L’occupazione italiana in Urss



Invasori italiani nell’inferno del fronte russo

Dal «Corriere della Sera», 20 agosto 2023, p. 29

La ritirata e la prigionia. In genere la letteratura riguardante la campagna militare italiana in Russia, soprattutto la vastissima memorialistica, ha privilegiato questi due aspetti, che vedevano i nostri soldati nelle vesti di vittime del terribile inverno sovietico e di un nemico soverchiante. Di più, si tende tuttora a presentare i militari dell’Armir sotto una luce favorevole per il rapporto positivo che avrebbero instaurato con la popolazione locale, secondo lo stereotipo messo in scena dal regista Giuseppe De Santis nel film del 1964 Italiani brava gente.

La realtà storica di quella disastrosa avventura militare è però assai meno idilliaca. E purtroppo c’è chi tuttora ha interesse a rinfocolare antichi rancori per via dell’appoggio fornito oggi dall1talia all’Ucraina invasa, come dimostra il recente abbatti­ mento, nella regione di Belgorod, di una stele dedicata agli alpini caduti in Russia.

Per tornare alle vicende del passato, si segnala sull’argomento il libro di Raffaello Pannacci L’occupazione italiana in Urss (Carocci, pagine 310, € 35). Un lavoro approfondito e accurato, frutto di uno scavo minuzioso negli archivi, che si sofferma rapidamente sulle operazioni militari e ne scandaglia invece il complesso contorno, anche negli aspetti meno edificanti.

Il saggio esamina quindi parecchi punti critici: il trattamento riservato dagli italiani ai prigionieri; la lotta contro i partigiani sovietici, spesso condotta con metodi spietati; il rapporto altalenante con la popolazione civile, in particolare le donne, alcune delle quali costrette a prostituirsi nei bordelli da campo; i progetti di sfruttamento delle risorse nei territori occupati; l’affarismo che allignava nelle retrovie.

Il capitolo più scabroso riguarda ovviamente i crimini di guerra. Anche se non si comportarono certo con la ferocia dei tede­ schi, i militari italiani a volte eliminarono prigionieri o anche civili sospetti. Nella stessa disperata battaglia del1943 per rompere l’accerchiamento a Nikolaevka – il cui anniversario, 26 gennaio, è stato infelicemente scelto per celebrare le indubbie virtù del corpo degli alpini – vi fu una «strage dei feriti russi» trovati in un’infermeria. D’altronde la guerra sul fronte dell’Est fu un succedersi di tremende atrocità. E non si può pensare che i soldati italiani non risentissero di quel clima apocalittico.


La recensione è apparsa nel numero 103 (giugno 2023, pp. 222-226) della rivista «Il presente e la storia», organo dell’Istituto storico della Resistenza nel Cuneese, attivo fin dal 1964 nella ricerca sul tema della campagna di Russia.

Per molti decenni, parlare della campagna di Russia ha significato in Italia ricordare le sofferenze patite dai soldati dell’Armir durante la ritirata dell’inverno 1943. Sono molte le memorie che raccontano quell’esperienza, su cui anche gli storici sono ritornati più volte per approfondire una pagina cruciale della storia italiana del Novecento. Il fallimento di quella campagna, infatti, segnò la fine della guerra fascista, già perduta nella regione balcanica e in Africa, e incrinò irrimediabilmente l’alleanza militare con i tedeschi, i quali fin dal 1941 avevano esortato Mussolini a non intraprendere uno sforzo sul fronte orientale di cui le sue truppe non erano all’altezza.

Si potrebbe credere che dopo quasi ottant’anni non ci sia molto ancora da dire sulla campagna di Russia, eppure il volume di Pannacci smentisce questo dubbio e al contrario presenta al lettore anche qualche sorpresa. L’autore concentra il proprio interesse non sugli aspetti militari della campagna, ma sulla presenza dell’esercito occupante sul territorio ucraino e russo tra il 1941 e il 1943. Questo significa esplorare la complessa realtà documentaria lasciata dietro di sé da un’armata mediamente grande (il CSIR inizialmente contava 60.000 uomini, l’Armir che lo assorbì nel luglio del 1942 era invece un’armata di 230.000 soldati) che ebbe molteplici compiti di amministrazione, gestione dell’ordine, repressione antipartigiana e sfruttamento economico.

