Intervista con Raffaello Pannacci
PRIMA PARTE
Da molti anni ormai sentiamo parlare di «bravo italiano», di «italiano buono», di «italiani brava gente» (è pure il titolo di un noto film[1]), di «bontà latina» o anche, in riferimento alla campagna di Russia, di «Italianski karasciò» e simili (titolo di una raccolta di memorie del fronte russo[2]). Queste locuzioni vengono utilizzate in genere dagli storici di professione, ma sono entrate a far parte del bagaglio culturale di chi prende parte al dibattito pubblico. Che cosa significa? Di che cosa si tratta esattamente? Cerchiamo di capirlo chiedendolo a chi se n’è occupato nei propri studi. Raffaello Pannacci (1981) ha un dottorato di ricerca in scienze storiche. È stato borsista dell’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea, è attualmente collaboratore dell’Università Mercatorum di Roma e dispone di un assegno di ricerca presso l’Università degli studi di Perugia, Dipartimento di Lettere-Lingue, letterature e civiltà antiche e moderne. Fa parte da anni del gruppo Fronte del Don. Alla campagna italiana di Russia ha dedicato una tesi di laurea, una tesi di dottorato, alcuni articoli su rivista, alcuni saggi su volume e un libro pubblicato nel 2023. Partiamo con lui dagli aspetti generali della questione, per poi entrare nello specifico con riferimenti precisi a eventi e a problematiche che riguardano da vicino la campagna di Russia.
Per prima cosa, che cosa vuol dire «italiani brava gente»?
In poche parole esiste un’immagine fissa e ricorrente dell’«italiano medio», in ogni tempo e luogo in generale e nell’ultimo conflitto mondiale in particolare. L’italiano viene percepito e/o presentato come mite, bonario, accomodante per natura. Si tratta di un’immagine positiva chiaramente autoreferenziale, che è stata costruita in antitesi all’immagine altrettanto stereotipata dei tedeschi. Questi ultimi, per contro, sarebbero sempre stati cattivi per natura, prepotenti, feroci, prevaricatori e persino malvagi. Si tratta di due immagini opposte e complementari. Come sempre in questi casi, la costruzione del sé passa attraverso la parallela edificazione di un negativo speculare, per cui ad un «noi» che compendia una serie di virtù si oppone un «loro» che racchiude i vizi e la malvagità.
Perché parliamo dei tedeschi in riferimento agli «italiani brava gente»?
Per almeno due motivi. Il primo è che i tedeschi in senso lato, cioè i germanofoni, sono i nemici di sempre, dal maresciallo Radetsky nel periodo risorgimentale a Francesco Giuseppe (Cecco Peppe) nella Grande guerra; essi rappresentano per eccellenza lo straniero, il diverso, l’oppressore. L’altro motivo è che i tedeschi furono il nemico comune del popolo italiano nella seconda parte dell’ultima guerra, quando agirono da invasori, da occupanti e da seminatori di morte anche fra la popolazione civile. Anzi, per certi versi i tedeschi in Italia nel 1943-45, per via della loro condotta, svolsero una funzione aggregante presso una larga parte della popolazione.
Regia Prefettura di Vicenza
al Ministero dell’Interno, Direzione generale di Pubblica sicurezza
10 aprile 1943
Oggetto: Militari reduci dal fronte orientale.
Per notizia, comunico a codesto Ministero che tra i reduci del fronte orientale in genere, ma specialmente tra gli alpini della Divisione «Julia», si nota un certo malcontento ed un risentimento molto accentuato verso i tedeschi. Tale fatto emerge attraverso singoli episodi, di per se stessi insignificanti, ma che, ricollegati tra loro, mettono in chiara evidenza quello stato d’animo originato, secondo quanto i reduci assumono, dal comportamento dei germanici verso i componenti dell’Armir durante l’offensiva sovietica invernale. A fine preventivo, ho disposto a mezzo degli organi di polizia un’oculata vigilanza.
