Nicola Malizia, Dagli aerei alla scrittura

di Achille Omar Di Leonardo

Rimini Miramare, 2 aprile 2009

“È il primo pomeriggio di quella giornata di dicembre 1942 quando […] l’aereo sparisce nel nulla.”

Nonostante non del tutto pertinente all’argomento trattato nel sito, l’intervista a Nicola Malizia sulla sua vita privata viene inserita non solo per conoscere il personaggio, ma anche con l’auspicio di fornire ulteriori informazioni più tecniche, utili alla comprensione degli interventi dei piloti italiani in territorio sovietico o delle azioni belliche dell’aeronautica sui fronti di guerra. Il suo libro “Ali sulla steppa”, di cui si può leggere l’intervista, raccoglie le esperienze degli aviatori italiani della Regia Aeronautica e le loro azioni nella campagna sul fronte orientale.


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Quando è nata la tua passione per la scrittura?

Il piacere dello scrivere è nato dai banchi di scuola. Il mio primo amore è stato il giornalismo e in seguito ho scritto anche in altri ambiti: Riviste d’Aviazione italiane, inglesi, francesi, oltre ad essere stato un collaboratore de “Il Messaggero”, al tempo della conduzione di Raoul Gardini, il “Patron”. La passione che mi ha spinto a scrivere è la stessa che mi ha portato ad appassionarmi agli aerei e al volo. Tutto questo ha le sue radici nella “preistoria” della mia vita, a quando avevo circa nove anni.

Io e altre due sorelle. Una è in Calabria, l’altra è scomparsa alcuni anni fa per quel male crudele chiamato Alzheimer, mentre i miei sono stati sepolti qui a Rimini. Trasferitisi in Romagna abitavano non distanti da noi. Con mio padre abbiamo girato tutta la Calabria: dalla Locride a Nicastro, Nicotera, Rosarno dove abbiamo subìto sette bombardamenti nel giro di due giorni e due notti, secondo la strategia del terrore dell’USAAF! Il mio primo anno di scuola è stato a Nicastro, poi il resto a Nicotera, ove ho iniziato il Ginnasio, completato fra Palmi e Crotone, quest’ultima località raggiunta in seguito ad un nuovo, ennesimo trasferimento del mio “irrequieto” genitore. Questi trasferimenti di mio padre hanno influito molto sulla mia formazione e sulla mia poca voglia, all’epoca, di voler studiare. La guerra mi aveva attratto e distratto! A Crotone ho iniziato e non conclusi gli studi del Liceo classico, perchè un ulteriore trasferimento di mio padre ci portò a Sibari, allora malarica e sperduta landa di Calabria. Tutto ciò fu deleterio. Per questo mio padre ottenne un miracoloso trasferimento a Cosenza, dove ho tentato di continuare con gli studi. In verità ero un ragazzo un po’ irrequieto, attirato da tante cose non ultime le “ragazzine” ed il pallone, di cui ero un appassionato. Nel 1943 avevo frequentato la 3^ Ginnasiale, ma ci andai poco a scuola per via dei bombardamenti. A causa di questo, a fine anno, ci promossero tutti, e fu un grande errore perché al 4° Ginnasio ci bocciarono ripagandoci del regalo bellico! Mancava, è ovvio, la giusta preparazione. A Cosenza le cose precipitarono. La situazione mi creò un grosso handicap. Mi trovavo spaesato, demotivato, per cui decisi di ritirarmi. Però non mollai del tutto. Attraverso un mio cugino, insegnate di lettere, mi preparai per tentare il “Grande Slam” della Maturità e fu un’autentica ”Waterloo”! La preparazione non era del tutto sufficiente, tanto che mi caricarono di materie per settembre, ma nel frattempo avevo fatto domanda per l’ingresso nell’Accademia Aeronautica, con riserva di presentare il diploma in seconda sessione. Era emerso ormai il mio grande desiderio di entrare nell’aeronautica. Mi ricordo ancora che feci domanda con carta bollata da 35 lire. Tutto questo l’ho raccontato in un libro autobiografico (1) per la necessità di fermare i ricordi ma anche per liberarmi delle sofferenze della mia prima giovinezza, aggravate dalle brutture della guerra. Il Comando Scuole dell’Aeronautica Militare non mi chiamò nemmeno alla visita selettiva in Accademia. Ebbi il sospetto che mio padre non avesse spedito la domanda, incoraggiato da mia madre che non voleva vedermi partire. Lei era molto legata a me e soffrì tanto quando venne il momento di partire, ero rimasto ormai l’unico a casa. Il dubbio della mancata spedizione divenne realtà, quando, dopo anni, ritrovai tra le carte di mio padre, un documento di buona condotta che avevo richiesto a Crotone e che mi sarebbe dovuto servire per la domanda. La decisione di arruolarmi ugualmente nell’Aeronautica Militare, sfumata l’Accademia, la presi quando, un sera, uscito dal cinema, mi imbattei in un manifesto che riproduceva quattro reattori con una scia del tricolore dai coni di scarico. Presi i dati e scrissi al Ministero. Fu così che, con nuova carta bollata da 35 lire, feci domanda per l’arruolamento come Specialista. Fu una gara dura. Si diventava maggiorenni a 21 anni, per cui anche mio padre dovette dare il suo consenso. Ci fu una selezione severissima presso la 4^Z.A.T. (Zona Aerea Territoriale) di Bari. Quando fui sottoposto a visita medica…mi batteva talmente forte il cuore, preso dall’emozione, che mi misero da parte per farmi acquietare. Quindi sentivi una forte, fortissima, motivazione per questa nuova avventura? Sì, la sentivo, anche se la Scuola Specialisti fu un ripiego perché l’Accademia era ormai un sogno infranto. Per l’arruolamento negli Specialisti vi erano 22.000 concorrenti, per 850 posti, elevati subito dopo a 1200. Comunque fui reso idoneo anche se passarono alcuni mesi prima che mi chiamassero. Era l’Agosto 1950, quando da poco era scoppiata la guerra in Corea. Il 25 Ottobre mi arrivò la cartolina del Ministero è, in quella occasione, mia madre mi pregò in tutti i modi perché non partissi e rinunciassi compilando una seconda cartolina allegata e prestampata dove avrei potuto recedere. Oggi non so come sarebbe stata la mia vita se avessi scelto diversamente ma, tutto sommato, sono contento così com’è andata. Quanto tempo è passato dall’episodio dell’aereo sulla spiaggia a quando hai preso la decisione definitiva che saresti salito su un aereo? È passato poco. In quello stesso periodo, come dicevo, la guerra era ormai scoppiata. Un giorno vidi atterrare un Fiat BR20M. Dove abitavamo, nel grazioso ma povero paesotto marinaro di Nicotera, c’era una spiaggia enorme, divisa dal fiume Mesima, che segna i confini tra la