Leggendo il volume di Pannacci, ci si rende conto della sproporzione con cui per molto tempo si è guardato alla campagna di Russia, considerando principalmente l’aspetto militare. Questo, invece, come anche emerge dalla storiografia tedesca, è quello meno significativo sia per le dimensioni modeste dell’armata italiana e del fronte su cui fu impiegata, sia per la portata limitata dei successi militari italiani. Invece, la presenza italiana sul territorio per un periodo relativamente lungo comportò una complessa strutturazione di interazioni fra l’occupante e la popolazione locale, di cui la storiografia si è occupata poco. I lavori di Gentile, Klinkhammer, Scotoni, Giusti e soprattutto Schlemmer, che hanno esplorato in parte questi aspetti, sono riconosciuti e utilizzati da Pannaci, il quale, usando anche fonti di origine diversa custodite in archivi militari e non solo, esplora «il rapporto dell’occupante col territorio e con le popolazioni soggette, la visione del nemico in armi, il trattamento dei prigionieri di guerra, la lotta antipartigiana, le modalità e le finalità dello sfruttamento delle risorse del territorio, le politiche di occupazione del Regio esercito in terra straniera, la reciproca visione di occupanti e occupati» (16-17).

Il volume nasce quindi «anche dall’esigenza civile» di «correggere in termini critici e autocritici quella che nell’immaginario collettivo nazionale è ancora oggi la visione della campagna di Russia» come la «tragedia dei soldati italiani mandati allo sbaraglio» (17). Infatti, fin dall’introduzione, l’autore ricorda che dopo la guerra in Italia si cercò di occultare il ruolo che l’esercito ebbe nell’occupazione di paesi stranieri e nell’assoggettamento dei loro popoli (i russi venivano chiamati “sudditi”), un atteggiamento che purtroppo ancora ostacola il lavoro con le fonti conservate negli archivi militari (11). Pannacci non intende rovesciare tesi assodate o preconcette, ma criticarle dall’interno con il circostanziato sostegno delle prove d’archivio. Benché il tono del libro non sia mai polemico o sensazionalista, la prosa elegante e scorrevole dell’Autore coinvolge il lettore e spesso ne provoca la reazione emotiva, perché quello che emerge dalle pagine del libro è la storia di un’occupazione cinica, spesso brutale e opportunistica, che contraddice radicalmente i miti degli “italiani brava gente” e della presunta simpatia che i russi manifestarono verso i nostri soldati.

Il primo capitolo introduce l’argomento riassumendo numerose informazioni già più o meno note e assodate, soprattutto concernenti l’assetto militare della campagna, l’impiego operativo e l’importanza dell’apparato propagandistico teso a rendere la guerra a est popolare agli occhi sia dei militari che dei civili. Dal secondo capitolo si inizia già ad affrontare la questione della rappresentazione dell’avversario e del popolo russo, visti dai militari italiani (anche a causa della propaganda) come straccioni, incivili e barbari. Il corollario di questo atteggiamento era una certa durezza nei confronti dei soldati sovietici che si arrendevano e dei prigionieri, un tema al quale è dedicato il terzo capitolo. Su questo tema controverso, Pannacci parte dal presupposto che per lungo tempo si è teso a sostenere che i prigionieri russi in mano italiana fossero trattati «rispettosamente e secondo le convenzioni internazionali vigenti» (70), una verità relativa e imprecisa. I prigionieri russi furono usati per alleggerire il lavoro dei soldati italiani, come mietere il grano, sgomberare le strade e tagliare la legna (79) e dovettero affrontare condizioni di vita dure, soprattutto patendo la fame (87) e numerose malattie fra cui il tifo, la dissenteria e il colera (89), soprattutto nel periodo in cui operò in Russia il CSIR (90).

L’altra questione spinosa correlata con la gestione dei prigionieri e il mantenimento dell’ordine pubblico è la repressione dei partigiani, condotta con la forza e tramite perquisizioni e arresti, rastrellamenti, interrogatori duri, esecuzioni e scontri armati, attività con cui «gli italiani in URSS furono costantemente impegnati […] su tutto il territorio occupato» (91). Da subito, documenta Pannacci, gli italiani furono addestrati ad affrontare i partigiani come banditi e delinquenti: «diverse unità […] erano mentalmente preparate a una cruda guerra in cui non esistevano né una linea del fronte né retrovie sicure, mentre altre avevano un background coloniale» (92), il che facilitò lo svolgimento di questo tipo di guerra. Tuttavia, poiché la minaccia partigiana poneva gli occupanti sotto continua minaccia, nella rappresentazione fornita nel dopoguerra dai reduci «l’aver avuto a che fare coi partigiani al fronte fu una delle chiavi di volta dell’inversione concettuale fra i ruoli di aggredito e di aggressore» (94). La paura dei partigiani divenne una vera ossessione e fonte di tensione e incidenti, cosicché, con l’arrivo dell’Armir, un’intera divisione (la Vicenza) fu destinata specificamente alla repressione antipartigiana, cui era predisposto un battaglione di Carabinieri coadiuvato da reparti di Camicie Nere (97). I partigiani erano braccati, catturati e giustiziati sul posto e i Carabinieri si distinsero nelle operazioni di controguerriglia e nella conduzione degli interrogatori (102-103), spesso anche ricorrendo a violenze e torture (113-114).

