Tratto da “Fronte russo: c’ero anch’io”, a cura di Giulio Bedeschi, ed. Mursia, Milano 1983 |
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Il racconto di questa battaglia non è altro che la conferma delle difficili condizioni in cui sono stati costretti a combattere i soldati italiani. Privi ormai di uomini sufficienti, di mezzi e di armi utili per la propria difesa, si arrangiano come possono tra la pressione dell’armata russa e i continui ed insidiosi attacchi dei partigiani appostati ormai in ogni luogo. L’impossibilità di comunicazione tra i reparti, costituiti in piccoli capisaldi, il costante pericolo di essere accerchiati, le continue perdite dei compagni fatti prigionieri, anche grazie alle avversità meteorologiche, rendono ancora più difficoltosa la difesa della città dalla quale, alla fine, si riesce ad uscire aggirando l’accerchiamento. |
Il 13 febbraio 1943 siamo a Novo Moskowska, tra Dnjepropetrowsk e Pawlograd. Ciò che resta del 120° reggimento artiglieria della 3a divisione Celere ha, ora, un inquadramento ed un armamento da fanteria povera. Tutta la zona è infestata da bande di partigiani: un loro attacco effettuato con 120 uomini, a pochi chilometri dal punto in cui siamo, è stato represso. Dicono che in tale azione sia mancato il previsto concomitante intervento delle truppe regolari che si stanno rapidamente concentrando di fronte a noi.
Alle 3,30 del giorno 14, su allarme, si riforma la colonna e si parte per Pawlograd. In questa città dovremo contrastare l’avanzata dei russi verso il Nipro. È un’impresa che sa di follia: le forze destinate alla difesa della città (un centro di 80.000 abitanti) sono molto esigue: 2.000 italiani e 600 tedeschi. Tra i reparti italiani vi è anche un battaglione di Movieri, soldati originariamente addetti al traffico stradale. Le uniche forze corazzate sono costituite da 7 carri Tigre e da 3 semoventi con cannoni da 88 mm. Il comando della piazza è stato affidato al col. Carloni.
Noi della 4a batteria prendiamo posizione alla stazione ferroviaria per costituire la prima linea di difesa. Una striscia di terra nuda larga circa 500m e molto lunga divide le prime case della città dalla ferrovia. Al di là di questa, verso nord-est, vi è una fitta boscaglia attraverso la quale i russi possono avvicinarsi senza essere visti. Con l’aiuto di lavoratori civili formiamo dei nidi di mitragliatrice utilizzando traversine ferroviarie. Il giorno 15 transita l’ultimo treno di ricognizione con soldati tedeschi a bordo, ed anche i pochi tedeschi del genio ferroviario in servizio alla stazione se ne vanno. Vi è un certo movimento di civili che potrebbero essere informatori del nemico: li fermiamo e scopriamo che si tratta di malati sbandati provenienti da un vicino lebbrosario, in cerca di cibo. La nostra posizione difensiva è troppo precaria, anche perché la boscaglia che abbiamo davanti rende inefficace ogni ricognizione.
Finalmente il Comando si rende conto della cosa e ci fa arretrare sulle prime isbe. Alle 20 circa mi mandano a chiamare e mi inviano di pattuglia, con 20 uomini, sulla strada di Wiasiwok. È una notte buia. Rientriamo verso la mezzanotte senza aver notato nulla di anormale salvo il rumore di lontane sparatorie di armi leggere. Poco dopo vi è un allarme nel settore dei bersaglieri, alla nostra destra, e siamo costretti ad intervenire. Si tratta di un attacco di partigiani.
Cessata la sparatoria torniamo nelle nostre posizioni; è l’alba del 16 e subito dopo cominciano a piovere granate, ma il fuoco è breve. Passa il cap. Alari con un motocarrello dei bersaglieri; andiamo assieme in ricognizione alla stazione, ove non vi è anima viva. Saliamo sulla torre del serbatoio dell’acqua e scorgiamo distintamente, a circa tre chilometri, truppe e mezzi corazzati russi in movimento. Tornati indietro mi mandano ancora di pattuglia sulla strada di Wiasiwok con uno Spa 38 ed una mitragliera da 20 mm. La strada è libera, le rovine della grande acciaieria che si trovano verso nord non rivelano presenza di truppe. Sulla via del ritorno catturiamo tre uomini sprovvisti di documenti e permessi. Rientriamo morti di sonno, di freddo e di fame. Riusciamo a mangiare qualcosa ed a riscaldarci nell’isba, ma gli allarmi si susseguono ed abbiamo la netta sensazione che l’attacco russo non si farà attendere; perciò nessuno riposa. I nostri autocarri devono essere messi in moto ogni mezz’ora perchè non hanno più antigelo e la temperatura è di oltre 30° sotto zero. Siamo così pochi che la nostra linea di difesa è costituita soltanto da radi capisaldi: ciò facilita il compito dei partigiani che, infatti, ne approfittano per tirarci addosso dalle isbe vicine.
