di Achille Omar Di Leonardo
“… sembra di stare in mezzo a un mare dove la mattina
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Roma 12 febbraio 2007
Si parla del libro del generale Messe…
È in contatto con altri reduci?
Sì, sono in contatto con Franco Martini che era stato fatto prigioniero nel campo di concentramento di Susdal.
Lui era della divisione Torino?
Sì. Martini apparteneva alla divisione Torino. Era stato fatto prigioniero e scrisse anche un libro sui 4 anni passati nei lager, un libro che ho prestato e non ho più riavuto indietro, purtroppo. Ma mentre l’attendevo stavo cercando qualcosa riguardante il tenente Aleandri che era il mio comandante di plotone.
Quindi lei è in contatto con reduci residenti a Roma?
Quelli che conoscevo io sono morti tutti. Quelli che sono ancora in vita credo non ne vogliono sentir parlare.
Stavo guardando questa edizione del libro di Messe che è del 1948, vede? Si sente ancora lo stantio tra le pagine. Ecco qui, leggo: “Forza approssimativa della colonna dei prigionieri alle ore 8,00 del 24 dicembre del 1942, circa diecimila uomini, in maggioranza italiani, appartenenti alle varie divisioni. Fucilazione di ufficiali tedeschi e di alcuni italiani. Percosse e sputi da parte dei vincitori sia agli ufficiali che ai soldati, rapina di oggetti personali. I nostri feriti, che non poterono abbandonare il campo di battaglia, furono stritolati dai carri armati russi oppure fucilati. Avendo al mio fianco il tenente colonnello Alfio Battaglia dell’81° fanteria…”
Lei lo conosce Battaglia?
Sì, ma è morto. “… il quale spossato non poteva continuare oltre la marcia, pregai un soldato di scorta per rifarlo risalire su un autocarro. Dissi in russo che si trattava di un colonnello, in risposta ebbi il calcio del fucile alla schiena, dopo qualche istante una raffica di automatico. Era notte, 22,30, e non vidi cadere il mio superiore però, da quel momento, nessuno ha saputo più nulla.” firmato, “sottotenente Giuseppe Aleandri”.
Aleandri è morto anche lui e si è fatto 4 anni di prigionia, era il mio comandante di plotone. Adesso è sepolto a fianco della tomba di mia sorella quindi, quando vado a fare visita alle sue spoglie, porto anche dei fiori a Giuseppe.
Vi siete frequentati durante gli anni?
Sì, certo. Ci si vedeva anche ai raduni.
I raduni li frequenta ancora?
Sì, beh… quando ci sono, ormai non se ne organizzano quasi più. Ne rimane soltanto il ricordo.
Quando parto con un’intervista sulle vicende della Russia mi interessa sempre analizzare la vita del soldato nel clima politico dell’epoca. Cosa succedeva quando si veniva chiamati a fare la guerra? Cosa succedeva intorno a lei intendo dire, intorno a voi. A volte ci sono state delle motivazioni che hanno spinto ad arruolarsi volontario, magari in virtù di un certo particolare clima politico.
In verità io sono partito di leva quindi non c’è stata nessuna motivazione che mi ha portato a partire volontario. Bisogna dire però che c’era un grande entusiasmo di fondo. Il fascismo aveva galvanizzato il popolo. I contrasti interni, le situazioni negative, non venivano fuori. Se ne sapeva poco, non c’era la libertà di stampa per cui le notizie non circolavano.
Come circolavano le notizie allora?
Quelle che si potevano acquisire dai giornali ma, per esempio, le notizie come i suicidi, o cose del genere, non venivano pubblicate. C’era comunque un senso di amor patrio molto forte e radicato. Io abitavo qui a Roma, nel quartiere San Lorenzo e ogni tanto capitava che, coloro i quali non aderivano alle disposizioni del regime, venissero… come dire… “crocchiati” (malmenati) un po’. Ma erano episodi minimi, cose che succedevano. A volte c’era il solito strafottente, il “gerarchetto” da parte fascista che faceva più di quello che avrebbe potuto fare. Ma dipendeva dai soggetti.
Abitando in un agglomerato di ferrovieri si trovava di tutto. Per esempio, mio padre era socialista e mi mandava all’opera balilla perché, a San Lorenzo, dove c’è attualmente la caserma della pubblica sicurezza, attaccata quasi alla città universitaria, c’era la casa del balilla. Tant’è vero che il giorno dell’Immacolata (nel 1932, ’33 e ’34 frequentavo sia la casa del balilla sia la parrocchia di San Lorenzo) capitò che venne l’Onorevole Ricci, che comandava a qui tempi l’opera balilla, e ci portò a casa di Mussolini a villa Torlonia.
E lo avete incontrato?
Certo. Siamo stati insieme a vedere i film di topolino.
Lei quanti anni aveva?
Avevo 12 anni.
Quindi questa esperienza l’ha anche segnata un po’? Incontrare Mussolini, incontrare cioè il “Duce” può aver avuto una certa influenza sulla sua formazione.
Mah, in effetti, il “Duce” era osannato ovunque quindi un certo segno lo ha lasciato.
Se andiamo a stringere, se si fa cioè un parametro tra la situazione del 1919, ’20, ’21 (a parte gli eccessi) e la situazione della storia recente c’è stato, e tutt’ora c’è – se guardiamo a quello che succede oggigiorno leggendo sui giornali – un ciclico ripetersi di certe situazioni. Anche se non si possono paragonare perché si tratta di situazioni diverse da quelle del passato che stiamo analizzando. Voglio dire che, ciclicamente, la gente sente l’esigenza del comando di un’unica figura, di “un” punto di riferimento.
Cioè lei sta dicendo che in un momento in cui si creano delle contrapposizioni e dei contrasti duri tra parti contrapposte l’esigenza generale è quella di un riordino attraverso la presa di posizione di un unico punto di riferimento al comando di un paese?