Il commento di Pannacci è a tal riguardo inequivocabile: «le truppe italiane, in sostanza, parteciparono attivamente alla repressione della guerriglia, a volte su ordine dei tedeschi e in collaborazione con loro, a volte in completa autonomia […] anche preventivamente e con un innegabile grado di violenza» (115).

Chiariti questi aspetti, il quinto capitolo affronta uno dei temi meno noti della campagna di Russia, ovvero lo sfruttamento economico del territorio occupato. Di là dalla propaganda fascista della crociata antibolscevica, il vero motivo che rese popolare la campagna di Russia presso gli italiani fu la prospettiva di saccheggiare i territori occupati e di raccogliere un ponderoso bottino. Se le unità che tenevano la linea del fronte erano pochi battaglioni di alpini e fanteria (quelli da cui proviene la maggior parte degli autori delle memorie del dopoguerra), la stragrande maggioranza dell’Armir constava di «reparti logistici e di enti atti al controllo del territorio e a gestire i rapporti con esso e con la popolazione» (118). Sgomberi di edifici per la truppa, abbattimenti di edifici e villaggi, requisizioni ed espropri erano all’ordine del giorno: tutto era a “completa disposizione” degli occupanti e ogni cosa poteva essere requisita “senza indennizzo” (119). I civili che non fuggivano con l’Armata Rossa verso est erano sfruttati per eseguire ogni tipo di lavoro utile agli occupanti, e quindi «giova notare che gli italiani non percepivano necessariamente il proprio ruolo di sgomberatori e distruttori”, al contrario avevano l’impressione di essere benvoluti da quella minoranza di popolazione che restava sotto il loro controllo, e che per prudenza o per opportunismo fingeva di non provare ostilità nei loro confronti (121). Come in tutte le imprese coloniali, l’occupazione italiana in Ucraina e Russia diede vita a forme di collaborazionismo, spesso forzato, da parte dei civili costretti a prestare la propria opera al servizio degli occupanti non certo per entusiasmo o simpatia (131). L’armata doveva peraltro vivere delle risorse locali per non gravare su quelle inviate dall’Italia, quindi il Comando d’Intendenza raccomandò di praticare forme di sfruttamento «integrale, radicale, fatto senza pietà» (135). Considerato infine che i pagamenti di indennizzo, quando corrisposti, erano erogati in marchi d’occupazione, cioè una valuta senza alcun valore, di fatto i civili erano depredati di tutto (139).

Sulla base dei documenti consultati, l’Autore sostiene che gli italiani occupanti si sostennero con razzie e ruberie, saccheggi, truffe ed estorsioni e che questo stato di cose fu aggravato dall’estate del 1942 perché la massa di soldati dell’Armir includeva un gran numero di ex-detenuti nelle carceri militari, ai quali sarebbe stata condonata la pena in cambio del servizio sul fronte orientale (147). Dai documenti giuridici consultati Pannacci appura che «i soldati erano uomini armati che gestivano un potere per lo più sconosciuto nella vita civile: in specie se avevano precedenti penali in patria per furto o per rapina, essi non esitavano a usare le armi per raggiungere i propri scopi” (147). Si tratta di un quadro ben diverso da quello proposto dai reduci della ritirata dopo la guerra, da cui emergono i buoni rapporti con la popolazione e l’immagine del “bravo italiano” che non ruba, che bussa alle isbe prima di entrare, che aiuta i bambini e le donne. Ma dal libro di Pannacci emerge anche di peggio nel capitolo 6, ovvero che il saccheggio sistematico del territorio occupato fu deliberatamente voluto, organizzato e incoraggiato dal Comando dell’esercito in piena armonia con gli industriali in Italia. Benché i tedeschi lo proibissero, per avvantaggiare il proprio esercito e la propria industria, spiega Pannacci, il Comando italiano escogitò il modo di inviare in Italia segretamente migliaia di tonnellate di materiali ferrosi e rottami, materie prime, grano, stoffa, lana, e qualsiasi cosa potesse essere utile all’industria nazionale, e che per sostenere tale traffico incoraggiò anche i singoli militari perché inviassero pacchi carichi di materie prime anziché denaro, premiando i singoli soldati e i loro reparti per ogni quantità di merce spedita in Italia (164). La refurtiva spedita in Italia veniva sequestrata al confine e un indennizzo monetario era quindi corrisposto ai destinatari a casa (166): un sistema quasi perfetto in cui tutti guadagnavano qualcosa, che tuttavia alimentò nei territori occupati traffici illeciti, furti e rapine.