provincia di Reggio Calabria e Catanzaro, dove era stato allestito un campo di atterraggio, un campo di fortuna (all’epoca si chiamavano “campi di manovra”). Quando l’aereo atterrò eravamo a scuola e, vista l’occasione di una bella giornata di primavera, il Preside ci portò tutti a vedere questo aereo. Era la metà di Maggio del 1941. Quando ci avvicinammo il capo equipaggio del FIAT BR.20M dispose di far entrare uno scolaro/scolara per classe, uno o una alla volta, i più bravi. All’epoca ero uno dei più bravi per cui ebbi questo privilegio. Da ragazzino ero molto orgoglioso per cui, se non fossi entrato, ne avrei sofferto molto. Un giovanissimo membro dell’equipaggio mi portò a fare un giro nell’aereo. Il mio primo istinto fu quello di recarmi alle armi di bordo. Quando entrai a far parte dell’Aeronautica Militare mi fu assegnata proprio la categoria di Armiere, una delle sei con l’obbligo continuativo del volo. Con l’Aeronautica tradii, quindi, le aspettative di mio padre, che avrebbe voluto che io entrassi nelle ferrovie, tanto che mi aveva insegnato a usare il telegrafo perché voleva instradarmi al mestiere di capostazione e, all’epoca, era fondamentale conoscerlo. Conservo ancora il tasto di questo telegrafo con il quale mio padre mi faceva esercitare. Dal momento che, nel trovarmi a bordo del FIAT BR.20M, avevo notato un tasto sulla consolle del Marconista di bordo, feci presente al mio gentile accompagnatore che conoscevo il telegrafo. Lui mi disse “bravo, così potrai arruolarti nella Regia Aeronautica”. Da quel giorno passarono nove anni e finii dritto, non nella Regia Aeronautica ma, ovviamente, nell’Aeronautica Militare. Feci un corso a Caserta dove lo studio era concentrato tutto sull’acquisizione di elementi teorici e pratici. Il battesimo dell’aria dove è avvenuto? A Capodichino, l’aeroporto di Napoli, con un aereo trimotore, un FIAT G.12, glorioso trasporto della 2^G.M.. L’emozione? Tanta e bellissima. L’equipaggio ci portò a sorvolare Capri e la costa amalfitana. Peccato non avessi con me una macchina fotografica, sarebbe stato un momento stupendo, ma non so chi, scattò una istantanea di noi 12 Allievi della stessa Camerata, pronti all’imbarco….era il 24 Luglio 1951. Finimmo la scuola il 29 luglio del 1951. Il corso si svolse nella Reggia di Caserta, di cui l’Aeronautica Militare occupa da decenni un terzo dello storico edificio. Eravamo alloggiati nel sottotetto, dalle finestrelle squadrate che si vedono in alto. Finestre apparentemente piccole ma dalla quali ci si affacciava almeno in quattro. Fin dal 1926, nella Reggia, c’era stata la Regia Accademia Aeronautica e vi rimase lì fino all’8 settembre 1943. I corsi erano indicati con nomi di volatili oppure con nomi astronomici insieme, dal 1°, denominato Aquila, allo Zodiaco. Alla data dell’8 Settembre 1943 a Caserta vi erano anche l’Urano ed il Vulcano. Questi ultimi tre corsi furono trasferiti a Forlì all’Istituto “Arnaldo Mussolini”. Dopo l’8 settembre i ragazzi frequentanti si divisero: alcuni andarono a sud, altri a nord. Dopo la guerra l’Accademia è stata trasferita a Nisida, adesso invece è a Pozzuoli. Quanti anni di corso prevede l’accademia aeronautica? Sono tre anni di corso. L’ultimo anno c’è la selezione per il volo: si sceglie chi è portato verso la specialità dei caccia-intercettori o dei caccia-bombardieri, degli antisom, dei trasporti, o degli elicotteristi. Tu invece, non avendo fatto l’Accademia, ti sei specializzato in armamenti di bordo? Sì, ogni aeroplano militare ha un armamento di bordo e io ero specialista delle armi di bordo. Ho scritto un libro, che uscirà a fine anno, forse anche prima, che tratta proprio gli armamenti di bordo, da quando nasce la mitragliatrice ai nostri giorni. Il compito specifico qual era, oltre a quello di saper sparare? Un reparto di volo, come un Gruppo organico, ai miei tempi era formato da una ventina di piloti e per il resto da specialisti, per un numero totale di 120-130 persone, tutti di carriera, dal Comandante, inizialmente un Maggiore, oggi Ten. Colonnello, al più giovane degli Avieri Scelti. Nessun altro può mettere mano sugli aerei da guerra. Le categoria di specializzazioni dei reparti di volo sono essenzialmente 6: Motoristi / Marconisti/Radaristi / Montatori / Armieri / Elettromeccanici di Bordo / Fotografi. Oggi il sistema è un po’ rivoluzionato! Noi Armieri avevano il compito della manutenzione e dell’efficienza di tutti i sistemi d’arma esistenti a bordo dei velivoli in dotazione: mitragliatrici o cannoncini e relative loro accurate calibrazioni, circuiti elettrici / travetti porta-bomba, inizialmente persino il collimatore ottico e con gli aviogetti anche i seggiolini eiettabili. “Saper sparare” era ed è compito del pilota. Era ovvio che noi Armieri sapessimo sparare meglio di chiunque altro, ma il sistema di bordo di un velivolo da combattimento è affidato al pilota in volo: (armamento di lancio, quali mitragliatrici o cannoncini, razzi o missili a/a) o su quello di caduta (bombe da esercitazione, bombe convenzionali, al napalm, bombe speciali). I primi anni operavo in un reparto di caccia-bombardieri, per cui si aveva il duplice compito degli armamenti di lancio e di caduta, ma per il resto dei miei anni di servizio sono stato in reparti caccia-intercettori, ove l’armamento si basa unicamente su quello di lancio, cannoncini e missili aria/aria, all’infrarosso o a ricerca semi-attiva, con l’aggiunta di un impegno più oculato per i più moderni e sofisticati seggiolini eiettabili, necessari di severi controlli calendariali. Che tipo di esercitazione si faceva? Per i caccia-bombardieri attività di tiri aria/terra o lo sgancio di bombe di tutti i tipi su Poligoni predisposti, il più noto al Nord, Maniago, in Friuli. Al Sud Punta Penne, nel brindisino e Capo Frasca in Sardegna. Per i caccia-intercettori esercitazioni di tiri aria/aria, a fuoco, presso i C.A.T. (Centri Addestramento Tiri), fino al 1961 presente a Brindisi, in un arco di cielo disteso dal Golfo di Taranto a Punta Alice in Calabria. Dalla primavera del 1962 il C.A.T. fu spostato sulla base NATO di Decimomannu, in Sardegna, con un particolare riquadro di cielo al largo delle coste dell’isola. E quali sono gli obiettivi simulati? Per i tiri aria/terra sagome (teloni bianchi cerchiati) predisposti sull’immensa area di tiro, mentre per quelli