Se andiamo ad analizzare la storia, per esempio di Hitler, possiamo constatare come lui sia stato eletto democraticamente dal popolo e non si è imposto come ha fatto Mussolini. Poi è successo quello che è successo, ma questa è un’altra cosa. Non è che con questo mio dire voglia sentire una nostalgia per il passato, questo no. Anche perché la guerra poi è stata quella che è stata.
La mia domanda comunque era mirata a sapere quali sono state le motivazioni con le quali si cresceva e si andava a combattere e non mi aspetto che da questo esca fuori il proprio credo politico.
Bisogna dire che comunque non c’erano alternative. Le scelte erano fondamentalmente due: o si andava in parrocchia o si diventava dei balilla. Oppure si assisteva a un travaso: la mattina era dedicata da una parte e il pomeriggio dall’altra. Che era poi quello che succedeva a San Lorenzo dove abitavo. Però, come ripeto, facendo un parametro tra la vita di oggi e la vita di allora… prima camminavamo con le toppe al sedere mentre oggi è cambiato un po’ tutto.
Alla luce dei fatti che ha raccontato, questo clima così “indirizzato” ha in qualche modo contribuito a fidarsi di quello che stava succedendo o che sarebbe successo di lì a poco?
Mah no! Prima c’era il caos, poi è venuto l’ordine.
Quindi era un processo positivo dal suo punto di vista.
É logico. Non è che fossimo ubriacati dal fascismo.
Cioè vedevate che quella situazione vi portava a un miglioramento?
Certo, d’altra parte… Quando una quindicina, una ventina di anni fa, fu organizzata la mostra al Colosseo sull’industria del periodo fascista, sentivo i commenti delle persone vicine stupirsi e commentare quello che era in mostra dicendo “ma come, a quei tempi c’era questo, a quei tempi c’era quest’altro?”. Se pensa ai treni, oggi come oggi, siamo lì: gli orari di allora, sono gli orari di oggi. Dei sindacati ce n’era uno solo e funzionava, adesso invece a seconda di dove tu vai cambiano le cose. Gli ospedali funzionavano e non c’erano questi scandali perché sapevano che c’erano certe posizioni, c’era la certezza della pena, a parte quelli che erano condannati per antifascismo. Se poi vogliamo fare dell’ironia nel rileggere la storia, stavano meglio quelli che stavano dentro piuttosto di quelli che stavano fuori.
Noi italiani siamo ancora rimasti alla “guerra tra i guelfi e i ghibellini”, questa è la nostra mentalità. Io sono stato in Germania ma nessuno parla di Hitler, la Germania è stata messa in condizione di ripartire. Io ero prigioniero degli inglesi, Cercil aveva vinto la guerra ma quando hanno fatto le elezioni gli inglesi se lo sono tolto dalle scatole. Mentre noi abbiamo il perpetuarsi delle “storie”.
Ma forse perché certe cose non sono state risolte, non sono state chiarite affondo.
Non le hanno volute chiarire. C’è un fatto: quando uno prende il posto di un altro, anche in un ufficio, c’è sempre la tendenza a dire che quello prima di te era un buon a nulla, non ha fatto quello che io avrei fatto. Quando io presi la direzione dell’azienda delle cooperative, a Cerveteri, si aspettavano tutti che io sparassi a zero sul mio predecessore. Io invece difesi quello che era stato da me sostituito. Perché bisogna avere la coscienza di riconoscere anche nell’avversario quello che ha fatto di buono e quello che ha fatto di male. D’altra parte certi risultati non nascono dall’oggi al domani. Le cose che succedono qui da noi non mi pare succedano nelle altre democrazie. Sostanzialmente quello che voglio dire è che il fascismo è stato un periodo, che ormai è finito. Ma l’Italia, oggi come oggi, ha usufruito delle iniziative buone che il fascismo ha fatto, la guerra è stato lo sbaglio più grosso, non dovevamo assolutamente farla.
Tornando quindi al discorso iniziale, come apprendeste l’annuncio della guerra? Cominciava a serpeggiare nell’aria una partecipazione al conflitto in atto?
È evidente, lei pensa che un domani non possa succedere ancora? Magari nei Balcani? La Russia sta riarmando l’orso. Ecco!
Ma fermandoci a quel periodo storico come apprendeste quell’annuncio?
Noi eravamo sotto le armi quindi abbiamo semplicemente obbedito agli ordini di “sua maestà”.
Quello che mi interessa sapere però è il punto di vista di un ragazzo di quell’epoca. Se oggi dovesse succedere ancora non credo che i giovani si tirerebbero indietro di fronte a un pericolo reale. Quello che vorrei indagare però è se c’era la paura tra i giovani.
Il ragazzo del 1940, non è che la prendesse con entusiasmo, ma era cresciuto con un altro spirito per cui era un processo quasi naturale. Quelli che avevano già combattuto la guerra, in Abissinia e in Spagna, avevano un’esatta visione di quello che poteva essere la guerra. Praticamente non la accettavano intimamente. Tant’è vero che quando andai a salutare mio zio allo scalo merci gli dissi “sai zio, non faremo in tempo ad arrivare a Vienna che la guerra sarà già finita”. Per capire questo bisognava leggere quello che si scriveva sui giornali, delle avanzate strepitose in Russia da parte di tedeschi: seimila apparecchi bruciati al suolo; 140-150 divisioni schierate all’attacco. Noi pensavamo che non ci fossero dubbi sulla risoluzione a breve termine. Purtroppo gli uomini non fanno mai tesoro degli errori altrui. Se Hitler avesse letto la campagna in Russia di Napoleone ci avrebbe pensato due volte. Quando noi ci siamo ritrovati in Russia, avevamo davanti un territorio così esteso che sembra di stare in mezzo a un mare dove la mattina si vede sorgere il sole e al sera lo si vede tramontare.
Quando apprende che sarebbe partito per la Russia?
Io personalmente fui chiamato l’8 gennaio del 1941, sotto le armi. Mi presentai al reggimento, all’81° reggimento fanteria, che era a Via Legnano, l’attuale via del generale Dalla Chiesa, dove fui inquadrato come giovane fante. Tre mesi dopo, a marzo, il reggimento partì per la Jugoslavia mentre noi giovani fanti non partimmo e rimanemmo in Italia.