Queste sparatorie di disturbo durano tutta la notte, ma si intensificano soltanto all’alba, segno evidente che l’attacco delle truppe regolari è prossimo. È il giorno 17. Prima che svaniscano le tenebre, d’accordo con il s. ten. D’Aquino, riunisco nel caposaldo di sinistra gli uomini che stavano, troppo isolati, a circa 300 m di distanza. Poco dopo ha inizio un fuoco di preparazione infernale. I russi hanno occupato la stazione ed avanzano quasi invisibili nella nebbia del crepuscolo. È chiaro che non potremo reggere per molto. Mandiamo una pattuglia di tre uomini al caposaldo del Comando di gruppo e della 6a batteria distante circa mezzo chilometro alla nostra sinistra per fare presente al cap. Alari la nostra difficile situazione. La pattuglia non riesce a passare, viene attaccata a circa meta strada, perde un uomo, torna indietro. Contemporaneamente vediamo fumo e fiamme levarsi dal caposaldo della 6a: sono gli autocarri, incendiati dal nemico che ora vediamo avanzare sparando con i carri e con i mortai nella zona scoperta al di qua della ferrovia. Il nostro settore non è più mantenibile ed è chiaro che tra breve saremo circondati. D’Aquino prende un autocarro e corre al comando della Piazza per far presente la situazione (manca ogni collegamento via radio o via filo) e per chiedere l’intervento di un carro armato in aiuto della 6a batteria e del Comando di gruppo. Dopo circa mezz’ora il camion ritorna con l’ordine di ripiegare al centro della città. Siamo sotto un fuoco sempre più fitto che proviene da tutte le parti, ma il pericolo maggiore è alla nostra sinistra ove i russi, sopraffatta la resistenza dei nostri, si preparano ad attaccare il nostro caposaldo. Anche la strada alle nostre spalle è molto infida. Decido di andare verso destra, parallelamente al fronte, sino alla prossima strada per il centro. I carri russi ci tirano addosso. Ci sganciamo con una certa fatica e con qualche perdita.
A meno di un chilometro giungiamo in prossimità del caposaldo che difende la strada per Losowaia. I pochi uomini che lo costituiscono (hanno anche un cannone da 75/27 di poca utilità nella circostanza) stanno per essere circondati dalle fanterie regolari e dai partigiani. Ci apriamo la strada con le bombe a mano il cui effetto psicologico è superiore a quello delle nostre armi leggere. Riusciamo a raggiungere il caposaldo e ad organizzare lo sganciamento tutti assieme. Intanto è comparso il sole diradando del tutto la nebbia. Verso le 10 iniziamo a ripiegare verso il centro della città. Il fuoco delle forze partigiane ci accompagna lungo tutto il percorso. Finalmente arriviamo nella piazza principale, una larga piazza ove al posto della immancabile statua a Lenin è stata innalzata una forca: vi penzolano i corpi di 5 partigiani giustiziati dai tedeschi. Quattro Panzer sono disposti a ventaglio; i carristi sono intenti a cambiare la maglia rotta di un cingolo. Anche qui c’è un certo fuoco di fucileria, ma non ancora intenso.
Lascio gli uomini al riparo e cerco il Comando per avere istruzioni. Trovo D’Aquino: mi dice che il carro inviato al caposaldo della 6a batteria ha trovato solo dei morti e dei feriti. Così abbiamo perso la 6a e tutto il Comando di gruppo: otto ufficiali e circa 100 uomini. (Anni dopo, al rientro dei prigionieri, sapremo alcuni particolari: i russi avevano circondato il caposaldo aiutati dalla nebbia e dalle tute mimetiche. Il cap. Alari, coraggioso come sempre, era stato tra i primi a cadere. Il carro armato inviato sul posto era giunto vicinissimo al gruppo dei nostri catturati dai russi, senza vederli). C’è molta confusione, altre truppe affluiscono dalla linea. Si teme che i russi completino l’accerchiamento della città tagliandoci l’unica via di ripiegamento: quella verso Dnjepropetrowsk. Restiamo in attesa degli eventi per circa un’ora cercando di stare al riparo dai proiettili vaganti di cui non possiamo individuare la provenienza. Finalmente giunge una staffetta e mi porta un messaggio di D’Aquino scritto a matita su un pezzetto di carta strappata: “Porto la colonna dei camion al di là del fiume prima che facciano saltare il ponte. Tu passa a piedi con la truppa”.
Raduno gli uomini e spiego loro la situazione, poi ci avviamo in fila indiana verso il fiume. Il sole si è velato. Man mano che ci avviciniamo al ponte il fuoco cresce di intensità; i russi vogliono chiudere il cerchio per non farci uscire. Tirano con armi automatiche, fucili, cannoni e mortai. Il fiume Samara è largo circa cento metri e, naturalmente, è ghiacciato. Passando sul ponte si è troppo allo scoperto. Decidiamo di attraversare sul ghiaccio, alla spicciolata, protetti (ma solo ipoteticamente) dal fuoco del gruppetto che passera per ultimo. Riusciamo a farcela sotto una gragnuola continua di colpi che spezza anche i rami dei pochi alberi che sono sulle sponde. Miracolosamente non subiamo perdite.
Al di là del fiume ritroviamo i nostri autocarri ed altre truppe passate prima di noi. Nella cabina di un nostro camion vedo seduto un ferito, terreo in viso e quasi senza conoscenza. Mi spiegano che è il col. Arena, comandante dei Movieri. Morirà poco dopo. Entro le ore 13 l’azione è ultimata; escono per ultimi i carri armati, sotto il fuoco rabbioso degli assedianti. La colonna dei superstiti si sgrana sulla strada, in direzione del Nipro.
Gino Papuli Sottotenente del II gruppo 120° reggimento artiglieria motorizzato