Il prefetto
Didascalia
Archivio centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione generale di Pubblica sicurezza, Divisione Affari generali e riservati, Categoria A/5G, busta 140, fascicolo 196
Quindi il mito degli «italiani brava gente» ha precise origini storiche? A quale periodo si possono far risalire? Nella Prima guerra mondiale era già presente questa percezione? Oppure lo stereotipo si è sviluppato e consolidato nel contesto della Seconda guerra mondiale?
Le origini storiche del «mito» si perdono – per così dire – nella notte dei tempi. Già all’epoca della Grande guerra era presente un’immagine positiva del soldato e del popolo italiani costruita in antitesi a quella degli austroungarici e dei tedeschi, soprattutto, presentati dalla propaganda di casa nostra come inumani e diversi da un punto di vista antropologico e persino fisiologico[3]. Ad ogni modo, è con la Seconda guerra mondiale e specialmente con la seconda parte del conflitto che il mito si afferma e prende campo. Il problema di fondo era che l’Italia fascista aveva condotto una guerra perdente e a tratti disastrosa, per non parlare del fatto che l’aveva portata avanti al fianco della Germania nazista, la quale si era macchiata di crimini orribili e odiosi. La principale preoccupazione della nuova classe dirigente italiana, quella del Regno del sud prima e quella del Regno d’Italia riunificato poi, era di avere un trattamento non punitivo alla conferenza di pace. Per ottenere questo risultato, era necessario innanzitutto far dimenticare al mondo che l’Italia fascista era stata il principale partner della Germania e che aveva avuto un ruolo di primo piano nello scatenare il conflitto e nell’ampliarlo portandolo in nuovi teatri. In secondo luogo bisognava far pesare il contributo portato dalla Resistenza sia militare che civile alla liberazione dal nazifascismo. Quel contributo era stato modestissimo in termini militari, ma aveva ora un peso determinante nel dimostrare che una parte degli italiani aveva avuto un ruolo attivo nell’antifascismo. Era una sorta di riscatto morale da parte di un popolo che professava di aver subìto il fascismo e di averlo vissuto come una sciagura dall’inizio alla fine. La realtà, ovviamente, era ben più complessa e meno gratificante, ma questo era il messaggio che si voleva far passare. Il mito, insomma, ha radici più lontane, ma diventa vivo e operante fra il 1943 e il 1945, per poi rimanere attivo fino ai giorni nostri. Anzi, nel corso dei decenni esso ha assunto persino le caratteristiche di un fenomeno retroattivo, per cui abbiamo visto applicarlo anche alle imprese coloniali dell’Italia liberale prima e dell’Italia fascista poi, inclusa la guerra contro l’Etiopia, quella in cui si fece uso dei noti gas asfissianti.
Quali sono le principali fonti storiche e/o le testimonianze che supportano o che contraddicono il mito degli «italiani brava gente»?
Come un po’ tutti i miti, anche quello di cui discutiamo bene o male ha una sua base di verità. Non stiamo parlando di fandonie inventate di sana pianta in un momento successivo ai fatti di cui si dice, insomma. Sta di fatto che questo mito riposa principalmente sulle parole, sulle testimonianze e sulle memorie di guerra di coloro che furono protagonisti delle vicende di cui parliamo, i quali, dunque, giudicarono se stessi e si presentarono come «buoni», appunto. Questi uomini agirono così non perché la loro bontà autoaccreditata corripondesse necessariamente a verità, ma perché avevano tutto l’interesse a farlo, perché avevano colpe che magari volevano scansare da sé, perché avevano avuto responsabilità