Il sesto capitolo del libro, forse il più rivelatore e originale, racconta una campagna di Russia che a lungo è stata dissimulata. Pannacci commenta dicendo che una guerra così lontana sarebbe stata difficile da sostenere solo con la propaganda della crociata:

 «il piccolo guadagno personale doveva costituire la prova tangibile del successo nella lotta al bolscevismo, la dimostrazione della convenienza anche economica della guerra” (172-173). Ancora una volta, emerge il ritratto peggiore dell’italiano truffatore a buon mercato, ignorante e cialtrone, che vede nel piccolo tornaconto personale la ricompensa per aver perso la dignità: “il sistema del ‘ricerca e spedisci’ – continua l’autore – coinvolse i soldati in un progetto di sfruttamento integrale dello stato invaso, rendendoli il primo anello di una catena che terminava nei magazzini militari o negli uffici postali del Regno” e si domanda se i soldati fossero consapevoli “di far parte di un sistema di spoliazione di uno stato occupato e di contribuire a inserire popolazioni già vessate dalla guerra” (173). Forse no, conclude, perché rubare le risorse dei barbari sovietici significava arricchire l’Italia e se stessi, significava avere la ragione dei forti. Lo scenario delineato indigna, quando l’autore espone la ricorrenza di reati come fatto aggravato, peculato, truffa, falso in diverse zone delle retrovie (176), così come quando parla della speculazione ai danni dei civili e degli stessi militari italiani che tenevano la linea del fronte. Come corollario, Pannacci sostiene che “in URSS esisteva il mondo ipogeo di italiani poco o per nulla toccati dalle vicende del fronte, che vedevano nella popolazione una fonte di lucro e per i quali i connazionali in linea non rappresentavano nemmeno dei commilitoni” (178).

Il capitolo sette affronta il modo in cui gli italiani amministrarono i territori occupati dal punto di vista fiscale (tassando la popolazione), giuridico (coi tribunali militari), sanitario (offrendo assistenza ai collaborazionisti) e scolastico (scoprendo che in Ucraina e Russia c’erano pochissimi analfabeti, a differenza dell’Italia). L’ultimo aspetto vergognoso dell’occupazione italiana in Russia è trattato nel nono capitolo e riguarda il rapporto dei soldati con le donne ucraine e russe, “uno dei temi che più e meglio si è prestato alle classiche distorsioni della memoria italiana” poiché inquinato dallo stereotipo nazionale del “gallismo” e dell’italiano amatore (256). Pannacci ricostruisce con la documentazione un quadro ben diverso della questione, dimostrando che la prostituzione fu perseguita e incoraggiata fin dall’inizio dai Comandi, anche facendo leva sul mito del “libero amore” praticato dalle donne bolsceviche. In una popolazione civile composta quasi esclusivamente di vecchi, donne e bambini, sottoposta al regime di occupazione militare di un esercito straniero, e immiserita dalla guerra e dalla depredazione delle risorse da parte degli occupanti, il sesso diventò una merce di scambio per le donne giovani che dovevano sfamare i figli. Senza dimenticare che per molti soldati armati era facile imporre il proprio desiderio con la violenza, soprattutto perché i tribunali militari sorvolavano sull’accusa di stupro e tendevano a punire i soldati per altri reati strettamente connessi con il codice militare.

Thomas Schlemmer aveva intitolato il suo libro sugli italiani in Russia Invasori, non vittime e questo volume di Pannacci si immette nella scia di quelle ricerche, di cui c’è bisogno per sbarazzarci definitivamente delle molte sciocchezze ripetute per decenni sulla campagna di Russia. Gli italiani sul fronte orientale si comportarono spesso da predatori e razziatori e furono mal sopportati dalla popolazione, che li tollerava solo perché i civili inermi non potevano opporsi alla loro presenza. Non tutti i soldati italiani furono così, però, e restano limpide le parole dei migliori di loro, che spesso terminarono la guerra dal lato dei partigiani e contro i fascisti. Ma la grande massa anonima dell’Armir non si lascia rappresentare da un pugno di testimoni, e qui si rende necessario il lavoro dello storico che estrae dagli archivi le tracce del passaggio di quella massa nei territori occupati tra il 1941 e il 1943, per ricordare che quella ita­ liana contro l’URSS fu una guerra criminale di aggressione e di rapina.


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