aria/aria la necessità di predisporre – un tempo – di un aereo “traino-bersaglio”, questo capace di trascinare una manica in nylon nel cielo, manica presa di mira dai piloti in addestramento. Era loro compito sparare con pallottole inerti, da esercitazione (Dummy), aventi le ogive colorate a cera, in una gamma di varie tinte, tali da lasciare un alone sul foro prodotto dal proiettile. Tutto ciò per la conta dei colpi messi a bersaglio durante il circuito di tiro, al fine di assegnare la necessaria Combat Readinees (Pronto al Combattimento) ad ogni pilota del reparto. Oggi i tiri vengono svolti in maniera elettronica, senza la necessità di sparare un solo colpo! Per i piloti intercettori la necessità di addestrarsi, anche, all’uso del Radar di bordo, per intercettare eventuali aerei “avversari” venuti a violare lo spazio aereo nazionale. Come mai ti sei ritrovato a lavorare con base in Veneto? Negli ultimi giorni della nostra permanenza a Caserta ci fu consegnato un foglio in bianco, sul quale dovevamo indicare tre sedi aeronautiche di nostra preferenza, complete di nome e cognome, con tanto di firma. Non so quale segno del destino mi abbia spinto a scrivere le località di…..Treviso, Firenze, Roma. Poi partimmo per trascorrere un mese di licenza nelle nostre case. Parte di quei giorni li passai a Cosenza, altri al mare, a Nicotera, presso la mia sfortunata sorella, colà ritornata, quale moglie di uno dei giovani Sottocapi della Stazione FS. Poi, poco prima della fine di Luglio 1951, tornai a casa, giusto in tempo per ricevere una busta rossa dal Ministero Difesa Aeronautica, che nell’aprirla mi colpì per primo uno scontrino ferroviario con la scritta….Cosenza-Treviso / Solo Andata. Il resto recitava “Ti comunico di essere stato assegnato al 51° Stormo Caccia Bombardieri, con sede a Treviso S. Angelo, da raggiungere entro e non oltre il 29 Agosto 1951”Il dolore di mia madre fu ancora più grande, perché tale lontananza (1.185 km) la paragonò alla luna, ma la calmai dicendole che tutto sommato in quel Veneto, che tanto avevo sognato, vi era, in quel di Jesolo, una nostra cugina. A Treviso si compiranno molte eventi del mio destino di giovane aviatore, soprattutto quando incontrerò, poco prima della fine del 1953 una graziosa 17enne, che diverrà mia moglie. Devo ammettere, però, che, se mi avessero mandato al sud, avrei fatto un altro tipo di carriera, senza dubbio non l’avrei fatta per nulla, perché mi sarei congedato alla fine dei 30 mesi di ferma, in quel momento 10 dei quali già trascorsi! Rimaneva in me, sempre, come piaga dolente in fondo all’animo, non aver potuto frequentare l’Accademia! A Treviso non sarebbe stata, e non lo è stata, una strada facile. Non era la trafila da ufficiale, perché partire da Allievo Specialista, all’epoca era una strada molto lunga e faticosa. Alla fine degli anni quaranta l’Aeronautica Militare, uscita dalla guerra, era a pezzi. Ma a Treviso ho passato i migliori anni della mia vita, intanto perché ero giovane e poi perché, come già anticipato, ho conosciuto mia moglie, in una città splendida, quieta, signorile, accattivante! Prima dei 25 anni non ci si poteva sposare, per cui aspettammo qualche anno. Con il mio temperamento un po’ ribelle ho avuto da discutere con i prepotenti del tempo, in massima parte Sottufficiali, ignoranti e cattivi! Lo dico oggi con molta serenità, ma senza cattiveria, perché è una verità patita sulla propria pelle e su quella di tantissimi colleghi. A guardarti così non si direbbe, forse è un aspetto che hai preso da tuo padre, a tuo dire. Si, forse, ma direi di no, perché non sono manesco, come era il mio erculeo genitore! Sai, io non amo le prepotenze e di prepotenze ne ho subite molte, forse troppe, per cui decisi di tagliare corto finché un giorno mi ribellai! La mia condizione di “Graduato di Lungo Corso” mi mortificava oltre il dovuto, quindi mi ha sempre pesato, creandomi qualche difficoltà nei rapporti con questi diabolici aguzzini. Sì, proprio aguzzini. Non meritano altra etichetta! Come sottufficiale che incarichi avevi? Non era tanto la formale scala gerarchica alla quale è doveroso sottostare, quanto la gratuita cattiveria di alcuni personaggi, che nel mio “autobiografico”(1) sono stati bollati a fuoco. Meno dispotismo, è onesto affermarlo, da parte degli Ufficiali, con i quali ho avuto – sempre – fino al mio congedo anzitempo, un rapporto di cordialità, stima, considerazione e reciproca simpatia, soprattutto con i coetanei e ancor più con quelli che sarebbero stati i compagni di Corso Accademico, in molti assegnati al 51°Stormo C.B.. Trovavo piacevole, però, conversare con i veterani di guerra, tantissimi. Da questi ho colto dalla loro viva voce i fatti più salienti, emozionanti, finanche dolorosi, dei loro cinque anni di conflitto. Entro i 13 anni di servizio sono diventato Maresciallo anch’io ed è stato faticoso, un percorso lungo e con lo spettro ingombrante, e mai fugato, d’aver mancato l’Accademia e quindi di non essere stato Ufficiale. La maturità la presi a 32 anni, lo feci per accontentare i miei, in verità non l’avrei meritata e non mi servì a nulla. Quando tentai di fare gli esami da ufficiale scelsi il momento sbagliato, ma d’altronde non potevo non tentare per via del limite di età. La passione per la scrittura venne più tardi. Se l’avessi esercitata prima avrei avuto sicuramente altri risultati. Ma le cose seguono il proprio corso. Si potevano fare gli esami fino ai 35 anni. Si beneficiava di due anni per ogni figlio e di uno per la moglie. Io non avevo nessuna raccomandazione. Ho cominciato a scrivere nel 1970 e da lì mi sono fatto un nome. Se avessi potuto fare gli esami prima di quel periodo avrei avuto una vita militare più facile. Quali sono stati i tuoi primi scritti? Ho fatto una raccolta di novelle, pubblicate attraverso un “Concorso fregatura” nel 1955, in pratica una pubblicazione con contributo in denaro per la stampa, per creare in volume le mie dieci novelline. Così nacque il mio primo libricino, “Uomini ed Eroi”, che mi diede solo il “profumo” della carta stampata! Avevo un diario al Liceo, che ho poi distrutto, dove avevo raccolto tutta la mia vita, ma questo mi procurò qualche dispiacere perché lo lesse mia madre che si crucciò molto per quello che avevo passato a Caserta, delle mie difficoltà. In effetti a Caserta non passai un