I semi di Girasole

Tratto da “Il labirinto di Ghiaccio” di Gino Papuli ed. Thyrus, Terni 1991
Questo brano, tratto da “Il labirinto di Ghiaccio”, viene scelto per espressa indicazione di Gino Papuli. In una chiacchierata telefonica, avvenuta diversi mesi fa, chiedevo a Gino un racconto da inserire sul sito. Lui mi indicò questo capitolo “in cui si parla di due ragazze russe, un brano che può sembrare una scena di un film”. Era così che motivava questa preferenza. Gino avrebbe voluto metterla nella sezione delle curiosità ma un pezzo così è una testimonianza troppo importante per poter essere liquidata in una sezione che raccoglie le voci più disomogenee del sito. Si tratta di un racconto molto bello dove Gino, ancora una volta, si dimostra attento all’umanità e all'”essere” umano. Una delle poche “scene” in cui indugia sui personaggi.Il capitolo incentrato su due ragazze ucraine che per sfuggire alla rappresaglia russa si aggregano ai soldati italiani in ritirata verso sud nella speranza di poter rimanere con loro e, insieme a loro, continuare a condividere una vita che, per quanto incerta, porta con sè la speranza di un risvolto meno drammatico di quello di cadere nelle mani degli stessi russi. Papuli rivive una successione di contatti umani che sottolineano come certi destini, malgrado i nostri sforzi, siano inesorabilmente tracciati da disegni che nessuno è in grado di cambiare e verso i quali persiste un senso si umana impotenza. In un momento di ritmato cambio di situazioni le due donne fanno da specchio: dell’incoscenza e della saggezza, dellla voglia di vivere e della rassegnazione ad un tempo. Quel sentirsi “naufraghi” e “provisori” dentro una guerra piena di contraddizioni che si accavallano in uno scenario che ormai è senza più regole e senza spazi per i rapporti umani duraturi. Tutto si consuma velocemtne e repentinamente, i destini corrono e si incrociano nello stessso binario di incertezza nel quale ci si sente “tutti come semi di girasole, meno che niente”.Un brano che rende l’idea di come poco si sia compresa la gandezza dello scrittore Papuli soprattutto del suo libro sulla campagna di Russia “Il labirinto di Ghiaccio”, testimonianza di “alta” letteraria.Achille Omar Di Leonardo
Da quando siamo in questo villaggio di Korsuni a leccarci le ferite, non abbiamo visto a tavola che zucche gialle e sardine piccanti: le prime sono di approvvigionamento locale, le seconde rappresentano l’unico residuo delle nostre vettovaglie, rinvenuto in fondo al pianale del camion superstite. Giorni fa, poco dopo il nostro arrivo a Korsuni, nel bauletto laterale di questo stesso camion abbiamo ritrovato — messevi dalle mani sconosciute ma provvide di qualche soldato — un’oca morta ed una gallina moribonda. Non è stato possibile stabilire la data di decesso dell’oca, ma essendo essa rimasta «in frigorifero», non abbiamo avuto dubbi sulla sua commestibilità. Quanto alla gallina, la sua fine è stata procrastinata da cure intensive ed interessate. A parte questi diversivi, la situazione alimentare è grave, l’organizzazione italiana di sussistenza si è dissolta nella ritirata ed ora dipendiamo in tutto dall’esercito tedesco il quale non sembra avere altro da darci che un po’ di pane di segala. Cerchiamo, perciò, di arrangiarci alla meglio, ma le risorse sono irrisorie, i contadini sono ridotti in miseria, l’inverno non concede alternative, le riserve segrete — nascoste nel sottotetto o sotto le assi del pavimento — sono poche zucche e qualche sacco di patate. L’unica cosa che non manca sono i semi di girasole, e i civili ne hanno sempre davanti una scodella piena da cui attingono per ore; posseggono una incredibile abilità nel rompere con i denti il duro guscio nero per estrarne la piccola semente bianca. È un esercizio di pazienza inconcepibile per chi — come noi — ha necessità di ingerire cibi consistenti e non di centellinare minutaglie. Ho provato a mettere da parte un po’ di semini per farne un mucchietto da mangiare tutto in una volta, cosi da riempirmi la bocca e masticare un intero boccone. Però il gioco non vale la candela, il sacrificio dell’attesa è troppo pesante, la salivazione diviene eccessiva, i succhi gastrici bruciano lo stomaco. I padroni di casa devono aver capito questa mia lotta: ieri Natasha — la figlia — mi ha regalato una manciata di semi già puliti. L’olio di