Cosa facevate qui?
Facevamo addestramento, i giovani facevano quello: tiri, marce ecc. Ritornato il reggimento, nei primi di giugno del 1941, il 21 dello stesso mese, Hitler dichiarò guerra alla Russia (in verità Hitler invase semplicemente la Russia ndr.). “Radio fante”, un modo di dire per definire le notizie che provenivano dal comando di reggimento e che venivano propagate dalla truppa…
“Radio fante” come “radio scarpa”.
Sì certo, è lo stesso. Dicevo, da “radio fante” era partita la notizia che appunto, si diceva, saremmo partiti per la Russia. Il 5 luglio del 1941 quindi, ai Parioli (al quartiere Parioli di Roma), all’altezza più o meno del Villaggio Olimpico, fummo “passati in rivista” da Mussolini noi fanti dell’81°, dell’82° e del 52°. Su questo episodio fecero anche una registrazione che ogni tanto mandano in onda. Nel suo discorso, Mussolini, ci disse che avremmo avuto l’alto onore di partecipare, di combattere eccetera, eccetera. Le solite parole di retorica. Mussolini era accompagnato da Von Rintlen, addetto militare tedesco in Italia, e dal solito codazzo.
Eravate tutti reggimenti della divisione Torino?
Sì, l’81°, l’82° e il 52°. Erano reggimenti inquadrati nella divisione di fanteria Torino facente parte del Csir, Corpo di Spedizione Italiano in Russia, composto dalla Pasubio, dalla Torino e dalla Celere.
La rivista avveniva a scaglioni separati?
Mussolini era già stato nel nord Italia, mi pare a Brescia, e aveva passato in rivista la Pasubio e la Celere.
In quei momenti la paura della guerra la sentiva?
No, no.
Immagino che i timori che si avvertivano quando si era soli, in verità, quando si era in gruppo, potevano essere condivisi e, in un certo senso, anche superati. È stato così per lei?
No, aspetti un momento.
Si assenta e poi ritorna con una foto…
Questo è lei?
Sì, una foto con con papà, prima di partire. Le leggo questo passo dal mio diario: “Arrivò la domenica del 22 giugno e mentre papà si preparava per uscire sentimmo per radio la dichiarazione di guerra da parte della Germani e dell’Italia. Ci guardammo perplessi con mio padre pensando…”.
Da quello che si legge dalla storia però, Hitler non ha dichiarato guerra alla Russia l’ha semplicemente invasa.
No, ci sono stati scambi di dichiarazioni. “… a quello che sarebbe successo in un prossimo futuro. Intanto la vita della caserma andava avanti, “radio fante” cominciava a farsi sentire circa un nostro intervento. La conferma ufficiale venne verso il 10 luglio quando tutta la divisione Torino, composta dall’81° reggimento fanteria, dall’82° e 52° artiglieria, fu passata in rivista al campo Parioli dove adesso c’è il villaggio olimpico. Ci disse (Mussolini) che avremmo avuto l’alto onore di andare in Russia per rinverdire gli allori delle nostre bandiere. Quella volta il “soldo” per il soldato fu passato, per quella giornata, da una lira a cinque lire. Intanto i bollettini che provenivano dal fronte…”
Cosa si comprava con 5 lire?
Con 2 lire (circa 13 euro di oggi ndr.) a quei tempi si acquistava un fiasco di vino, con 15 centesimi (circa un euro di oggi ndr.) si prendeva il tram. Si campava in qualche modo, era una bella sommetta per la giornata. Il cinema per esempio: al Supercinema erano 3, 4 lire (tra i 20 e i 25 euro ndr.), al Teatro Italia, qui dietro, si pagava 50 centesimi (circa 3,30 euro ndr.) e vedevo due film. Un paio di scarpe 15-16 lire (105 euro circa ndr.), un vestito 60, 70 lire (tra i 400 e i 500 euro ndr.). “… la sera del 16 andai a salutare gli zii allo scalo San Lorenzo, mio zio mi disse che la guerra era una cosa seria. Lui ricordava la prima guerra. […] La vita nel treno scorreva, chi leggeva, chi, come me, stava al finestrino osservando la compagna, mentre un pensiero mi tormentava. Michele, mio cugino, era in Grecia mentre Amerigo era in Nord Africa. Gli zii furono tanto cari con me così come pure le cugine Maria Rosa e Wanda. Lasciai la casa fischiettando la marcia del reggimento, salutando gli inquilini della scala 11 che mi avevano conosciuto fin da bambino”.
Si evince quindi una buona serenità, in quel fischiettio si portava dietro l’Italia.
Beh, avevo 19 anni. “… il giorno del 17 luglio, alle ore 16,00, dopo l’omaggio al monumento dei caduti nei pressi del cortile della caserma, … ” Credo di essere stato l’unico a volere una targa che ricordasse la partenza del mio reggimento in quei posti. “… dopo gli onori alla bandiera che saliva in treno prendemmo il posto nel nostro vagone…”
In quale stazione di Roma avviene tutto questo?
A Roma Ostiense. “… ci fermammo alla stazione Tiburtina dove c’era il raduno per salutare i partenti. Mamma era rimasta a casa. La scena fu molto commovente, Elena piangeva molto mentre papà mi strinse al suo cuore dicendomi “che il Signore ti accompagni e i santi martiri ti proteggano: Nicandro Marciano e Daria.”. Papà era molto devoto, come lo sono io, ai santi di Venafro (cittadina nel Molise), a sud di Cassino. “…Diverse sere prima della partenza per il fronte Russo, papà mi donò una bottiglietta contenente la santa manna (liquido che scaturisce dalla tomba dei santi martiri venafrani in casi eccezionali) e un pezzettino di pietra della tomba, affinché la portassi in guerra. La bottiglietta la misi nel taschino sinistro della giacca militare mentre la scheggia di roccia […]” l’ho ancora nel portafoglio! “… il macchinista del treno fece fischiare il locomotore per tre volte, il treno si mosse lentamente e, piano piano, scomparvero i volti delle care persone che mi avevano accompagnato. Nel vagone, per un certo momento, ci fu silenzio, poi la vita della compagnia riprese il solito tram tram. Ci fermammo a Bologna …” ecc. ecc.
