quello che voglio dire è che è difficile fare lo storico. Sulla campagna di Russia, purtroppo, ho pubblicato solo due articoli sulle riviste che le ho segnalato. E non è il mio principale campo di indagine.

La sua bibliografia direi che è immensa specialmente se si pensa ai libri che trattano i mezzi d’epoca: dai carri armati agli aerei, dagli autocarri alle macchine e altre pubblicazioni di carattere storico.

Certo, se dovessi pensare a tutto quello che ho scritto raccoglierei centinaia di pubblicazioni. Ma sulla Russia, ripeto, ho scritto poco. Mi sono occupato di tanti aspetti, dalla poesia alla pittura all’economia. Ho cominciato come giornalista aeronautico ma prima di fare tutto questo ho avuto la necessità di acquisire una competenza personale – per quanto possibile – nelle cose che scrivo. Per cui ho provato anche a pilotare un aeroplano. Ho scritto di carri armati e anche di questi ho competenza diretta facendo parte di un gruppo di restauratori. Adesso, per esempio, stiamo rimettendo a nuovo un trattore Pavesi. Siamo un gruppo di appassionati uniti dallo stesso interesse per i mezzi d’epoca.

Come nasce e di cosa si ha bisogno per restaurare questo tipo di mezzi, oltre – ovviamente – al denaro da dover “trovare”?

Si ha bisogno di diverse cose. Ci vuole innanzitutto gente che si intenda di motori, persone che si prendano la briga di cercare tra i mercatini i pezzi da poter rilevare con le risorse economiche a disposizione. Si tratta spesso di appassionati che amano il pezzo e che, oltre alla soddisfazione di riportare a nuovo un veicolo, lo “sfruttano” affittandolo a compagnie cinematografiche per i film. Serve a compensare le spese. Generalmente non è un fatto fine a se stesso, si riesce sempre a trovare una collocazione, come la “rievocazione”, che non sia la mera esposizione museale. È fatto anche di occasioni. Potrei raccontarle di un mio amico italo-americano, che ha lavorato in Italia, il cui parente aveva una fattoria, dove ricordava di aver visto un trattore militare. Andammo a fare un sopralluogo e decidemmo di acquistare questo bellissimo mezzo. Un trattore fabbricato intorno al 1938 che risultò quasi nuovo, al di là della ruggine. Era stato utilizzato poco e la guerra non doveva averla fatta. Solo il verricello sembrava essere stato sfruttato per uso agricolo. Il lavoro di recupero sta riportando a nuovo questa macchina.

Per i colori come vi orientate? Bisogna cercare riferimenti “pantone” negli archivi?

No, generalmente ci si basa sul colore che si trova ancora sulla carrozzeria. Negli interni e nelle parti che non sono state esposte agli agenti atmosferici, si trova quasi sempre il colore originale. Il lavoro sul colore viene eseguito in maniera attenta, grattando, pulendo le parti per cercare di avvicinarsi il più possibile alla tonalità originale.

Ci sono anche riferimenti fotografici a colori dell’epoca?

Sì che ci sono! L’unico problema è l’affidabilità della tonalità di colore della foto che vecchia e che non può essere affidabile. Il restauro di questi mezzi richiede una ricerca enorme.

La parte storico-tecnica immagino sia a suo carico.

Certo, in genere questo tipo di studio spetta a me. Io non sono tanto un esperto di meccanica, pur avendo una certa dimestichezza acquisita con il tempo. Le ricerche partono dal periodo di appartenenza fino ad arrivare allo studio dei bulloni. Gli appassionati sono molti e la rete è vasta. Ci sono spesso raduni dove vengono presentati i pezzi restaurati.

Mi mostra un bullone di carro armato

Questo è un bullone con testa conica che veniva introdotto nella corazza di 5 cm per poi essere avvitato su un dado all’interno. Si dice, ma non ho prove su questo, che la violenza del colpo nemico facesse addirittura spezzare i bulloni. Questo poteva essere micidiale all’interno dell’abitacolo per la violenza con la quale fuoriusciva dalla sede. La testa conica è un espediente che serviva per far sfuggire le pallottole che eventualmente urtavano contro la testa del bullone, escogitato sin dai tempi della Grande Guerra. Il primo carro armato della Fiat aveva i bulloni di questo genere. Quando nei restauri ne mancano, li ordiniamo a una ditta che ce li ricostruisce. infatti un’abitudine comune che, la gente, nei musei all’aperto, si vada a smontare i pezzi per tenerli come souvenir… Relitti di vecchi carri armati sono stati trovati nelle fortificazioni di confine, dove venivano usati come casematte durate la guerra fredda; sono stati recuperati e ricondizionati. Alcuni li hanno presi i musei, altri, fanno parte di collezioni private. Non sempre però vengono restaurati bene. Mi è capitato di dover intervenire per far notare che la canna era stata rifatta il doppio della dimensione originale.