che non volevano sentirsi ricordare, perché avevano davanti a sé un futuro incerto nell’Italia del dopoguerra e cercavano di tirare l’acqua al proprio mulino. Non a caso, fra i primi a pubblicare in Italia memorie e memoriali sulla Seconda guerra mondiale ci furono alti ufficiali che a quella guerra avevano preso parte con ruoli attivi sui teatri di guerra o in patria presso i comandi. Queste figure gettarono in genere ogni colpa su Mussolini e sui gerarchi fascisti, descrivendoli come incompetenti, invadenti e prepotenti e indicando in loro la causa della sconfitta e del pessimo rendimento delle Forze armate nella guerra da poco conclusa. È ovvio che ci fosse una base di verità in quanto detto da queste figure, ma c’era chiaramente pure dell’esagerazione: si giocava a scaricabarile con chi, come gli «alti papaveri» del fascismo, non poteva più difendersi[4]. I meccanismi di antitesi alla base del mito del bravo italiano sono del tutto simili. L’italiano è intrinsecamente buono; le colpe sono sempre di altri; i cattivi sono sempre i tedeschi e al limite (ma in seconda battuta) i fascisti «veri», quelli che credono realmente al verbo del duce. Ora, che cosa contraddice queste verità autoaccreditate e – per così dire – autoevidenti? Le contraddicono spesso i documenti d’archivio, vale a dire le carte prodotte all’epoca della guerra, che non possono essere soggette a distorsioni e ad aggiustamenti successivi. Dopo di che, chi fa il mestiere dello storico sa benissimo che basta allargare lo sguardo ai paesi contro i quali l’Italia combatté in guerra per capire al volo che l’immagine dell’italiano buono lì non esiste oppure è quantomeno attenuata rispetto a come si presenta all’interno dei confini nazionali. Questo ha scritto uno storico italiano parlando della nostra presenza nei Balcani: «Per quanto riguarda le percezioni che gli occupati ebbero degli italiani è necessario evitare di tener conto dei ricordi ex post facto delle popolazioni occupate ove gli italiani, sistematicamente comparati ai tedeschi, fanno figura di “occupanti buoni”. Tra il 1940 e il 1943, le popolazioni occupate videro negli italiani la causa della miseria e della morte di parenti e amici, e provarono per loro profonda ostilità, sdegno e disprezzo, perché erano l’alleato debole dei tedeschi, i servi della Germania. Erano i responsabili di privazioni, repressioni, requisizioni, distruzione di abitati e raccolti, chiusura di fabbriche e commerci»[5].

Segni della battaglia tra russi e tedeschi in un villaggio russo nell’estate 1941; Archivio centrale dello Stato (Roma), Partito nazionale fascista, Fototeca Seconda guerra mondiale, busta 34, immagine 26572.
C’era una reale differenza tra gli eserciti delle varie nazioni e, nello specifico, tra tedeschi e italiani? C’erano delle oggettive differenze culturali e militari fra l’uno e l’altro esercito?
Sì, certamente. La Wehrmacht, ovvero le Forze armate tedesche del periodo nazista, avevano una lunga tradizione ed erano costituite da un corpo ufficiali per lo più di origini nobiliari attorno a cui ruotavano le nuove leve e i soldati richiamati. Il Partito nazista, che aveva origini fondamentalmente proletarie, cercò di «imborghesire» le forze armate e di limitare il peso della nobiltà presso la classe degli ufficiali, ma non riuscì a cambiare le cose in modo sostanziale. Determinante era la presenza di una classe di sottufficiali esperti che fungeva da cerniera fra l’ufficialità e la massa e che aveva un ruolo di riferimento per quest’ultima. L’addestramento della classe ufficiali era rigoroso e la meritocrazia aveva un peso determinante