bel periodo. Tutto trascritto nel mio volumone! (1) Immagino che del contenuto del diario ti ricordi tutto quello che avevi scritto anche se lo hai distrutto. Hai mai pensato di riscriverlo? Certo, mi ricordo tutto, non ho riscritto ovviamente il diario ma ho riscritto la mia esperienza nel volume che ti ho accennato sulla mia autobiografia. Dicevo quindi che avevo scritto una serie di novelle che utilizzavo pubblicandole nel giornalino di classe. In italiano andavo molto bene, riuscivo a svolgere un tema, qualsiasi fosse il soggetto o l’oggetto, in 50-60 minuti, mentre in latino e greco zoppicavo, ma alla fine me la sono cavata lo stesso e, piano piano, mi sono appassionato ai libri di storia aeronautica. Ad un certo punto approdai ad una giornalino intitolato “La Sicurezza del Volo” al quale mi aveva introdotto un mio Colonnello che trattava degli eventi di pericolo successi nell’aeronautica, io li commentavo. Questo mio comandante, veneziano, che mi aveva molto in simpatia, fu il primo a presentarsi quando arrivammo da allievi – una sorta di lord britannico (oggi 89enne), con il “mustacchio”, ed i baffi arrotondati indietro – mi spronava nello scrivere. Lui mi prospettò di mandarmi a Roma da un suo amico Colonnello, Capo Ufficio Storico dello Stato Maggiore Aeronautica. E così fu. Mi preparai con una divisa impeccabile, “marescialletto a un binario solo” – a “prima botta”, come dicevamo in gergo – e mi recai da lui, un professore di lettere. Quando ci si presenta ad un Ufficiale, se non sei suo amico, o parigrado, peggio ancora se non ti conosce, ti tratta sempre da Sottufficiale, da sottordine. Al suo cospetto scattai sull’attenti alla marines e, nonostante avesse letto la lettera di presentazione del suo amico Colonnello, mi disse “Cosa? Lei vuole scrivere un libro sul suo reparto, sul 51° Stormo?” e io risposi “Sì, Colonnello” e lui “ Ma sa che per scrivere i libri dovrebbe leggersi un paio di volte i “Promessi sposi”?”. Io, in tutta risposta, gli disse che lo avevo letto non solo per motivi di studio ma anche per intimo gaudio. Ma lui non afferrò quali fossero le mie reali motivazioni, mi mise a fianco di un Generale che avrebbe poi preso la paternità del lavoro che mi accingevo a fare. Feci tutto senza un reale entusiasmo, ormai ero demotivato dalle circostanze. Era un Generale del Ruolo Servizi, quindi non pilota, in pensione e in cerca di lucro senza sapere che, con la scrittura, non ci si arricchisce. Così tu facevi le ricerche, era un lavoro comunque interessante. Sì ma lui alle fine voleva mettere il suo nome a firma del libro. Io mi opposi ma il libro usci con la loro imposizione. Un libercolo che io non ho mai considerato. Con questo primo approccio hai avuto però un contatto diretto con gli archivi. Certo, l’ho avuto sempre questo privilegio quando sono stato a Roma. Oggi ho tanto materiale accumulato e quindi “vivo di rendita” in questo senso. Comunque il libro “Il 51° Stormo” che annovero comunque nella mia bibliografia, è un libro che non mi ha soddisfatto. Con questo generale, Federico Tecchi, avemmo anche discussioni sull’armamento, argomento in cui ero ferrato e sul quale ci trovavamo – puntualmente – in disaccordo, addirittura disquisendo sulle unità di misure se millimetri o pollici, cose sostanzialmente che mi facevano capire che non ne sapeva nulla in fatto tecnico. Con gli anni mi sono ripreso la mia rivincita e ho pubblicato addirittura altri due libri sul 51° Stormo. Uno pubblicato nel 1975, l’altro edito nel 1998. Si guardano le pubblicazioni Come mai c’è stata l’esigenza di scrivere due libri sullo stesso Stormo? Il primo per riprendermi le mie soddisfazioni, il secondo motivato dal fatto che vi erano state delle evoluzioni tecniche-storiche nel reparto, oltre ad avere acquisito documenti più dettagliati dai miei amici inglesi. Infatti, avevo già scritto anche 4 libri con gli inglesi, due su Malta (dei diari di guerra) interessantissimi oggi introvabili. Pubblicazioni che hanno travalicato gli oceani. Uno anche sulla guerra nei Balcani (fronte albanese – tradotto di recente in lingua greca). Come mai questo rapporto con gli inglesi? Sarebbe stato più naturale scrivere con un tedesco piuttosto che con un inglese vista l’alleanza in tempo di guerra. In effetti, per ricostruire la storia in maniera completa, saremmo dovuti essere in quattro ma poi il tedesco, un reduce di guerra che contattammo, non partecipò attivamente. Si limitò a fornirci il materiale che elaborammo da noi. Queste edizioni tentavano sempre di fare una storia organica coinvolgendo le varie parti che partecipavano agli eventi bellici? Sì, ma la mia partecipazione fu casuale. L’italiano che avrebbe dovuto partecipare all’edizione dei libri su Malta, il Generale di Squadra Aerea Corrado Ricci, ebbe un lutto e non volle proseguire la sua carriera trasferendosi addirittura in Africa a fare il diacono. Così venne fatto il mio nome per reperire tutta la documentazione necessaria da parte italiana. Per comunicare vi scrivevate principalmente in inglese? Non proprio, nel senso che l’inglese lo conosco all’acqua di rose ma riuscivo a farmi capire ugualmente. In più occasioni, nella lingua, fui aiutato dal caro amico Nicola Pignato e dalla sua gentile Signora Maria. Con uno degli scrittori inglesi sono molto amico, ci siamo visti sia in Italia che in Inghilterra, ospiti nelle nostre rispettive dimore e s’era pensato anche di scrivere un altro libro insieme, “Fighter over the Desert” (Cacciatori sul Deserto). E’ un volume apparso già nel 1969, scritto con un tedesco, ma molto scarso per la parte italiana, quasi ignorata! Per farti avere un’idea di come funzionava il nostro lavoro: loro mi facevano una scaletta molto schematica, che non facevo fatica a capire – anche se era in inglese – così che mi bastava andare a Roma, trarre la parte italiana, confrontarla con quella inglese, fare le opportune comparazione, per i combattimenti (vittorie o sconfitte da ambo le parti) e andare avanti giorno per giorno, ora per ora, al minuto! Il lavoro è durato dieci anni. Si passano in rassegna una serie di foto di aerei Come nasce un’edizione di un libro così specifico sull’aeronautica? Come si convince un editore a pubblicare un libro che poi, si presume, debba avere un canale di vendita? Io non ho avuto mai problemi nel proporre i miei libri e mi è