Di Giuseppe Bassi
Nella notte tra il 23 e il 24 Dicembre 1942 un gruppo di soldati stavano accovacciati, in silenzio, all’interno di un pollaio, fatto di frasche, con alcuni polli che si erano sistemati sopra le nostre teste, sui pali trasversali che sostenevano il tetto.
Eravamo allo stremo delle forze, nessuno parlava, né dormiva, con trenta gradi sotto zero, affamati, ognuno di noi pensava quale sarebbe stata la fine del calvario che stavamo vivendo ad Arbusovka, da tre giorni accerchiata dal nemico, sotto una tempesta di bombe e di razzi Katiuscia, in quella valle che era diventata realmente, come fu poi chiamata dai superstiti, ”la valle della morte”. Constatai allora che la fame provoca nell’uomo gesti imprevedibili: l’amico Marchi agguanta un pollo che sta sopra la testa, ne tira il collo succhiandone il sangue, poi me lo offre, dicendo: ”E’ caldo, è molto buono!”.
Io rifiuto, ma l’artigliere Cortenova accetta l’assaggio e così pure Marzio, l’attendente del Ten. Martelli.
Improvvisamente Marzio disse: ”Pensate, oggi è Natale. Auguri a tutti”.
Nessuno ci pensò, né fece il calcolo dei giorni trascorsi, avendo marciato in continuazione per quarantotto ore dalla sera del 19 alla sera del 21, con lunghe soste nella neve, flagellati dall’implacabile tormenta, procedendo faticosamente su piste ghiacciate, dovendo respingere improvvisi assalti del nemico che provocava sempre larghi vuoti nella colonna di uomini impegnati in continui sanguinosi combattimenti.
Eravamo stremati dalla fame e dalla fatica con la tragica visione dei soldati lasciati ai margini della pista, morti e feriti o congelati che imploravano aiuto.
La nostra tragedia era iniziata alle ore 18.20 del 19 dicembre 1942, allorché, telefonicamente dal comando ci arrivò l’ordine di abbandonare le postazioni nei bunker interrati e riscaldati sulla riva del Don. Da quel momento procedendo celermente fra scoppi di mortai, incursioni di carri armati ed improvvisi attacchi di partigiani, seguendo gli ordini ricevuti, cercavamo di raggiungere quella che doveva essere la nuova ipotetica linea di resistenza, per le divisioni Pasubio, Torino, Celere e le CCNN Tagliamento.
Non ci si poteva fermare, l’ordine categorico era: camminare, combattere, resistere!
Nella mattinata del 21 un uragano di razzi Katiuscia si rovesciò a pioggia nella numerosa colonna di circa trenta mila uomini con cannoni, automezzi e carriaggi, riempiendo l’aria di boati, di vampe e di fumo, disseminando sul terreno sconvolto cadaveri di soldati orrendamente mutilati!
Verso le ore 12, giunti nella piana di Popovka, la colonna fu investita da un intenso fuoco di mitragliatrici che ci impedirono di continuare il ripiegamento, quando improvvisamente comparve un soldato con una bandiera tricolore e di corsa al grido di” Avanti Savoia” ci trascinò all’assalto verso le postazioni del nemico, che fu posto in fuga lasciando nelle nostre mani una mitragliera carrellata, altre armi ed alcuni prigionieri che furono portati al comando per essere interrogati.
Allora fra i numerosi morti e feriti rimasero morenti sulla neve anche gli amici Serg. Petracco e il Ten. Pezzino, che a Marchi ebbe la forza di mormorare. ”Ritorneremo e ci vendicheremo”.
Poi mentre i colpi di mortaio continuavano a scoppiare intorno ed alcuni soldati cercavano di trasportare i numerosi feriti verso un autocarro, l’intensificarsi dei colpi ci fece fuggire, e i soldati lasciarono nella neve i feriti, che imploravano aiuto.
Con la visone di quelle scene strazianti di dolore e di morte, ebbi il terrore di rimanere ferito e quindi abbandonato sulla neve alla mercé di un nemico cinico e spietato, che per risparmiarti le sofferenze dell’agonia, ti avrebbe sparato un colpo di grazia facendoti rientrare nel grande numero dei dispersi.
Continuando la faticosa marcia avvolti in una bufera di neve, nella tarda serata del 21 dicembre, dopo aver percorso circa sessanta km in due giorni e due notti, eravamo arrivati nel villaggio di Arbusovka, trovando tutte le isbe già occupate dai reparti della 298° divisione tedesca, che ci avevano preceduto .
Con il mio gruppo trovai un comodo rifugio accanto a un pagliaio e, tolte le scarpe, infilai i piedi doloranti, nella paglia. Fisicamente e moralmente distrutto, nonostante la temperatura siberiana, mangiata un po’ di neve, mi addormentai profondamente.
Per tutta la notte continuarono ad arrivare gruppi di soldati con feriti e congelati che, per la stanchezza, si gettavano a tuffo nel pagliaio, incuranti di calpestare i corpi che lo occupavano. Nonostante il freddo, gli animi si accendevano così scoppiavano liti, con grida imprecazioni, bestemmie.
Nella mattinata del 22, aerei tedeschi effettuarono alcuni lanci di munizioni e carburante per i semoventi, con grande delusione dei trentamila che attendevano il pane, ma l’arrivo degli aerei significava che la nostra situazione era conosciuta dagli alti comandi.