Ho notato dalle foto, che mi ha appena mostrato, che i vostri restauri tendono a portare a nuovo i mezzi. Mi è capitato, di recente, di essermi recato a Berlino in un museo sulla guerra al fronte orientale ed ho notato, con una certa sorpresa, che il restauro è stato fatto in maniera approssimativa, come se si fosse ridipinta la corazza senza nessun trattamento, eppure sono in Germania, una nazione che è stata sempre attenta al lavoro manuale di precisione.

Certo, non sono paragonabili a questo tipo di restauro. Questo è un lavoro che costa! Il mio primo lavoro in cui fui impegnato, anzi, il mio secondo (il primo fu un P. 40), è stato fatto per la Oto Melara. Prelevammo un carro armato che era stato eretto a monumento. Era su un piedistallo in alto dal suolo, a più di due metri e quindi non era stato manomesso.

La grafica della mimetizzazione come viene ricostruita? C’è un criterio?

La grafica la si evince dalle fotografie sia per le forme che per i colori. Chiaramente ci sono dei colori standard che dalla foto in bianco e nero si riconoscono per la tonalità di grigi: il verde, per esempio, risulta più scuro; il marrone leggermente più chiaro; il sabbia invece è inconfondibile, è il più chiaro di tutti. Anche il disegno ha bisogno di un’indagine. Nell’esercito di oggi si fa uno schema, c’è l’ufficio tecnico di Torino che traccia lo schema, con tutte le linee e i riferimenti in lettere che indicano i colori.

Non è cambiato nulla quindi, si fa come da sempre.

Lo schema è una linea guida molto rigida, ci si deve attenere a quello schema. Come mostrano questi modellini regalatimi dalla OTO-Melara.

Mi mostra dei modellini della Oto Melara, bellissimi, eseguiti con grande cura e attenzione dei particolari

Tornando al mezzo che state restaurando. Qual è l’uso delle informazioni storiche nel restauro?

Non mi occupo esclusivamente della parte storica che comunque è la mia passione. È un divertimento scovare delle componenti dove uno meno si aspetta di trovarle. Il motore del carro per la OTO è stato rinvenuto, per esempio, in una filanda.

Gli operai?

Gli operai, nel caso della OTO, erano della ditta.

Quindi il suo ambito come si può definire?

Storico e tecnico. Diciamo che mi piace occuparmi un po’ di tutto.

Mi è stato chiesto, di recente, di recuperare una foto di mezzi che, pare, fossero dipinti di bianco sui parafanghi per l’oscuramento. A cosa serviva esattamente questo espediente?

Ad evitare le collisioni notturne. Aveva funzione “catarifrangente”, la vernice bianca di notte è maggiormente visibile. Di solito era un espediente obbligatorio per i mezzi civili. Ma anche i tedeschi lo usavano. Persino le biciclette avevano questa colorazione. La bici di mio padre aveva i parafanghi colorati di bianco. Nei libri illustrati dell’epoca si trovano spesso foto che riportano questo particolare, specie quelli che ritraggono le cerimonie. Non è difficile trovare immagini con automobili delle autorità con i parafanghi dipinti di bianco, i mezzi ufficiali li avevano tutti.

Che cosa sa della Fiat in Russia e delle officine volanti.

Non so molto su questo tipo di “officine volanti”. La Fiat mandò propri operai e officine in Russia. Alla Fiera di Milano del 1941 o 1942 si parlò molto di queste officine che erano al seguito delle truppe. È un argomento, poco noto: non credo ne parli nemmeno il libro dell’Ufficio storico.

Ma torniamo un po’ al discorso di partenza sulla campagna di Russia. Mussolini voleva partecipare a tutti i costi alla guerra sul fronte orientale, come giudica questo fatto?

In verità lui voleva approfittarne con uno spirito da giocatore, come fece scommettendo sulla vittoria della Germania con l’entrata in guerra. Ma non si può giocare con il futuro di una nazione. Purtroppo erano sicuri di vincere. Restando in termini di gioco era un po’ come succede quando ci sono corse di cavalli, si pensa che il cavallo che va per la maggiore vincerà. Mussolini ci ha provato, dopo di che si è trovato a farsi coinvolgere anche nella guerra contro la Russia. E non era proprio il caso di parteciparvi. Mussolini si è fidato anche degli impegni sottoscritti dai tedeschi. Pensava che, così come noi italiani avevamo rispettato gli accordi per i rifornimenti dell’Africa Korps, a loro volta, i tedeschi, avrebbero rispettato i patti. Noi ci rimettemmo buona parte della nostra marina militare mercantile, finita in fondo al mare per rispettare questi accordi mentre sembra che, da parte tedesca, non sempre ci sia stata la stessa accortezza nei rifornimenti ai nostri soldati.