capitato solo una volta di auto produrmi un volume, “Quelli del Gatto Nero”, 2^Edizione sulla storia del 51° Stormo per via del vantaggio d’avere una stretta parentela con chi lo ha stampato. Che significato hanno i numeri sull’aereo? Nel caso dell’aereo riportato in questa foto il numero 51 si riferisce allo Stormo, mentre la cifra successiva rappresenta il numero progressivo dell’aereo. In ogni caso, dal dopo-guerra in poi il numero a sinistra si riferisce sempre allo Stormo. Con la Regia Aeronautica i numeri sulle fiancate di fusoliera, a una, due o tre cifre, riportavano il numero della Squadriglia. Un caso o due soltanto il Gruppo o lo Stormo. ST cosa vuol dire? Scuola Turbogetti! Hai mai pilotato un aereo? No, non era il mio compito. Questo è devoluto al pilota. In teoria, dopo tanti anni di aeronautica, potrei dire di conoscere tutte le manovre di comando, ma la mettiamo come soluzione “virtuale” Il pilota è pilota, lo specialista è specialista! Come si devono leggere questi numeri apposti sull’aereo? Parliamo di un aviogetto addestratore, biposto, doppio comando (Loockheed T-33A). Le tre cifre finali corrispondono agli ultimi tre numeri della matricola militare. Qui sono segnati il tipo di velivolo e la matricola militare. Sono numeri che stabilisce lo Stato Maggiore, perché ogni aeroplano ha la sua matricola militare, la sua Carta d’Identità. Come si vede in questa foto, riferendoci ad un monoposto RT-33A, per disimpegnare i tiri coordinati con la Marina o l’Esercito, gli aerei venivano colorati in maniera differente, con le superfici alari inferiori con fasce oblique, di nero e di giallo, per essere riconosciuti dal basso. C’erano due Squadriglie all’epoca, la 651^ e la 636^ che assolvevano questo servizio per le due differenti Ami, Esercito e Marina. Le unità maggiori eseguivano tiri asimmetrici, radarabili, sul Golfo di La Spezia, inquadrando un simulacro di “bomba volante”, in polistirolo, con dentro un nucleo metallico, “bomba” trainata da 5000 metri di filo armonico, mentre per le unità minori, così come per i reparti dell’Esercito, tiri a fuoco su manica liscia, in nylon, messa a “bandiera”, o tubolare, trainata sempre da uno dei due tipi d’aerei sopraccitati, aventi la sicurezza di ben 1500 metri di cavo in acciaio. Sostanzialmente eravate al servizio dell’Esercito e della Marina. Sì, in quelle occasioni era così. Le due accennate Squadriglie, una appunto ad Istrana (Treviso) e l’altra a Goia del Colle (Bari), assolvevano i tiri per le tre Armi, dividendosi i compiti in maniera equa: Centro-Nord per la 651^Squadriglia / Centro-Sud per la 636^, mentre i tiri a/a per l’Aeronautica, svolti presso la base d’appoggio di Decimomannu erano di comune pertinenza. Per l’Aeronautica il metodo di esercitazione era diverso: l’aereo traino-bersaglio si posizionava sulla testata di pista, arrestandosi al centro, perché lo Specialista addetto al C.A.T. agganciasse il cavo ad un trespolo costruito artigianalmente in sede di reparto. Il trespolo andava fissato al ventre dell’aereo sfruttando i “ganci jato”, utili per alcuni aerei militari per posizionare “barilotti” di propellente solido per aiutare il decollo di aerei appesantiti da carichi bellici. Il cavo di traino era molto più corto, appena 300 metri, per l’accennata sicurezza di entrare nel circuito di sparo con una ben prevista traiettoria, detta “curva di caccia”, un percorso un po’ sinuosale, che evitava di colpire il traino, anche se nei primi addestramenti qualche velivolo incassò dei colpi sui piani di coda e in fusoliera (vedasi F-51D del C.A.T. di Brindisi, anni 50!). Questa manica aveva la vaga forma di una lettera H con un cerchio nero al centro. Il bastone di ferro che la sorreggeva aveva uno scivolo in lamiera, per non farla rovinare durante la corsa d’involo sulla pista. Al bastone una robusta fettuccia di canapa, detta “stroppo”, con un ferro a triangolo che andava agganciato al trespolo del velivolo. Quando l’aeroplano prendeva il volo, e si faceva una rateo di salita veloce, per non fare impigliare la manica sulla rete di recinzione aeroportuale, una volta staccatasi dal suolo, un contrappeso poneva la manica di taglio, a bandiera. In quella posizione era pronta per essere il bersaglio per la “Vickers” dei tiratori di turno, 4 aerei per volta. Se una raffica di cannoncino prendeva il contrappeso, spezzandolo, raddrizzando la manica, i tiri non valevano. La manica “piatta” facilitava il tiratore! In quel caso i tiri erano reali e non simulati? Reali anche se con munizionamento da esercitazione, il “Dummy”. Dunque c’è un aereo che vola seguendo una rotta e altri aerei che si esercitano? Sì, come già detto ve ne erano quattro di aerei, seguiti da altri quattro, fino a permettere il tiro di 12 caccia-intercettori, ognuno dei quali con pallottole dalle ogive di diverso colore. Soprattutto a Decimomannu si facevano da 4 a 6 maniche nell’arco della giornata. Generalmente erano caccia intercettori. I nostri F-86K avevano 4 cannoncini a bordo. Potevamo caricare 528 cartucce (132 per cassetta d’acciaio inossidabile), cartucce da esercitazione, ma anche munizionamento da guerra, con pallottole esplosive, traccianti, perforanti, incendiarie…giammai, però, per i tiri a/a! Per le esercitazioni a/a ogni pilota aveva a bordo 50 colpi per cannone, con la possibilità di ottenere la qualifica di “Combat Readiness” infilando il 17% dei colpi sparati sulla manica, ma per ben due volte di seguito. Quanto era grande la manica e che forma aveva? Era rettangolare ed era di circa 3 metri di larghezza, 7 di lunghezza, ma pur essendo piuttosto grande, non tutti riuscivano a colpirla. Il volo però veniva guidato dal primo aeroplano, il numero 1, pilotato dall’istruttore di tiro. Anche l’istruttore faceva un preventivo corso per addestrarsi a questa entrata molto precisa, la più volte nominata “Curva di Caccia”. All’aereo numero 4, che nei primi voli non doveva sparare – perché appena arrivato al C.A.T. – gli si attivava solo la cinemitragliatrice, collimata con il tiro delle armi e con il “Piper”, il pirulino del radar. Dovendo fare due o tre voli senza sparare e, dal momento che erano tutti cannoni a percussione elettrica, gli staccavamo, per sicurezza, i cavetti. La manica si danneggiava con le perforazioni? Certamente. Più colpi, sparati dai più abili tiratori, potevano sfilacciarla. A