Purtroppo, un lancio, a causa della nebbia, cadde sull’isba del comando della divisione Torino provocando la morte di alcuni ufficiali superiori di quella divisione.
Nel pomeriggio un uragano di razzi Katiuscia si rovesciò fra le isbe, spargendo dovunque miriadi di schegge, riempiendo l’aria di boati, di vampe di fumo, e lasciando sul terreno sconvolto cadaveri di soldati orrendamente mutilati.
Con l’amico Marchi, per allontanarci dalla zona dove erano maggiormente concentrati i tiri delle artiglierie e dei razzi, decidemmo di spostarci nella parte alta della valle, per cercare fra le isbe, artiglieri del nostri gruppo, ma con sorpresa constatammo, che le isbe erano stipate di feriti e congelati all’interno e all’esterno di esse, su giacigli di paglia, sulla neve. Addossati ed allineati alle pareti invocavano aiuto a medici che nulla potevano fare, mancando di medicinali e di qualsiasi strumento per operare. Molti, che avevano già trascorso una notte all’addiaccio, erano già trasformati in statue di ghiaccio.
Dopo aver visto quei luoghi di dolore e di morte e aver risposto alle richieste di aiuto di alcuni di essi, ci allontanammo muti e con tanta tristezza nel cuore.
Nella notte del 22 con Marchi trovammo rifugio sotto il tetto di un’isba stipata di feriti e congelati e fummo anche fortunati perché in quel luogo i Russi avevano nascosto un po ‘ di frumento che ci permise di calmare i morsi della fame. Crollati per la stanchezza in un profondo sonno, si spensero per noi le invocazioni e i lamenti dei numerosi feriti all’interno dell’isba assistiti da un medico solo con parole di conforto e speranza, mancando di medicinali.
Nella mattinata del 23, dopo essere andati in perlustrazione per respingere assalti di pattuglie nemiche, durante al giornata cercammo soldati e ufficiali del nostro gruppo per poter riunirci in reparti di formazione per fronteggiare gli attacchi del nemico.
Constatammo che durante la giornata era rallentata l’attività dei semoventi tedeschi che forse stavano risparmiando benzina e munizioni, ma alle ore 23.30, mentre una fitta nebbia scendeva nella valle sentimmo lo sferragliare dei semoventi nella parte alta del villaggio, lontani dall’idea che i generali Lerici e Rossi avevano concordato con i tedeschi un improvviso attacco notturno per rompere l’accerchiamento e marciare verso Cerkovo, dove c’era un presidio italiano e magazzini viveri
Dopo una violenta sparatoria i russi, sorpresi per l’improvviso attacco si ritirarono lasciando aperto un varco, dove, combattendo, passarono circa diecimila uomini con un solo autocarro e alcune slitte stracariche di feriti.
Noi dei reparti di retroguardia rimasti nella parte meridionale della valle venimmo sottoposti a un intenso fuoco di sbarramento da parte dell’artiglieria russa che completò così nuovamente l’accerchiamento. Sulla neve rimasero numerosi morti e feriti che con il loro sacrificio hanno permesso a un numeroso contingente italo – tedesco di uscire dall’assedio della valle.
Per noi rimasti in questa infinita distesa di neve cosparsa di Caduti in grigioverde, di armi, di rottami di ogni genere, la neve era il nostro cibo e la nostra bevanda e il nostro soffice materasso, durante le interminabili notti all’addiaccio.
Ai primi chiarori dell’alba, iniziò una violenta sparatoria e pattuglie russe al grido di “Hurra! Stalin”, scendono verso di noi per l’assalto finale.
Ci sdraiammo sulla neve al riparo di uno steccato sparando gli ultimi colpi, mentre sopra di noi fischiavano le pallottole dei” parabellum” russi ; chi cercava di fuggire veniva colpito a morte e cadeva abbandonato sulla neve.
Per non consegnare la pistola al nemico la nascosi sotto la neve, poi guardai l’ora erano le cinque e venti, e per l’orologio trovai un nascondiglio nella scarpa, mentre davanti a me soldati alzavano le mani in segno di resa.
Fu tragico ed umiliante quel passaggio dalla libertà alla schiavitù e all’amico Marchi che silenzioso, mi stava accanto dissi: ”Per noi ora non ci sarà che la fame, il freddo e il lavoro forzato!” Avevamo finito di vivere.
Un nostro soldato ferito al braccio si avvicinò al soldato russo dicendo ”Lazzaret iest”, ma per tutta risposta ebbe una pallottola al cuore.
Non si interessavano delle armi, ma la prima domanda che ci fecero fu: ”Davai ciassi” (Dammi l’orologio); poi ci frugarono in tutte le tasche, togliendoci il temperino, la penna stilografica, il pettine ed il portafoglio.
Un bersagliere ferito, che, sostenuto da un amico si avvicinò zoppicando e chiedendo aiuto, fu ucciso all’istante e con lui cadde anche l’accompagnatore.
Fu questa al momento della resa la tragica fine di molti nostri feriti che con speranza chiedevano assistenza. Delle centinaia di feriti rimasti nella valle assistiti da un medico e da un cappellano, nessuno è sopravvissuto o arrivato vivo nei lager.