Ci sono stati degli attimi di tristezza?
“… ai confini del Brennero ci fu un momento di commozione quando lasciammo il caro suolo della patria…”, ecco, e poi “… Ero sempre con il pensiero rivolto al momento della partenza dalla stazione Tiburtina e mi rivedo, istante per istante, il caro zio Temistocle che, come capo del personale viaggiante della stazione, era molto indaffarato. Venne a salutarmi, baciandomi con i suoi baffi alla Stalin…” Era un socialista lui “… li sentivo irti come spazzolini sulla pelle del mio viso. In Ungheria i capi stazione, impettiti, salutavano sull’attenti. […] Intanto in direzione contraria incontrammo un treno ospedale tedesco pieno di feriti che giungevano dalla Moldavia. Quello fu il primo shock che provammo e l’entusiasmo cominciò a calare.”
Fino ad allora aleggiava un certo entusiasmo.
Noi dicevamo che non avemmo fatto in tempo a partire che la guerra sarebbe già finita. Daltronde se si ritorna indietro ai tempi, la Germania aveva piegato la Francia, aveva quasi “sderenato” l’Inghilterra con Duncherque. Poi, passando al fronte orientale, in una settimana era successo quello che era successo con 2000-3000 carri armati. Daltronde ci sono le fotografie che lo dimostrano: io con la mia divisione abbiamo fatto 2450 chilometri a piedi dalle falde dei Carpazi fino al Don, i camion li abbiamo presi nel mese di agosto a Uman ma si trattava di pochissimi chilometri, 5 o 6 chilometri per raggiungere Mussolini e Hitler che erano venuti in visita e ci stavano aspettando, di lì a poco ci avrebbero passato in rivista.
Nel libro di Messe, La guerra al fronte Russo, è riportato questo episodio, a dire il vero anche un po’ curioso: Mussolini e Hitler erano arrivati per omaggiare tutto il Csir ma, dal momento che le divisioni Pasubio e Celere erano ormai in posizione piuttosto avanzata, fu deciso dai comandi di raccogliere, come rappresentanti del corpo d’armata italiano, i soldati della Torino che, appiedati, si trovavano nei pressi e quindi facilmente autotrasportati per raggiungere in fretta il luogo in cui si sarebbe svolta la “sfilata”. In quella occasione quindi c’era anche lei?
Sì, appena i capi se ne andarono ci portarono ai posti di partenza, nel luogo in cui eravamo stati prelevati. Zaino in spalla e ricominciammo la marcia a piedi. A proposito del marciare e dell’essere trasportati, in verità i tedeschi non riuscivano a capire cosa volesse dire esattamente essere “autotrasportati”.
Torniamo un attimo indietro. Voi passate il Brennero, poi cosa succede?
Arriviamo a Borsa, in Romania, e oltrepassiamo i Carpazi. Con i camion facemmo circa 230 chilometri attraversando il passo, se non erro era del Pripet.
Si cerca un riferimento sulla mappa, una copia di quella stampata dallo Sme
Vede? La Torino è partita da Roma e arrivammo a Borsa dopo 2375 chilometri di tradotta. Raggiungemmo poi Felticeni e da lì, a piedi, ci dirigemmo verso Suceava e Botosani.
Dicevamo che il vostro morale si era incrinato in occasione dell’incrocio del vostro treno con la tradotta-ospedale tedesca. Ma poi ricomincia la vita di sempre sul treno. Puoi spiegarmi, in maniera molto pratica, come eravate sistemati?
Eravamo sui sedili di terza classe, quelli in legno.
Non tutti raccontano di una sistemazione così confortevole.
I carri bestiame non li avevano quando siamo partiti, li adoperammo quando ritornammo, su quelli c’erano dei pagliericci, ma si immagini cosa poteva essere il ritorno sistemati in quel modo.
Quindi all’andata eravate sistemati decentemente.
Beh, era come se dovessimo andare da Roma a Parigi in treno. All’andata, era in agosto, non avevamo la stufa ma al ritorno eravamo forniti anche di quelle. Arrivati a Felticeni la divisione si organizzò e iniziò la marcia verso il fronte. Eravamo undicimila soldati, ovviamente dislocati nei vari paesini. A Botosani fummo passati in rivista dal generale Messe, che sostituì il generale Zingales a Vienna. Lì, fece rapporto agli ufficiali e ci disse che, purtroppo, la guerra in Russia non era quella che si leggeva nei giornali. Persino Hitler scrisse a Mussolini dicendo che non si aspettava una resistenza così tenace. L’enorme susseguirsi dei carri armati, che i tedeschi puntualmente abbattevano, carri armati di 52 tonnellate con una corazza di sette centimetri, mettevano in difficoltà le artiglierie dell’asse. Il famoso cannone 88 tedesco per esempio, che serviva da controcarro, riusciva a malapena ad arrestarlo, ci si può immaginare le difficoltà della nostra artiglieria che aveva dei pezzi risalenti alla prima guerra mondiale.
Quali cannoni avevate in dotazione?
Mi pare il 75/27, mentre il corpo d’armata aveva i 149 a canna lunga e, inoltre, avevano già distribuito i nuovi cannoni di artiglieria (in dotazione all’Armir), ma io non sono un esperto di artiglieria. Comunque al nostro arrivo capimmo che non sarebbe stata una cosa allegra, i russi si battevano strenuamente.
D’altronde avevate invaso il loro territorio.
Della Russia, in verità, si sapeva dei malcontenti interni e si sperava in una rivoluzione che, in verità, non c’è stata. In Ucraina, per esempio, venimmo accolti come dei liberatori. Ma questo forse dipendeva dal fatto che il comportamento degli italiani, in quei posti, nei confronti della popolazione civile, è stato sempre molto umanitario.