volte poteva succedere che veniva anche persa, a quel punto l’esercitazione non aveva esito. Se la manica cadeva in mare era impossibile recuperarla, ma se finiva sul terreno i Carabinieri talvolta riuscivano a riportarla in aeroporto, magari dopo alcuni giorni. Quando eravamo al C.A.T. di Brindisi i colori a vernice erano piuttosto ridotti, ma a Decimomannu sfruttammo a dovere quelli a cera, con una gamma di tinte piuttosto ampia. Ciò favoriva l’utilizzo della stessa manica, per più piloti. Quando il traino rientrava si abbassava ai lati della pista e con una piccola leva meccanica sganciava la manica che veniva a cadere ai bordi del campo. A quel punto gli addetti del C.A.T. la caricavano su una campagnola, per trasportarla presso il Centro di Standardizzazione al Tiro, la si agganciava ad un muro pitturato di bianco e l’Ufficiale del C.S.T. eseguiva lo “Score”. Il punteggio, la conta dei colpi messi a segno che, come ripeto, dovevano essere pari al 17 per cento del totale dei colpi sparati. Quanto spazio in termini di territorio libero avevate a disposizione per essere in totale sicurezza? Si è già detto che con il C.A.T. di Brindisi avevamo un raggio di azione che partiva dal Golfo di Taranto a Punta Alice in Calabria. In Sardegna ampio spazio sulle coste occidentali dell’isola. Anche il naviglio delle Capitanerie di Porto garantiva una certa sicurezza, questa estesa anche durante le nostre collimazioni a fuoco puntate sul mare Adriatico (Brindisi), sfruttando una piazzola aeroportuale affacciata sopra una bella scogliera. Infatti, la Capitaneria della Città pugliese ci garantiva un cono di 10 miglia (troppi per cannoni dalla gittata teorica di 9000 metri). Quindi vi appropriavate di un ampio spazio di territorio “off limit”. Erano delle “appropriazioni limitate” nel tempo, anche se litigavamo spesso con i pescatori! Come avveniva la “collimazione”? Si parte con mettere l’aeroplano a bolla, a piombo, in equilibrio, come se fosse in volo ma semplicemente sollevandolo da terra su dei cavalletti. Davanti veniva posto un telone bersaglio che scorreva su dei binari. Le armi dovevano essere armonizzate in modo che potessero andare a sparare esattamente in un punto ben definito che veniva rappresentato dal telo bersaglio posto a mille piedi (308 metri). In quel punto i colpi dovevano convergere. Gli americani direbbero “harmonization”. A Brindisi, quindi, eravamo sul mare, sulla bella, citata scogliera. I 10 miglia (circa 25 chilometri) della Marina erano abbondantemente sufficienti, come già detto anche troppi, perché i colpi non arrivavano a quella distanza, si sarebbero fermati ai loro circa 9 chilometri. Dicevo che quando si sparava si disponeva di Avieri disposti uno in avanti, uno a destra e uno a sinistra, con in mano delle bandierine rosse. In questo telone era disegnato un bersaglio costituito da: un cerchio con una riga nera ai lati, per l’allineamento del velivolo; una croce per regolare la cinemitragliatrice dotata di una “camera” che filmava e che traguardavamo attraverso il dispositivo oculare. C’è però da fare una distinzione tra “collimazione a fuoco” e “collimazione ottica”. La “collimazione ottica” quest’ultima la si fa a mille pollici (25 metri), utilizzando cannocchiali a croce, inseriti nella camera di scoppio delle armi, per poi agire sui supporti per gli spostamenti laterali o in azimuth. Quando si rendeva necessaria la collimazione? Un mese prima dell’annuncio delle Campagne di Tiro, abitualmente durante l’arco dalla primavera agli inizi d’autunno e la si faceva su tutti gli aerei. Come si svolgeva lo studio dei risultati ottenuti in volo? La sera c’era la “Stima Film”. Ci si riuniva, piloti e specialisti – armieri, radaristi e fotografi – e si proiettavano le azioni fatte in volo commentandole. Il capo tiro, l’illustratore di tiro, correggeva la curva di caccia, l’entrata e il tiro in base ai filmati muti delle esercitazioni appena avvenute. Per tornare alla collimazione. L’Ordinanza Tecnica (Tecnical Ordinance per l’USAF) diceva che dovevamo mettere l’86 per cento dei colpi dentro il cerchio. In seguito, dopo pochi anni, riuscivamo a mettere il 100 per cento di colpi a segno. In sede di reparto usavamo il “parapalle” o “balipedio”, una galleria ripiena di sabbia a 1000 piedi dall’articolazione delle armi, dall’antenna Radar e dalla cinemitragliatrice. L’arma di bordo, come già detto, è supportata su piccole selle da regolare. La stessa ordinanza dice anche che, prima di sparare, bisogna traguardare la linea di tiro attraverso un cannocchiale. Noi tenevamo l’otturatore indietro, mettevamo il cannocchiale nella camera di scoppio e traguardavamo. Dal momento che le armi ci venivano fornite direttamente dalla ditta produttrice, questa operazione veniva eseguita per correggere l’eventuale sfasatura di fabbricazione. Quanto durava questa operazione? Un’ora, un’ora e mezza. Errori, incidenti ce ne sono mai stati durante i tiri a fuoco aria/aria? No, perché gli aerei dovevano rigorosamente seguire la scia dell’aereo numero uno, dell’Istruttore di tiro, per cui non c’era possibilità di errore. L’unico errore di cui ricordo fu il già citato F-51D del C.A.T. di Brindisi, ma fu colpito da un tiratore super-scelto, che pagò da bere all’intero Staff ! C’era gente che riusciva a qualificarsi in due o tre uscite e tornava subito a casa senza la necessità di doverlo ripetere. Creavate dei disagi alla navigazione? A volte mettevamo in difficoltà i pescatori brindisini che erano costretti a dover passare questa linea riservata alla collimazione per cui era una continua battaglia e un continuo sfottò da ambo le parti. A volte venivano spaventati dai nostri colpi che cominciavano gradualmente, da uno a tre, fino ad una scarica di una quarantina di colpi continua…il rafficone finale! Mi stavi dicendo che in altra occasione avevate una galleria piena di sabbia. Sì, anche a Decimomannu sparavamo sul “balipedio”, o “parapalle” che dir si voglia, ma vedi, le collimazioni fuori sede non erano del tutto previste, perché gli aerei li avevamo già collimati presso i nostri reparti, ma per colpa di qualche ”indeciso”, che imputava il suo insuccesso alla povera collimazione, gli Ufficiali Tecnici, tanto per accontentarli, ci facevano ripetere tali operazioni, risultate sempre del tutto inutili! I colpi entravano in questa specie di