girasole alimenta i lumi a stoppino e serve per friggere frittelle di farina di granturco e verdure. A volte vengo risvegliato nel cuore della notte da un acre odore di olio fritto: cucinano di notte non per nascondere a me quel poco che hanno ma per dare da mangiare al loro figlio che è arruolato con la gendarmeria controllata dai tedeschi e che — sembra — solo di notte può venire a casa. L’altro figlio, il più grande, è con l’armata russa del Caucaso, e la famiglia non ne ha più notizie da circa due anni. I due vecchi me lo dicono con aria quasi indifferente, forse è il «fatalismo» che caratterizza questa gente, forse è soltanto orgoglio. Non credo che mio padre, in questo stesso momento, riuscirebbe a parlare di me con lo stesso distacco. L’isba ha tre vani, due dei quali abbinati dalla stufacucina. Loro dormono sul ripiano apposito di questa stufa, io occupo una stanza ed ho un letto. Cassetta — il mio anziano attendente — dorme con me, su un pagliericcio steso a terra. Non manca, naturalmente, «l’angolo rosso» con l’icona sormontata da un piccolo baldacchino con drappi di cotone. Sul cassettone fa bella mostra una lampadina con il filamento bruciato: è li come soprammobile, emblema di un progresso tecnico atteso — sinora — invano. C’è anche una piccola pendola, di latta, con la carica a contrappesi. Mi accorgo presto che è assolutamente imprecisa e che la carica dura soltanto poche ore; ma la sua totale inaffidabilità non basta a cancellare l’importanza dell’oggetto al quale, infatti, vengono dedicate cure particolari per approssimarlo all’ora reale caricandolo anche di notte. I servizi igienici sono esterni, nel campo, e consistono in una buca con un’asse sopra, contornata da un paravento di canne che il gelo ha vetrificato. Come sempre da queste parti, dar corso a certe funzioni è arduo. Di solito mi reco alla buca senza pastrano e cerco di sbrigare la faccenda nel più breve tempo possibile. Ma la «mamma» mi rimprovera: non devo uscire senza cappotto e soprattutto non devo dimenticare di coprirmi bene la testa. Quando siamo arrivati abbiamo dovuto dedicare molte ore a disinfestarci dai pidocchi, tutti i nostri indumenti sono stati bolliti. Per il momento abbiamo vinto noi, ma è una vittoria effimera. Il tifo petecchiale ha già mietuto qualche vittima, tuttavia nessuno dà importanza a questo pericolo, visto che la sua percentuale è ben poca cosa rispetto alle altre cause di morte. Inoltre, sono i congelamenti a rappresentare il male di cui quasi nessuno va esente. Sono stato a cercare il Tenente Medico per chiedergli consiglio circa il mio alluce destro che è bianco ed insensibile per un congelamento di primo grado: l’ho trovato nell’isba-infermeria contornato da una piccola folla di commilitoni in attesa di visita. Lui, con pinze e forbici, toglie unghie, taglia pezzi di pelle e di carne ormai morta e nera, consiglia frizioni con qualsiasi tipo di grasso disponibile. Non ha anestetici (né medicinali) ma non ne ha bisogno poiché i tessuti congelati non dolgono. Nel locale c’è un fetore disgustoso dovuto ai casi di cancrena; coloro che sono arrivati a questo stadio irreversibile saranno avviati nei prossimi giorni a Stalino, ove c’è un ospedale in condizioni di operare. Chiedo notizie di un mio soldato che si è ferito gravemente per lo scoppio di una bomba a mano che tentava di smontare (per farne un portatabacco) ed esco senza avere avuto il coraggio di parlare del mio alluce. Il villaggio snoda le sue casupole lungo la strada principale, nella parte più elevata si è stabilito il Comando. Vado a sentire le novità: Stalingrado è caduta, nel nostro settore i russi continuano ad avanzare (il fronte è a 50 km da Korsuni), il Corpo d’Armata Alpino è stato tagliato fuori, il Col. Carloni ha ottenuto dai tedeschi che i resti della nostra colonna abbiano «l’onore di tornare a combattere». I tedeschi, che sono in gravissime difficoltà e attendono rinforzi dal fronte occidentale, hanno accettato la richiesta di Carloni (che pare sia l’unica del genere da parte italiana). Avremo presto autocarri ed armi automatiche (ma non artiglierie, che non sono disponibili). Di questo nostro reimpiego c’è disposizione di non dire ancora nulla ai soldati. Nell’isba del tenente Dionisi c e un grammofono: la gente di casa lo aveva nascosto, ma degli italiani ci si può fidare. Alcune ragazze e parecchi