Ma questo essere benevoli verso la popolazione era impartito ai soldati italiani dai comandi o era un comportamento che nasceva spontaneamente dai singoli soldati?
I comandi venivano anche dall’alto, ci veniva detto di trattare umanamente la popolazione, anche perché le notizie che trapelavano erano che i tedeschi li trattassero in maniera rude. Questo ci indispettiva un po’. Questa situazione portò, in seguito, la popolazione ucraina ad appoggiare il movimento dei partigiani contro i tedeschi. I tedeschi avevano trattato la popolazione in maniera arrogante, ci furono situazioni molto tragiche che portò quella popolazione a pensare che tra i due mali sarebbe stato meglio tenersi quello di casa propria, cioè quello russo.
I primi combattimenti quando sono avvenuti?
Li avemmo sul Dnieper, presso Dniepropetrowsky, divisa in due da questo fiume che aveva ormai straripato a causa della mano dei russi che avevano fatto saltare le dighe di Kremencium. Il fiume, in quelle zone, era largo quasi un chilometro e mezzo. Noi che eravamo abituati ai settecento metri massimi del Po’ e al Tevere (per noi che eravamo di Roma) ci sembrò un fiume infinito. Quello che ci impressionò fu che, non ricordo se fosse il 23 o il 24 settembre 1941, i nostri ufficiali, attraverso i cannocchiali, videro che vi erano dei carri armati al di là del fiume che sostavano sulla riva opposta del Dnieper. Inizialmente pensarono a un sabotaggio, avendo visto che i carri entravano nell’acqua, ma quelli arrivarono in mezzo al fiume e cominciarono a sparare verso le nostre postazioni, erano in verità carri armati anfibi che poi riuscirono fuori e si allontanarono. Ogni tanto ci si presentavano novità di questo genere. La cavalleria cosacca, per esempio, aveva le maschere antigas per i cavalli.
Voi avevate armi di quel genere?
Noi soldati avevamo la nostra maschera ma non eravamo forniti di armi di quel genere. Anche l’armamento era diverso da quello russo, il nostro era il fucile modello ’91, quando ti feriva ti faceva un buchetto piccolo. Loro quando sparavano il buco che restava era certamente più grande, erano anche abbastanza esplosivi. I loro fucili erano a tiro rapido, quando terminava la scarica faceva “tram, tram, boom”. Avevano i fucile Tomphson inglesi che vedevamo nei film americani di con James Cagney.
Quindi il confronto era impari.
Nel modo più assoluto. Quando noi camminavamo venivamo avvolti da nubi di polvere alzata dai mezzi che portavano i loro rifornimenti per il fronte che era lontanissimo, questo dimostra la quantità di mezzi in movimento..
Eravamo rimasti a Dniepropetrowsky.
Da Dniepropetrowsky noi dovevamo recarci a dare il cambio alla “divisione SS Viking” tedesca. I tedeschi avevano una testa di ponte sull’altra parte del fiume intorno alla quale c’erano un centinaio di batterie russe di artiglieria. A Dniepropetrowsky pare ci fosse, anche se io non ho potuto constatarlo direttamente, la scuola di artiglieria russa. Quindi in effetti ogni angolo della strada poteva essere coperto dalle loro artiglierie. La sostituzione della SS Viking, da parte delle nostre divisioni, doveva servire ad abbattere queste postazioni di artiglieria che avevano decimato la divisione tedesca che, tra morti e feriti, aveva perso circa diecimila soldati. Noi della Pasubio, della Torino e della Celere facemmo questa azione e catturammo circa diecimila soldati russi. Quella fu una battaglia molto cruenta. In quella circostanza venni mandato a sistemare un filo telefonico ma, dal momento che ero uno che si dava sempre da fare, il tenente Aleandri pensò bene di tenermi con lui. Al mio posto andò un altro ufficiale che però morì proprio in quella circostanza. Da lì marciammo verso Stalino, sempre a piedi. Quello fu un periodo molto tragico perché cominciavano le piogge e non è che noi camminassimo su strade asfaltate, anche le piste battute, con la pioggia, non esistevano più. Il fango che si attaccava agli scarponi diventava un peso insopportabile, considerando che bisognava tirarsi dietro anche lo zaino e il fucile. Le fasce sui pantaloni si scioglievano e ci costringevano a lasciare lo zaino per risistemarle e ricominciare la marcia.
Il 28 ottobre 1941 arrivammo a Stalino. Intanto cominciava il freddo e i primi campi minati. I russi distruggevano tutto. I pozzi erano avvelenati: ci trovavamo dentro gli animali per cui non potevamo attingere acqua. I rifornimenti per bere ci arrivavano da due, trecento chilometri di distanza, stiamo parlando di una borraccia d’acqua, non di abbondante rifornimento. Non tutti i pozzi erano avvelenati ma era comunque un ulteriore impedimento ad un’avanzata non certo agevole. Lungo la strada c’erano tanti trabocchetti: mine, inserite persino in bottiglie alle quali davi un calcio per spostarle e scoppiavano. È stata dura! Dura, dura, dura… Poi arrivò il freddo, verso novembre 1941. A 20, 25, 30 gradi sotto zero ricominciarono i duri combattimenti: Nowo Orlowka, Gorlowka, Rikowo. Riuscimmo sempre a fronteggiare i russi e a ricacciarli indietro.
Avevate l’impressione che loro indietreggiassero strategicamente o voi eravate talmente abili e talmente forti da costringerli alla ritirata così costantemente?