galleria piena di sabbia e si fermavano lì. C’era ovviamente sempre il telone sul binario scorrevole e un Aviere che segnava i colpi con la paletta rossa, o in mancanza di questo il più giovane Armiere dell’allegra Campagna di Tiro! I mille piedi (308 metri) era la distanza giusta che serviva all’aereo per poter eseguire i colpi e virare? Sì. Una rosa di tiro da mille piedi avrebbe, se portata a segno, potuto sbrindellare un aereo. Durante la guerra, l’Hurricane Mk.1, avendo 8 mitragliatrici, faceva due tipi di collimazione: “convergente” e “parallela”, mentre il IIb, con 12 bocche da fuoco, poteva estenderla a quella definita collimazione “diffusa”. Un esempio: quattro armi erano convergenti a 90 yards, quasi 90 metri, le altre due “collimate” parallelamente. Con la “diffusa” si potevano far convergere due o tre armi ad una distanza maggiore della prima, sfruttandone così due, quindi, una alla distanza di novanta yards e l’altra ai 120 yards + la parallela si aveva una rosa di tiro impressionante! Il calibro dei colpi era però più piccolo, 303 pollici, 7,62 mm. L’Hurricane IIc sfruttava addirittura la presenza di 4 cannoncini “Oerlikon”, due per ala, da 20 mm. Spaventosi anche questi! Come mai i colpi erano più piccoli? Per dare un minor peso nelle ali, a beneficio di un maggior numero di armi e di un’elevata celerità di tiro. La nostra aviazione era costretta a mettere le armi sul muso perché i nostri aerei avevano le ali fragili e non avrebbero retto il peso, né dei cannoni né tanto meno delle armi di piccolo-medio calibro, mentre loro, al contrario, le posizionavano proprio nelle ali! Oltre al peso il cannone provoca un forte rinculo, per cui figurarsi come potevano sopportare tali sollecitazioni i nostri primi caccia, salvo vederli – finalmente, ma troppo tardi – nei velivoli della cosiddetta “Serie 5” (MC.205 / FIAT G.55 / Reggiane RE 2005). I nostri aerei da caccia erano costretti ad avere due sole mitragliatrici da 12,7 mm sul muso e dovevano inoltre considerare il numero di giri delle eliche. C’era quindi un problema di sincronizzazione. Ogni aeroplano aveva una propria tabella riportata a fianco della carlinga. Una Breda Avio Modello SAFAT da 12,7 mm, ad esempio, poteva sparare entro i 1800-2500 giri del motore. Al di sopra o al di sotto di questi giri la sincronizzazione risultava sballata e si restava fuori dalla possibilità di poter sparare aumentando il rischio di auto abbattersi! Quindi le condizioni di fuoco non erano agevoli. Quando un motore veniva colpito, e perdeva colpi, andava cioè fuori sincrono, l’aviatore era impossibilitato a sparare perché avrebbe potuto colpire le eliche. È capitato che qualche pilota si è auto abbattuto. Con il Macchi 202, fino alla settima serie, le armi sono rimaste in caccia ed erano da 12,7 mm. Ogni arma pesava 28 chili, più il munizionamento, quindi si poteva arrivare ai 50 chili per ogni ala + le sollecitazioni di rinculo. Questi pesi e questi effetti non avrebbero garantito l’efficienza delle ali!. Dalla settima serie in poi il Macchi 202 ebbe poi due armi da 7,7 millimetri quasi alla radice dell’ala, di pochi millimetri fuori dal cerchio delle pale. Fino a che l’elica è stata bipala c’erano 180 gradi di campo per la sincronizzazione, mentre, quando fu cambiata in tripala, i settori di tiro si sono accorciati. Queste sono cose che noi abbiamo solo studiato teoricamente, perché quando ci siamo insediati nei reparti di volo non c’erano più questi tipi di aerei. Che differenza c’era tra un bipala, un tripala e un quadripala? Erano differenti le potenze. Un quadripala come mostra questa foto, aveva un motore potentissimo (parliamo del Republic F-47D “Thunderbolt”, in servizio nel 5° e nel 51°Stormo C.B. – l’aereo che trovai a Treviso S.Angelo!) ed aveva una potenza di 2430 cavalli. Lo avemmo come residuato di guerra, ma era spompato, ci avevano procurato molti morti. Possedeva un armamento di tutto rispetto: tre stazioni di carico per bombe G.P. (General Porpose da 250 o 500 libbre + otto mitragliatrici alari Browning Mk.2 da 0,50 di pollici, esattamente 12,7 mm.). Lo Spitfire Vc, quello che ci fustigò su Malta e sul fronte dell’Africa settentrionale, aveva due cannoncini Hispano Suiza “Avio” H.S. 804 da 20 mm e questo calibro ti posso assicurare che fa molto male. Mettere l’arma in “caccia” è sempre un vantaggio, perché rende il tiro più diretto, anche se oggi vi sono i sistemi elettronici che portano alla correzione dell’errore bersaglio, ma nei tempi pionieristici la punteria diretta offriva una linea ideale fra pilota, mirino, bersaglio. Infatti, la prima sincronizzazione fu ideata da un caporale austriaco e installata sul Fokker M5/K n.216, con arma in caccia, tipo Parabellum da 7,92 mm, durante la 1^G.M.. Quanto è spessa una carrozzeria di un aereo e con quale materiale è costruito? Lo spessore è di pochi millimetri di duro alluminio anche se le parti in corrispondenza dell’uscita dei gas di scarico erano di acciaio inossidabile. I velivoli da caccia della 2^G.M. avevano poche protezioni, salvo il “blindovetro”, questo per tutti gli aerei d’ogni epoca, soprattutto oggi e nel seggiolino, generalmente corazzato. Gli equipaggi dei bombers dell’USAAF portavano elmetti speciali in acciaio o addirittura dei “corpetti” corazzati. Anche alcuni equipaggi italiani indossavano il regolamentare elmetto in tinta grigio-azzurra, con fregio in nero. Un aeroplano si perfora in maniera facile quindi? Sì, certamente, con estrema facilità. Devi pensare che un proiettile di medio calibro può viaggiare alla velocità di circa 6000 km/h, puoi quindi immaginare quale forza di penetrazione possegga e se cio non bastasse vi sono le pallottole perforanti, con nucleo in acciaio ad alta tempera, che perforano anche delle corazzature! Questi che mi stai mostrando sono tutti aerei sui quali hai volato? In linea di massima sì. Ma sono aerei da trasporto, da collegamento ed anche degli addestratori, mai su caccia monoposto perché non sono stato un pilota. Invece, come mio ultimo aereo di reparto annovero il Lockheed F-104S “Starfighter”, il romantico Cacciatore di Stelle! Per molti di questi aerei, soprattutto su quelli in cui ho operato o volato (vedasi FIAT G.59/4B e Lockhed T-33A), ho dedicato delle monografie. Poi altri voli su T-6, C-45, C-119G & J, FIAT G.222, C-130 “Hercules” e vari tipi di elicotteri.