nell’ascesa all’interno delle singole armi. L’addestramento della truppa era anch’esso ben congegnato e proporzionato a quanto essa doveva effettivamente svolgere sul campo in tempo di guerra. Le Regie Forze armate avevano un corpo ufficiali eterogeneo, in buona parte costituito ancora all’epoca della Seconda guerra mondiale da nobili piemontesi (il che era il risultato delle modalità dell’unificazione nazionale). L’appartenenza alle classi sociali elevate costituiva per certi versi di per sé un lasciapassare per accedere al corpo degli ufficiali. I sottufficiali, che in eserciti come quello tedesco o britannico costituivano la spina dorsale dei reparti, nelle Forze armate italiane contavano poco o nulla, erano considerati alla stregua di cani da guardia per la truppa e avevano scarse prospettive di ascesa in campo sia sociale che militare. L’addestramento della truppa divenne sempre più rapido nel corso degli anni, tanto che molti soldati italiani nella Seconda guerra mondiale si ritrovarono catapultati nei vari teatri bellici con una preparazione morale e materiale scarsissima. C’erano chiaramente anche delle differenze culturali di non poco conto. La Wehrmacht, come prodotto del popolo e della cultura tedeschi, aveva nel proprio bagaglio culturale il razzismo, di cui due varianti ebbero un peso determinante nella condotta dei tedeschi sui fronti di guerra, in particolar modo nella guerra contro l’Unione Sovietica: l’antislavismo e l’antisemitismo. La Germania, anche per la propria posizione geografica nel cuore dell’Europa, era naturalmente contrapposta ad un mondo eterogeneo e frammentario che aveva ad oriente, costituito per lo più da popolazioni slave. La «questione ebraica» era ben presente ai tedeschi perché gli ebrei in Germania erano numerosi e non di rado occupavano posizioni preminenti nel mondo della cultura e in campo economico. Oltretutto, agli ebrei e all’ideologia ad essi collegata, cioè il socialismo, venivano in parte attribuite la responsabilità della sconfitta dell’Impero tedesco nella Grande guerra, dovuta al cedimento del cosiddetto «fronte interno». Per gli italiani le cose funzionavano in modo diverso. L’antislavismo era certo presente, ma si configurava come contrapposizione ai popoli confinanti nell’area adriatica. L’antisemitismo c’era ed era preesistente all’avvento del fascismo, ma aveva un peso molto minore perché gli ebrei in Italia erano pochi, avevano solo raramente posizioni preminenti e nel corso del tempo si erano mescolati alla popolazione locale, venendo anche a perdere in parte la propria identità originaria. Dopo le leggi razziali del 1938, ad esempio, una parte non indifferente del popolo italiano si abituò al fatto che gli ebrei venissero perseguitati e «discriminati» in quanto tali, ma gli italiani in blocco non sentirono come propri i metodi tedeschi, che dopo una certa data prevedevano la pura e semplice eliminazione fisica degli ebrei. Al fronte russo, ad esempio, l’impatto coi metodi tedeschi fu una sorpresa per i soldati italiani, anche se questo non significa che essi non fossero antisemiti o che non condividessero quei metodi.

Ebrei polacchi addetti ai lavori di trasporto e pulizia di una stazione nell’estate 1942; Archivio centrale dello Stato (Roma), Partito nazionale fascista, Fototeca Seconda guerra mondiale, busta 62, immagine 48927.
Come mai nell’alleanza italo-tedesca il soldato italiano emerge con un’accezione bonaria? Questo stereotipo può essere nato per un senso di inferiorità che serpeggiava inconsciamente fra i nostri soldati a causa di una migliore preparazione dell’Esercito tedesco?