No, loro hanno adottato la tecnica della campagna napoleonica. Il loro scopo era quello di allontanarci dalla basi di partenza. Era una guerra fatta a sacche non una guerra come ce la saremmo potuti immaginare noi soldati. Loro facevano una guerra mobile la siuazione era generalmente questa: se c’era una divisione, loro, con le truppe corazzate, la circondavano e la distruggevano. Chi riusciva a scappare veniva finito dalle fanterie che mano mano avanzavano concentricamente per rastrellare queste sacche. Sul Don invece adottavano un’altra tecnica: quando si facevano le pattuglie per ricacciare i russi dall’altra parte del fiume, l’artiglieria ci sparava alle spalle perché sapeva che, a quel punto, avremmo dovuto ritornare nelle nostre posizioni. Arrivati a Rikowo svernammo fino a luglio del 1942.
Un periodo di sei mesi circa che possiamo considerare di “riposo”?
Sì, chiamiamolo riposo. Rispetto a quello che avevamo affrontato prima poteva considerarsi riposo ma in realtà, di tanto in tanto, c’erano degli scontri di pattuglia. Meno 40 gradi di freddo, o 5 giorni ininterrotti di neve colpiva noi come pure loro quindi, se eravamo fermi noi lo erano anche loro. A riguardo del freddo la popolazione civile, che era alle nostre spalle, ci diceva che saremmo morti tutti di freddo. Invece noi resistemmo e andammo avanti. Il 29 luglio del 1942, cominciò la seconda offensiva.
Intanto dall’Italia arrivavano dei rinforzi. Voi avevate contatto con questi nuovi complementi?
Sì, ma quelli venivano in sostituzione dei morti e dei feriti o dei congelati. Ed era gente giovane che aveva già perso quell’entusiasmo con il quale eravamo partiti noi. Ormai la guerra aveva preso un’altra piega rispetto alle aspettative iniziali. Io un giorno dissi a uno di questi, con molto garbo: “beh, beati voi ve ne venite dall’Italia…”. Lui si scoprì gli indumenti e mi mostrò una cicatrice e mi disse “vedì?, Io ho già fatto l’Albania e adesso sono qui”. A quel punto ci abbracciammo in maniera commossa e pensammo “pazienza!”. C’era anche chi, pur essendo vecchio per fare la guerra, veniva al fronte per non stare in prigione. Ma lui era talmente anziano che lo tenevamo da parte.
Com’erano i rapporti con la popolazione?
Ottimi!
Dormivate spesso nelle case dei residenti?
Sì, nell’avanzata sì. Noi eravamo accolti con molta ospitalità “Italiansky karasciò” (gli italiani sono bravi ndr.) dicevano. Come dicono gli inglesi, tra gli italiani e la popolazione russa c’era un certo “feeling” un sentimento che nasceva spontaneamente. C’erano persino soldati che mietevano il grano insieme alla popolazione locale.
Perché non c’era diffidenza tra voi e loro?
Perché c’eravamo guadagnati sul campo la loro fiducia. Persino i partigiani ci lasciavano stare.
Ne avevate incontrati di partigiani?
Sì, addirittura ci aiutavano. Mi capitò il 6 gennaio 1942. Quel giorno mi incaricarono, con l’aiuto di un ucraino, di andare a prendere le slitte per i feriti. Lo starosta, il podestà, gli aveva detto di accompagnarmi. Camminammo a lungo, io tentai di parlargli ma ero un po’ sospettoso per via della faccia burbera che aveva. Ero dubbioso per il fatto che non mi rispondeva e pensavo fosse un furbo. Invece era una persona tranquillissima e buona. Nel tragitto gli avevo detto che mi ero rotto le scatole della guerra, che non ne potevo più. Lui, da ucraino, ce l’aveva con Stalin: essendo ucraino non sopportava la dominazione russa. Cercai di accorciare le distanze condividendo l’avversione per le rispettive dittature. A un certo punto, entrammo in un capannone dove c’erano una quarantina di uomini. È possibile che fossero dei partigiani, anche se erano persone anziane, in linea di massima. Il mio accompagnatore comunicò con loro e, uscendo fuori dall’edificio, ci diedero le slitte.
Dicevamo che eravate rimasti fermi a Rikowo per un po’ di mesi.
Rimanemmo a Rikowo da novembre del ’41 a quasi tutto luglio del ’42. Io ero stato distaccato dalla compagnia e mi occupavo della segnalazione dei morti. Fui aggregato al comando di reggimento ed ero l’addetto alle segnalazioni da inviare al Ministero delle Guerra per riferire dei caudti. In più, avevo la gestione del cimitero di Rikowo. Questo comportava che, quando i soldati mi vedevano, facevano gesti scaramantici. Spesse volte andavo al cimitero per controllare il numero della tomba.
Aveva questo ruolo organizzativo per il fatto che aveva studiato?
Io ero caporale. In verità non avevo conseguito il diploma ma loro sapevano che avevo studiato. Avevo fatto 4 anni di ragioneria ma non avevo completato gli studi. Modestamente avevo fatto il mio dovere.
Tutta la documentazione riguardante i morti la custodiva lei o veniva inviata ad altri uffici che se ne occupavano?
Eravamo in un ufficio con il tenente Cardarello che inviava ufficialmente la comunicazione agli uffici di competenza per la comunicazione ai parenti.
Quando avete lasciato Rikowo questa documentazione che fine ha fatto?
Ritengo che sia stata spedita agli organi di competenza.
Il comando era sempre in retroguardia?
A un chilometro dalla linea del fronte. Le linee in verità erano capisaldi.
Generalmente di tende a pensare, erroneamente, a una guerra di trincea ma noi combattevamo una guerra di movimento. Ci si trovava ad avanzare senza nemmeno accorgersi, magari si erano percorsi cento chilometri senza nemmeno rendersene conto. Sul Don avevamo uno schieramento di 300 chilometri, questo significava che ogni reggimento aveva uno schieramento da contenere di una trentina di chilometri. Dietro di noi non c’era nulla e nulla era più controllabile anche per il fatto che c’erano enormi distanze. Si trattava di una guerra moderna di movimento. Per farle avere un’idea: quando nevicava, e nevicava per 5 giorni di fila, e si usciva fuori, magari da un’isba o da una scuola, dove noi eravamo, ci si trovava 5 metri di neve. Ora, cosa si può fare con una montagna di neve così dappertutto che impedisce ogni movimento? Quale preoccupazione dovevamo avere? Nessuna.