di noi si esibiscono in balli al suono gracchiante di canti popolari sconosciuti e poco adatti per tentativi di approccio. Il caporale Andrei si mette a fare la «danza accovacciata» dei cosacchi, tra i lazzi e gli incitamenti di tutti. Il pavimento in terra dell’isba ne soffre molto. Cassetta viene a dirmi che in paese sono arrivate Katia e Sonia, due ragazze russe che avevano abbandonato la famiglia per seguire due ufficiali del nostro Reggimento (che io non ho conosciuto) morti sul Don. Non sapevano nulla della sorte toccata ai loro uomini ed hanno pianto molto. Ora cercano una soluzione al loro problema che è quello di sfuggire alla vendetta inesorabile e spietata dei connazionali per essersi messe con due nemici della loro patria. Il racconto di Cassetta trova in me un’eco profonda: nel corso della ritirata i problemi della sopravvivenza ci hanno fatto sentire di meno i legami affettivi e le pulsazioni fisiche della nostra giovinezza; ora c e un «ritorno di fiamma» che acuisce i sentimenti e ci tormenta. Benché siano trascorse oltre due settimane dal nostro arrivo a Korsuni, siamo tuttora senza posta e senza notizie dall’Italia. Il silenzio dura, quindi, da circa due mesi; e temiamo che sia cosi anche per i nostri cari i quali saranno certamente in grande apprensione per la nostra sorte. Anche il vivere presso famiglie che hanno quasi sempre uno o più membri lontani per cause di guerra ci richiama alla mente la nostra condizione e quella dei nostri amati lontani. Ci sfoghiamo scrivendo di frequente lunghe lettere nelle quali, a causa della censura militare, non possiamo — però — dire molto delle peripezie trascorse. D’altra parte, il bisogno di aprire il nostro animo viene soffocato dal desiderio di non rattristare i genitori o la ragazza con descrizioni che accrescereb­bero le loro apprensioni. Consegnamo queste lettere al Kommandantur del paese che a sua volta le darà ad un incaricato della posta militare tedesca. Arriveranno mai a destinazione? Quando posso, cerco di parlare, nel mio rudimentale russo, con i «vecchi»; le loro idee politiche e culturali sono per me un terreno misterioso tutto da esplorare. Ad esempio mi è difficile capire la loro avversione per Stalin, che definiscono «nemico degli Ucraini»; mi raccontano che, negli anni Trenta, milioni di contadini «ricchi» — i «kulaki» — sono stati spogliati di tutto, deportati, uccisi in nome di una indiscriminata e cieca collettivizzazione, solo perché possedevano pochi metri di terra ed una o due vacche. Questi discorsi mi appassionano e vorrei approfondirli, purtroppo le difficoltà linguistiche me lo impediscono. Mi resta, però, una conferma non sospetta della ingiustizia inevitabile di qualsiasi dottrina totalitaria che predichi ed attui l’uguaglianza ad ogni costo. Natasha mi ha mostrato il suo squinternato libro di geografia e lo ha aperto alle pagine che trattano dell’Italia. L’illustrazione che correda il testo deve essere stata tratta da una acquaforte dell’Ottocento; vi compare una famiglia in costume regionale campano, l’uomo suona il mandolino, la donna lava i panni, i bambini fanno le capriole. Cerco di spiegare che, oggi, gli italiani sono un po’ diversi. Natasha forse non mi crede, ma poi resta interdetta alla vista di una cartolina del centro di Milano mostratale dal Ten. Macario. C’è adunata per la consegna dei nuovi autocarri che sono appena arrivati dai depositi: sono dei «Bianchi Miles» con l’avviamento ad inerzia, certamente inferiori — come prestazioni e capacità di carico — ai «Fiat 626» che avevamo prima. Quanto alle armi c’è poco da stare allegri: avremo qualche fucile mitragliatore in più, di poca efficacia e facile all’inceppamento. Vado nell’isba del Tenente D’Aquino e conosco Katia e Sonia: la prima è bionda, è molto bella, ha diciotto anni e si muove con grazia innata; la seconda è bruna, mostra qualche anno di più di Katia ed ha le fattezze pienotte ed anonime di una ragazza di campagna. Parlano bene l’italiano e cercano comprensione. La loro storia non è dissimile da quella di tutte le donne russe che hanno fraternizzato con gli stranieri. Provengono da posti diversi dell’Ucraina e si sono trovate assieme — durante la ritirata del fronte italiano — dopo aver dovuto abbandonare la famiglia ed i luoghi d’origine per sfuggire alle rappresaglie. Non è chiaro il modo in cui siano riuscite, nonostante