Perché dice “sembra”, non ci siano documenti ufficiali che lo testimonino?

Siamo sempre lì, non abbiamo tutti i documenti!

È vero che i tedeschi accettarono l’entrata in guerra degli italiani perché, e a me pare anche una illazione ridicola, avrebbero potuto schierare un corpo d’armata tra gli ungheresi e i romeni, che si odiavano, e comunque – in caso di cedimento – avrebbero potuto dare la colpa agli altri?

Non si sa. Nei risvolti della guerra si è cercato di addossare la colpa agli uni o agli altri ma questo è uno dei tanti aspetti che non avrà mai una risposta certa.

Anche nel film “Operazione Walchiria”, ad un certo punto, quando i comandi ricevono la notizia del cedimento, un ufficiale inveisce pesantemente contro l’armata rumena che ha ceduto. In fondo è un fatto noto che le colpe fossero addossate agli alleati dell’Asse piuttosto che a una valutazione errata nella organizzazione del fronte.

I rumeni non è che godessero di grande stima in fatto di capacità combattive mentre per gli ungheresi non credo sia giusto parlarne male. Quello ungherese era un esercito serio.

È plausibile che schierare gli italiani a cordone su un fronte così vasto potesse, in effetti, essere un espediente per poter addossare la colpa, ancora una volta, ai principali alleati?

Io ho l’impressione che non se l’aspettassero perché i russi si erano concentrati a sud, nella zona di Stalingrado. Noi eravamo coinvolti marginalmente.

Quindi quanto detto fa parte di tutta una serie di supposizioni che non trova riscontri diretti e forse non li troverà mai?

Non si avrà mai la certezza se ci si aspetta un’ammissione di colpa dall’una o dall’altra parte. I tedeschi, come è ovvio, daranno la colpa agli alleati. Anche quello strano individuo di Von Paulus che è nazista fino al giorno prima e quando si arrende cerca addirittura di coagulare i tedeschi anti-nazisti per combattere la Germania stessa. Quest’azione non ebbe seguito ma intanto salvato la vita.

Qual è stato l’errore allora su Stalingrado?

Quella di cercare di espugnare la città senza tentare di farla cadere per fame o per accerchiamento.

La campagna di Russia si è giocata praticamente proprio in quella città ma cosa ha impedito ai tedeschi di averla vinta? Il fatto, per esempio, che i russi fossero motivati a difendere il proprio territorio? Resistere all’invasore è stata sostanzialmente la motivazione più grande per uscirne vincitori?

I tedeschi si stavano esaurendo. Dopo i primi successi della primavera del 1942 i tedeschi ebbero la prima legnata e si dovettero arrestare. Nel frattempo gli americani aiutavano i russi. I russi mettevano in funzione le loro nuove fabbriche, non avevano preoccupazione dal punto di vista delle materie prime perché gliele passavano gli altri. Gli uomini erano migliori perché erano gente nuova, più motivata. Avevano appreso le lezioni della guerra perché avevano combattuto già un anno contro i tedeschi e sapevano fare la guerra, lo avevano imparato. Stalin aveva puntato tutto sull’orgoglio nazionale.

Credo che abbia inciso molto questo aspetto, quello cioè della resistenza contro l’invasore, nel proprio territorio. Le parti avverse invece erano ormai logore lontane dalla patria, mal equipaggiate, demotivate.

Un po’ come è successo con la nostra resistenza sul Piave. Nella guerra 15-18, pur non ricevendo un grande aiuto dagli alleati, il fatto che questi mandassero delle divisioni dopo Caporetto, in Italia, ci aiutò moralmente pur se questi non ci affiancarono subito. Aspettarono prima che gli italiani si stabilizzassero sul Piave e poi entrarono in azione, Ma questo, intanto, ci aveva avvantaggiato.

Ricordo bene una intervista ad un ufficiale russo, Alexader Kondakov – un reduce divenuto poi storico militare – che, parlando della Germania, disse “Non ho mai pensato che la Germania avrebbe potuto vincere la guerra. Che cos’era infondo la Germania in confronto alla Russia? Una piccola zolla di terra!”. Questa frase credo sia emblematica del morale dei russi e delle loro convinzioni rispetto a una guerra di invasione e della disparità oggettiva fra le potenze contrapposte, un gigante contro una “zolla di terra”.

Certo questo è un aspetto. C’è da dire che l’esercito russo si era rafforzato. Non si verificarono più le purghe staliniste degli anni precedenti. Stalin aveva cambiato atteggiamento, aveva dato fiducia ai comandanti, si erano organizzati bene.

Però è pur vero che, sia dall’una che dall’altra parte, un certo controllo sui disertori c’era ed era anche spietato.