Quindi nel periodo di permanenza a Rikowo la gente continuava a vivere relativamente normalmente?
Gli abitanti uscivano per andare a trovare il mangiare.
Per voi invece? Il mangiare arrivava?
Sì, certo era tutto organizzato. Anche i battaglioni che erano in linea e che erano nei capisaldi avevano il loro rifornimento. Quindi non è mai mancato il mangiare o qualsiasi altro rifornimento. E a proposito delle scarpe che avevamo in dotazione, secondo cui erano cartone, non è affatto vero.
Mi sfati questo mito allora. Io credo di aver visto certe suole di scarpe simili a quelle che si usavano allora e che alcuni reduci hanno descritto e che quindi, realisticamente, voi potevate avere in dotazione. In effetti, a vedere questo tipo di scarponi, la suola non era di cuoio ma di una specie di cartone pressato. Ma non so, magari le vostre scarpe potevano essere diverse.
No, assolutamente, noi avevamo scarpe di cuoio, con la suola di cuoio, almeno le nostre, quelle che indossavo io avevano le suole di cuoio come quelle degli altri soldati.
Un artigliere del centoventesimo, Enrico Betti, mi ha confermato nell’intervista che queste scarpe avevano una suola come le ho descritto, cioè di una specie di cartone pressato e chiodato che con l’acqua, e con le continue sollecitazioni, perdeva la sua ermeticità e funzionalità.
No! Noi avevamo scarpe buone e poi quelli dell’artiglieria avevano un equipaggiamento migliore del nostro. Loro camminavano poco a piedi perché andavano sui camion mentre noi camminavamo tanto. Loro erano a 5, 6 chilometri di distanza dal fronte mentre noi eravamo a ridosso. La loro posizione indietreggiata permetteva loro di muoversi più liberamente, quindi rispetto a noi avevano più libertà e possibilità di potersi procacciare del cibo tra le isbe. Le nostre scarpe erano chiodate. In una recente intervista al figlio della medaglia d’oro Giorgio Iannicelli – caduto in combattimento aereo nel dicembre del 1941 contro 15 apparecchi russi – alla quale partecipai anche io, viene fuori la sua testimonianza diretta a riguardo della conservazione delle scarpe. Lui racconta di aver assistito alla riesumazione delle salme nel cimitero di Yussowo, presso Stalino, ed ha potuto constatare che le scarpe in dotazione ai soldati del Csir deceduti, dopo 60 anni erano ancora in buone condizioni.
Noi oltretutto assistemmo a quel combattimento che coinvolse Giorgio Iannicelli a fine dicembre del 1941. Quando i russi fecero l’offensiva nella notte del 24, lui affrontò da solo una quindicina di aerei da caccia russi ma fu abbattuto. Il figlio si era prodigato per poter recuperare le spoglie e si recò a Stalino, dove c’era questo cimitero e dove era sepolto il padre. Dal momento che avevano fatto un palazzo, la prima fila dei morti li hanno dovuti prelevare e li hanno sposati nel loro cimitero. Ogni soldato aveva la propria cassa e la propria bottiglia ecc. ecc.
Mi spieghi della bottiglia.
Nella bottiglia il cappellano ci lasciava il nome e il cognome e le varie annotazioni sul caduto che venivano sigillate con la cera all’interno della bottiglia e messa accanto al caduto.
E il piastrino?
Il piastrino rimaneva. Ma io volevo sfatare la faccenda della scarpe che erano di cuoio. Logicamente però, dopo tante ore costretti a stare nella neve, per via del fatto che i russi non ci permettevano di alzare la testa, potevano bagnarsi. Bisogna considerare che non eravamo mimetizzati nella neve da tute bianche ma eravamo piuttosto visibili tra la coltre bianca, eravamo un faciole bersaglio. Il nostro generale Ugo De Carolis fu ucciso da lontano proprio perché il grigioverde era piuttosto visibile, per vedere la situazione si sporse un poco e fu preso in pieno. Il colonnello Taby (tenente colonnello Vincenzo Taby), per andarlo a prendere, ci rimase anche lui, gli hanno dedicato una strada a Roma. In quel caso lo sotterrai proprio io, il colonnello. Ho conosciuto il cognato che è un generale di corpo d’armata e che è il presidente dell’ordine sovrano di Malta. Quando lo seppe fu colpito da questo fatto, ci saremmo dovuti incontrare ma poi non se ne fece nulla, sono passati tanti anni ormai. Quindi dicevamo, il figlio di Iannicelli, che ha assistito alla riesumazione di suo padre, ha potuto constatare che le scarpe erano ancora in buono stato dopo tutti quegli anni.
Ma è possibile che ci fossero scarpe differenti nei differenti reggimenti?
No, le scarpe erano uguali per tutti. No, assolutamente no!
Per il resto?
Per il resto avevamo il cappotto di pelliccia.
Sufficienti per le temperature di quel tipo?
Certo, a 52 gradi sottozero nel 6 gennaio del ’42 eravamo equipaggiati bene. I tedeschi furono fregati dal “generale inverno” rispetto a noi.
Come mai dice questo? Addirittura i tedeschi equipaggiati meno di noi?
Perché non erano equipaggiati come noi! Il Generale Messe, quando eravamo in Romania, chiese all’intendenza di Roma, oltre ai camion per noi, anche di rifornirci di valenki. gli stivali che avevano i russi fatti di feltro pressato dove l’acqua non passava. Noi non li avevamo i valenki. Ritornando a ciò che le ha detto l’artigliere romano del 120° posso affermare che ha detto un’inesattezza perché semmai erano i chiodi che provocavano quella sensazione di bagnato ai piedi. L’acqua penetrava semmai tra i chiodi che trasmetteva il freddo ai piedi, quindi non era da attribuire unicamente alle suole delle scarpe questo fenomeno ma, principalmente, ai chiodi.