il caos della ritirata e le difficoltà climatiche e logistiche, a sfuggire all’accerchiamento operato dai sovietici e a ritrovare il nostro reparto. Dopo aver perso la patria, la famiglia e l’amore, ora sono rimaste anche senza futuro. Posseggono soltanto i vestiti che indossano, vivono ormai della comprensione e carità dei soldati italiani. La loro situazione di «naufraghe» — che non differisce, sotto certi aspetti, dal nostro stato di «provvisori» sopravvissuti alla tragedia della disfatta — non può non toccarci nel profondo. La loro giovinezza e la loro avvenenza aggiungono alle nostre inconfessate emozioni sentimentali una acuta componente affettiva. Vorremmo difenderle, proteggerle, aiutarle a realizzare il loro desiderio di seguirci, di venire con noi in Italia. Quest’ultima possibilità è un miraggio che ci accomuna e che contribuisce a zittire la voce della ragione che parla di regolamenti militari e di precarietà del nostro futuro immediato. Mi accorgo, con un senso di fastidio (che forse deriva da una inconscia e ingiustificata gelosia) che D’Aquino non è insensibile al fascino di Katia e che sembra intenzionato a consolarla. Continua la carenza di viveri, mentre abbiamo ricevuto molte sigarette, parte delle quali omaggio di Re Boris di Bulgaria. Io, che non fumo, le ho scambiate con latte e pane di granturco. Il baratto è vantaggioso, anche se i civili del posto non hanno molto da offrire in cambio. A Vassili, il contadino che mi ospita, le sigarette le regalo volentieri. Evito, così, di vederlo trinciare foglie verdi di non so quale pianta per fumarle in carta di libro rendendo irrespirabile l’aria della casa. I disordini alimentari degli ultimi tempi — in particolare l’abuso di caffè e la mancanza di proteine e vitamine — ci hanno provocato vari disturbi: alcuni di noi hanno violente eruzioni cutanee, altri gengiviti e piorrea. I casi di dissenteria e di malattie polmonari sono aumentati. Per fortuna il freddo si è attenuato — siamo tra i 20° ed i 10° sotto zero — ed il riposo al caldo delle case permette un graduale recupero alla maggior parte di noi. Oltre ai turni di guardia ed ai servizi indispensabili, non abbiamo molto da fare. Le adunate vengono tenute non per svolgere esercitazioni marziali bensì per ricostituire una saldezza psicologica e preparare gli animi ai compiti che ancora ci attendono: ormai, infatti, «radio naja» ha già diffuso la notizia che torneremo presto al fronte. Si sono uniti a noi — dopo aver subito un’anabasi diversa ma non meno perigliosa della nostra — i resti del 1° Gruppo del 120° (Gruppo Guglielmi) sfuggito all’accerchiamento sul Don. Essi fanno parte, dunque, del nostro Reggimento; ma noto con un certo stupore di essere portato a considerarli come degli estranei. In un primo momento attribuisco la cosa al fatto di non aver avuto il tempo di conoscerli «prima» della ritirata; poi mi accorgo che il mio atteggiamento è inconsciamente condiviso anche da altri del 2° Gruppo. E mi rendo conto che i sentimenti che affratellano noi in modo così profondo da farci escludere tutti gli altri, derivano dall’aver vissuto assieme vicende, paure, pericoli mortali che han­no inciso in maniera indelebile nel nostro animo. Forse è eccessivo ed ingiusto, ma è così. Lungo la strada che attraversa il villaggio il movimento di uomini e di mezzi si è notevolmente intensificato, tuttavia si tratta di un movimento spicciolo, che non include l’arrivo delle unità fresche promesse dalla propaganda. Ieri è transitata, a piedi, una lunga colonna di mongoli prigionieri dei tedeschi. Circa cinquecento uomini molto simili tra loro, con le caratteristiche fattezze della loro razza. Mi ha colpito l’espressione dura, quasi feroce dei loro visi. Rientrando nel mio alloggio, Natasha mi dice che è venuta a cercarmi Sonia e che il mio attendente l’ha cacciata via. Forse Cassetta vuole evitarmi dei problemi, forse ha timore che l’intraprendenza di Sonia possa nuocere ai suoi privilegi. Chiedo a Natasha come giudichi Sonia e Katia. «Non sta a me giudicare — mi risponde — e neppure a te: siamo tutti come semi di girasole, meno che niente». E fa scorrere un pugno di semi da una mano all’altra. È il primo di febbraio: da oriente giunge, con il favore del vento gelido della steppa, il tambureggiare delle artiglierie. Poi, con il buio della sera, distinguiamo all’orizzonte