C’era la figura del commissario politico che noi, in occidente, non avevamo. Non si trattava solo di un rimedio contro la diserzione, che veniva repressa in tutti gli eserciti. Egli, almeno fino al 1942, era il vero comandante del reparto ed era responsabile delle lealtà al partito dei suoi uomini. Poi, anche nell’Unione Sovietica, si tornò gradualmente al comando unico. Non va confuso con la sottomissione dei militari al potere politico, comune alle democrazie. Un po’ come avviene oggi con il Ministro della Difesa e i generali, che rispondono al Governo, almeno in tempo di pace. Chi comanda, in effetti, è il Ministro della Difesa, è lui che dice dovete fare questo piuttosto che quest’altro. Il comandante risponde “Signor sì”.

Da parte dei comandi italiani questo controllo ferreo non c’era? No, non lo avevamo (il nostro non era un esercito di partito) ma non lo avevano nemmeno gli americani né i francesi. Il commissario politico era principalmente una figura appartenente al regime comunista. Non avveniva come in Italia che erano tutti fascisti fino a che era conveniente. D’altronde il reduce (Riccardo Riccardi ndr.) che lei ha intervistato lo dice “Le scelte erano fondamentalmente due: o si andava in parrocchia o si diventava dei balilla. Oppure la mattina era dedicata ad una e il pomeriggio all’altra”. Non ho vissuto quei tempi ma da quello che ho sentito dalle persone più grandi di me le cose andavano in quel modo. Tutti andavano d’accordo su tutto, soltanto quando si sono messe male le cose si gettò la croce addosso a chi aveva organizzato la “faccenda”. D’altronde era chiaro che fosse stato il fascismo ad aver portato la nazione in una guerra risoltasi in una catastrofe ed era logico che la gente trovasse un modo per uscirne con il minor danno, ritornando sulle proprie scelte.

É vero però che il clima nelle citta, ma anche nei piccoli paesi, era nelle mani di certa gestione fascista che non dava scampo. Mio nonno, per esempio, che era un comunista convinto, dovette andarsene da Teramo perché i fascisti gli avevano fatto capire che sarebbe stato l’unica soluzione per non avere altri problemi e lui si trasferì in Molise. La questione del controllo era diffusa capillarmente.

Ma questo succedeva anche all’interno delle famiglie, c’erano dei dissapori a causa dei propri convincimenti.

Qui però si parla di gente normale non è che mio nonno fosse una persona illustre, parliamo del popolo.

Posso dirle che un mio zio diede dell’olio di ricino al cognato per aver, mi pare, buttato un ritratto del duce. C’era stato anche questo, non erano in fondo cose cruente. Pur essendo una carognata, non aveva delle conseguenza disastrose: in fondo andavano in bagno qualche volta di più. Quando diventarono più saggi però queste pratiche scomparvero.

Però, di fronte a questi fatti, chiamiamoli pure di poco conto, il fascismo, se non fosse stato quello che è stato avrebbe dovuto dire “No, queste cose non si fanno”. E invece era pratica comune. Se si lasciava fare vuol dire che al regime faceva comodo questo senso del terrore.

Mussolini infatti se ne spaventò ed irregimentò le squadre d’azione e le inquadrò nella Milizia in modo che avessero dei responsabili e una disciplina perché sapeva lui stesso che l’anarchia e le prepotenze avrebbe provocato dei danni. Alla fine si imborghesirono e tutto quanto finì lì. Non abbiamo avuto che degli episodi di condanne di antifascismo, e i più gravi si contano sulle punte delle dita.

Quindi secondo lei è stato fatto più male dopo?

È stato peggio durante la Repubblica Sociale. Non sappiamo se, durante la Repubblica sociale non ci fosse stato Mussolini, le cose sarebbero andate o peggio o non so cosa. In quel periodo si sono verificati degli eccidi da entrambe le parti. Mussolini non controllava ormai più nulla. Tant’è vero che sul fatto di Marzabotto lui protestò, ma invano perché i tedeschi erano quelli che ormai comandavano. I seguaci di Mussolini vennero poi considerati corresponsabili di tutte le malefatte e le ruberie dei tedeschi. I tedeschi si prendevano 7-8 miliardi all’anno dell’epoca e allora l’inflazione non c’era, era una somma piuttosto considerevole, eppure non ci fu inflazione in alta Italia. La svalutazione arrivò con le Amlire degli americani, che stamparono moneta falsa, ma questo è un discorso che sconfina nella finanza nella quale non ci addentriamo.

Cosa sta scrivendo in questo periodo?

Un libro sulla grande guerra in occasione del 90° anniversario e un altro, un libro tecnico, “Un secolo di anni di autoblindate in Italia”, risalendo dalle origini fino ai giorni nostri.

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