Lei ha avuto congelamenti?
Sì, un congelamento di primo grado ma con un po’ di neve strofinata sopra mi è passato. Però quando io chiesi nuove scarpe al furiere, al sergente maggiore, mi disse che ne consumavo troppe. Io gli dissi “ma io cammino come cammini te”. Allora ne presi un paio di due numeri più grossi. E lui mi chiese “perché ne prendi un paio con numeri più grossi?” e io gli dissi “perché qui siamo in Russia. Devo metterci i calzettoni di lana”. Quindi per poter far entrare i calzettoni dentro le scarpe avevo bisogno di una numerazione maggiorata.
Pausa per visionare le fotografie e fotografare le medaglie
Mi racconti dell’avvicendamento.
Coloro i quali erano partiti il 17 luglio del 1941 non potevano sopportare un altro inverno e le vicende dell’inverno trascorso tra il ’41 e il ’42 per cui, lo stato maggiore dell’esercito, dato che erano venuti fuori tubercolosi, nefriti, deperimenti eccetera e la truppa era stanca, fu deciso il rimpatrio dei superstiti. Non dimentichiamo che avevamo sul groppone anche i 2450 chilometri a piedi. Io ebbi oltretutto delle febbri dovute ai topi che, nei camminamenti, si erano mangiati le unghie dei piedi, evidentemente mi fece infezione. Ero inizialmente destinato al primo turno di rimpatrio ma a seguito di queste febbri venni spostato all’ultimo turno dei reduci della divisione Torino. Ho una fotografia scattata in occasione di questa adunata prima della partenza dove si vede il colonnello Biagio Santini insieme al maggiore Giammei che ci passano in rassegna. Quando, a metà dicembre 1942, arrivammo in Italia, ci trovammo nel campo contumaciale per 15 giorni. Impiegammo 15 giorni per tornare in Italia. All’andata impiegammo solo 4 giorni dall’Italia alla Romania dal 17 al 21 luglio. La contumacia si svolse ad Osoppo, vicino Udine, venivamo da Tarvisio. Quando arrivammo in Italia scesi e baciai terra. Tornato a Roma mi mandarono però in Sicilia nel 75° reggimento fanteria. Io indossavo la spilla della divisione Torino.
Quindi la guerra non era finita per lei.
No, non è mai finita. Alla fine, il 10 luglio del ’43, sbarcano gli inglesi.
Pausa, mi presenta la moglie, una madrina di guerra…
Mia moglie è figlia di un maresciallo dei carabinieri medaglia d’argento al valor militare sul Podgora, lei era una madrina di guerra.
Mi racconti della sua esperienza come madrina di guerra.
Noi dovevamo tenere la corrispondenza con i militari. Io ho cominciato a lavorare presto, a sedici anni. Avevo fatto le tre medie di adesso, le commerciali. Quindi cominciai a lavorare e poi andai al Cim, al palazzo di vetro in via XX settembre, ero all’ufficio legale, e avevo il ministero della marina. C’era il nostro capo ufficio che era molto, molto così (a indicare che era fascista ndr.) e ci obbligava ad avere la corrispondenza con i militari. Io avevo la corrispondenza con un marinaio, dopo subentrò lui. Anche Riccardo conobbe questo ragazzo, che poi non era proprio un ragazzo, era piuttosto grande ed era in un sommergibile. Poi Riccardo, mio marito, tornò dalla Russia e venne al Cim dove mio suocero era impiegato all’ufficio legale. In quell’ufficio eravamo 55 donne. Un salone lunghissimo pieno di scrivanie, c’era anche, mia sorella, le donne erano al posto degli uomini. Il padre, quando lui venne a trovarlo in ufficio, ce lo presentò visto che ci raccontava sempre di suo figlio in Russia, ci diceva sempre “sbrigatevi che ho mio figlio che sono sei mesi che non ho notizie di lui dalla Russia”. Spesso portava la fotografia del figlio e diceva “questo è Riccardo mio”, io guardavo la foto ma non mi importava di lui, non prestavo attenzione insomma. Quando però venne a salutarci e lui arrivò alla scrivania mia io non c’ero, ero al bagno. Allora chiese di me alla cugina. Io vidi sta biondina e a forza di cantare “tu biondina capricciosa” dissi a mia cugina “Marì, guarda io tra giorni parto per la Sicilia. Dico, hai visto quella signorina lì?” e lei “sì, perché? ”, “ecco tu mi mandi una cartolina con tutte le firme ma quella sua me la sottolinei” quella cartolina l’abbiamo ancora.
Da lì è cominciata la corrispondenza allora.
Sì, una serie di corrispondenza con il saluto al Duce finale. Le cartoline finivano spesso con un saluto di quel genere. D’altronde c’era il mito del Duce. Era come un augurio che era ormai radicato e lo si scriveva spontaneamente e senza pressioni o forzature. Prima si viveva bene, non c’era tanto consumismo come oggi, si possedeva solo un paio di scarpe ma si viveva bene. Mia sorella, che ebbe il tifo, ebbe tutta l’assistenza persino i raggi ultravioletti per curarla. Le colonie! Io ho girato l’Italia con l’opera balilla, sono stato anche sulle Dolomiti.
E non bisognava essere figli di ragionieri piuttosto che di funzionari?
No, no. Macché. Io dopo il Cim feci un concorso e venni qui alla città universitaria e quindi stavamo insieme a tante ragazze, gli uomini erano partiti, ce n’erano pochi. Il padre di questa mia amica era contrario al fascismo e quando arrivava qualcuno lui aveva già pronto il suo pacchetto dei vestiti per potersene andar via. Perché lo prelevavano e lo portavano in questura. C’era questa paura che la gente contraria potesse ribellarsi per cui li allontanavano. Ma questo povero cristiano non faceva nulla. Ma purtroppo c’erano quelle mentalità che certe volte arrivavano anche a questi comportamenti. Dipendeva dalle persone.
Riccardo Riccardi è deceduto a Roma il 14 agosto 2010