il bagliore rosso di un vasto incendio. Vassili — che, evidentemente, non manca di informazioni aggiornate — mi dice che i partigiani hanno dato fuoco ad un treno tedesco di munizioni. Il fronte ci ha di nuovo raggiunto, domani partiremo per il settore assegnatoci, verso il Nipro. Compio un giro di ispezione per assicurarmi che tutto sia pronto. In una delle isbe in cui alloggiano i miei uomini c’è una festa di addio: delle ragazze suonano la balalaika, qualcuno canta. Le incertezze del futuro ed i sentimenti di reciproca comprensione nati nel periodo trascorso con questa gente rendono l’atmosfera più patetica che allegra. Vassili vuole che porti con me un ricordo della sua famiglia: mi regala una tavoletta dipinta che rappresenta alcuni santi del rito ortodosso. Mi spiega che faceva parte dell’altare di una chiesa destinata a granaio dopo la rivoluzione. Al di là del suo valore venale — che non conosco e che ritengo modesto — questo dono ha un contenuto umano reso più apprezzabile dalle circostanze in cui viene vissuto. È il segno sincero di un’amicizia casuale ed episodica che, attraverso questa tavoletta, vuole trovare testimonianza concreta nel ricordo. Al momento è anche — e soprattutto per me — un segno di fiducia nel futuro, un auspicio di salvezza. Sonia e Katia hanno insistito ancora per venire con noi: se restano, la loro fine è segnata. Commossi dai loro pianti e dalle loro implorazioni, abbiamo deciso di «ignorare» la loro ben celata presenza su uno dei nostri camion, durante il viaggio. La partenza verso quella che sarà — sul Nipro — la nostra prossima e forse ultima linea di resistenza, avviene sotto una tempesta di neve che rallenta la marcia. Procediamo con fatica lungo una pista secondaria per immetterci sulla strada Gorlowka-Dnie­propetrowsk. Nei paesi, reclutiamo i civili per spalare la neve che il vento ammucchia irregolarmente sul nostro percorso. Il consumo di carburante è superiore al previsto e rischiamo di restare a secco. A Nikolajew un «commando» di bersaglieri fa ubriacare la guardia ucraina e si appropria di alcuni fusti di gasolio riservati agli usi agricoli. Alla nostra colonna si è aggiunta una nutrita formazione della Div. «Sforzesca», mentre sappiamo che i resti della Div. «Ravenna» ci precedono di una giornata. C’è molta confusione, principalmente a causa dei mezzi che si mettono di traverso o vanno fuori pista. Tutto questo movimento di reparti ci fa sentire meno soli, ed i problemi che ne derivano (ad esempio la maggiore difficoltà di trovare da ripararsi nei villaggi) sembrano più sopportabili. Sia pure in modo frammentario, abbiamo saputo che l’anabasi degli alpini si è ormai conclusa in modo tragico, e che il «Corpo di Spedizione Italiano» ha praticamente finito di esistere. Per quanto mi riguarda, vorrei ancora illudermi che la portata della sconfitta non sia definitiva: i tedeschi parlano di nuove potenti divisioni, di armi segrete capaci di raddrizzare la situazione. Ma lo spettacolo che ho davanti agli occhi non lascia presagire miracoli. Allora mi chiedo a cosa sia servito questo enorme olocausto di vite umane, e se il senso del dovere — che ho sempre considerato irrinunciabile — potrà assistermi sino alla fine. Come paventavamo, il comando di colonna ha saputo della presenza di Katia e di Sonia su uno dei nostri camion, ed ha decretato il loro immediato allontanamento. In altri momenti, la trasgressione compiuta portandole con noi avrebbe avuto conseguenze disciplinari gravi; ma le circostanze attuali si prestano a molte attenuanti. Resta il fatto che le due ragazze devono andarsene e non sanno dove. Trascorrono una notte intera tra disperate ipotesi ed esitazioni, poi finiscono per arrendersi all’unica possibilità che resta loro: affidarsi al Kommandantur del paese per essere avviate a lavorare in Germania. Non è una scelta, bensì una condanna la cui pena va molto al di là dei loro «misfatti». In questo sperduto ed anonimo villaggio di Werbki i loro ed i nostri destini si dividono per sempre, e sull’animo di tutti pesa una nuova bruciante sconfitta. Gino Papuli Sottotenente di IV batteria, II gruppo, 120° Reggimento Artiglieria Motorizzato

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Breve racconto di G. Guasconi, Ten. della 101^ Btr. del 120° Regg. Artigl. Mot., tratto da "Fronte russo c'ero anch'io" a cura di G. Bedeschi.