Foto sopra Lockheed F-104S “Starfighter” del 23° Gruppo C.I.O./5° Stormo a Rimini – Archivio N. Malizia

Foto sopra Lockheed F-104S “Starfighter” del 23° Gruppo C.I.O./5° Stormo a Rimini – Archivio N. Malizia Vediamo il volume “STARFIGHTERCOLOURS – Colori e Fantasie nei cieli italiani”, dedicato agli F-104 italiani Il cavallino rampante che vedo su questo aereo ha un riferimento alla Ferrari o non c’entra nulla? C’entra! Questa è una pagina dedicata agli “Special Colours” degli Starfighters. Come vedi in quest’altro aereo è riprodotta una strega con una frase bellissima, in latino “Melius esse quam videre”, meglio essere che sembrare. Alla strega gli si attribuisce bruttezza, quindi questa frase ricorda che è meglio essere che apparire. Questo aereo invece usa il simbolo del leone e riporta la frase latina “Unus Sed Leo” (Sono solo, ma sono un leone). È stato oltretutto il mio primo reparto al quale sono stato inizialmente assegnato: il 20°Gruppo C.B. del 51°Stormo Caccia, oggi inserito nel 4°Stormo di Grosseto. Gli “Special Colours” li preparano in occasione di eventi importanti, per commemorare, ad esempio, la nascita del reparto, il raggiungimento di un certo numero di ore di volo e quant’altro. Il Cavallino Rampante appartiene al 4°Stormo e fu applicato sugli aerei in ricordo di Francesco Baracca. Il riferimento alla Ferrari nasce dal fatto che, sua madre, si racconta, si avvicinò ad Enzo Ferrari, dopo aver perso suo figlio in guerra, e gli chiese se avesse avuto piacere a mettere un cavallino rampante sulle sue macchine. Il simbolo del cavallino era quindi quello di Francesco Baracca che aveva combattuto nella prima guerra mondiale, perché ricordava la sua provenienza da un reparto di cavalleria. Ma questa storia chi la racconta? È una leggenda? È una storia nota e a quanto sembra vera! Questo simbolo della piovra? Questo fa parte del mio ultimo reparto, il 23°Gruppo Caccia Intercettori, nato con la “Piovra” nel 1918. Adesso invece adotta il “Veltro” dantesco che simboleggia i cani da caccia appena sguinzagliati, tipica allegoria degli intercettori in decollo su allarme! La simbologia intorno all’aeronautica è molto vasta e caratterizzante. Sì, è una simbologia molto presente, specie per il mondo animale e astrale. La simbologia del “Veltro” che si vede in questa foto, sulle prese d’aria degli F-104S, era nata in Toscana e inizialmente il reparto aveva adottato una frase dantesca “Finchè veltro verrà” ma suonava male così ebbe poco seguito e venne sostituita con quella attuale, che recita “Come veltri Ch’uscisser di catena”. Questa frase è più aderente allo scopo di questo tipo di aerei, caccia intercettori. Il caccia intercettore, infatti, deve decollare in 5 minuti dal momento che suona l’allarme. Si chiama “Ready in Five”, pronti in 5 (minuti). Noi Armieri addestrati, prima che l’aereo possa decollare, dovevamo “armare i missili” perché i cannoni non li avevamo, bisognava farlo all’ingresso pista, perché al parcheggio questi sono “in sicura”. Noi riuscivamo ad essere pronti in 3,40 minuti. Normalmente, se il decollo non viene effettuato nei 5 minuti stabiliti, il volo non ha più valore, deve “abortire”. L’allarme viene dato dai centri Radar, qui in zona ne abbiamo alcuni, tanto in Friuli, in Emilia e nelle Marche e giù di lì! Montavamo d’allarme a turni alterni con altri reparti intercettori. Dovevamo rimanere tutti insieme, coppia di piloti e specialisti indispensabili, pranzare, cenare e dormire in apposite palazzinette, ottimamente allestite d’ogni comfort. Un servizio dalla durata di 24 ore, con rispettive 24 ore in riposo. Quanta vita ha un aereo? Migliaia di ore. Poi raggiunge il suo inesorabile “ LOF” (Limite Ore di Funzionamento), ma prima di raggiungere questo è sottoposto a ispezioni calendariali a vari livelli: presso il proprio reparto, 1°Livello; al GEV (Gruppo Efficienza Velivoli) 2°Livello, oggi detti C.M. (Centri di Manutenzione); IRAN = Inspection and Repair As Necessary, in sede di Ditta costruttrice. Che stai scrivendo adesso? Ho un mega lavoro in composizione, forse sarà l’ultimo. Per il modo in cui è stato impostato la si potrebbe definire enciclopedica. Sono diari di guerra, redatti giorno per giorno, come già fatto con altri libri scritti insieme agli inglesi. Mi mancano i giorni della settimana che sarebbero da completare. __________________________ (1) Nicola Malizia, Ho vestito in Azzurro (dal muro del suono al muro di gomma), Editrice Innocenti, Grosseto 2004

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