Certo che sì: il popolo italiano ha avuto e ha tuttora una forte ambivalenza sentimentale nei confronti dei tedeschi, che poi è il risultato di quanto vissero i soldati italiani e i civili in patria nella Seconda guerra mondiale. Almeno fino alla fine del 1941 – ma io direi pure fino a Stalingrado – la guerra tedesca è stata un susseguirsi di aggressioni e di vittorie ottenute più o meno facilmente. La Wehrmacht impressionò tutto il mondo con la propria potenza e con la propria preparazione. Chiaramente non tutto era perfetto e la strategia di fondo che i vertici tedeschi perseguivano non era replicabile all’infinito, ma la percezione che il popolo italiano ebbe della macchina da guerra tedesca fu di una potenza pressoché inarrestabile. I primi mesi del conflitto contro l’Urss, ad esempio, aumentarono indubbiamente la fiducia che gli italiani avevano nella vittoria da parte dell’Asse. Le Forze armate italiane facevano una figura davvero modesta al confronto, tanto dal punto di vista della pianificazione del conflitto quanto da quello della guerra combattuta in sé. Le sconfitte si susseguirono e misero in luce un’innegabile differenza in diversi campi, dall’addestramento della truppa e del corpo ufficiali all’armamento in sé. Il Regio Esercito era un organo pletorico, con un alto numero di ufficiali e di soldati cui non corrispondeva un adeguato numero di armi individuali e di reparto. La meccanizzazione e la motorizzazione dell’esercito erano ancora ad uno stadio rudimentale, laddove furono proprio un buon numero di mezzi motocorazzati e il loro buon uso a permettere ai tedeschi di battere i francesi nel 1940. Il governo fascista non fu mai in grado di imporre alla grande industria la produzione di un numero decente di mezzi di buona qualità, cioè di far rendere appieno quella che era un’economia sicuramente piccola rispetto ad altre (inclusa quella tedesca), ma non disprezzabile in sé[6]. Da un punto di vista personale e umano, infine, c’era una differenza sostanziale che i soldati italiani, nelle proprie memorie, non hanno mancato di sottolineare: il soldato tedesco era tendenzialmente orgoglioso di far parte della macchina bellica germanica perché era trattato meglio ed era meglio vestito, equipaggiato e armato, il che ovviamente aveva delle conseguenze incalcolabili in termini di disciplina, di abnegazione e di «senso della patria» da parte del singolo elemento, oltre che della collettività. Ricorda un ufficiale che fece la campagna di Russia che i tedeschi erano «felici di fare la guerra, soddisfatti dei loro pesanti pastrani foderati di pelo, dei grandi guanti di lana, degli stivaloni di cuoio contenuti nelle ampie galosce, dei paraorecchi, dei passamontagna e, sopra tutto, della abbondante razione viveri che consuma[va]no con la calma trasognata di chi gusta il cibo pur essendo già satollo»[7]. Gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito, ma ci basti citare la lettera di un soldato dell’Intendenza dell’Armata italiana in Russia: «Una scatoletta [di carne] e una galletta. Questi sono i viveri di conforto che danno ai soldati in Russia con il freddo che fa […]. Il soldato è demoralizzato in un modo tale che non sente più quel[l’]amor proprio per la sua patria, è veramente trattato male e male rispettato […]. L’esempio si può prendere dai tedeschi e com’è trattato il soldato tedesco non c’è confronto con noi»[8]. Stando così le cose, tanto i vertici politico-militari quanto i soldati stessi sul campo finirono per cercare altrove, in un immaginario di comodo, virtù che potessero compensare ciò di cui difettavano da un punto di vista pratico, come l’addestramento e le armi. Secondo due storici tedeschi, ad esempio, il comandante del Corpo di spedizione italiano in Russia, generale Giovanni Messe, «aveva elaborato una spiegazione autocompiaciuta per dar conto del fallimento militare dell’esercito italiano», in base alla quale la magnanimità, l’innata bontà e la presunta incapacità di odiare dei nostri soldati avevano in larga parte contribuito agli scarsi risultati in campi di battaglia in cui lo scontro fosse di carattere prevalentemente ideologico, come il fronte russo[9]. Questa spiegazione surrettizia, oltre a trasformare oggettive carenze in discutibili pregi, permetteva di saltare a piè pari la questione della scarsa preparazione dei soldati e dei quadri comando, nonché di far scivolare sullo sfondo gli innegabili limiti strutturali del Regio Esercito.
Qual era il rapporto tra i due eserciti alleati? Ci sono episodi che dimostrano ostilità tra i comandi e le truppe italiane e tedesche?
Sì, ci sono innumerevoli episodi, ma è bene fare chiarezza. Per una parte del popolo italiano l’alleanza coi tedeschi rimase sempre qualcosa di innaturale, in specie per coloro che avevano interiorizzato l’immagine dei «teutonici» come i barbari nemici nella Grande guerra. Si tratta di un aspetto da non trascurare. Affermava un giovane romagnolo nel 1940, ancor prima dell’entrata in guerra dell’Italia: «Mi hanno ammazzato il babbo e ora dovrei andare a combattere al [loro] fianco, o per loro. Mai»[10]. In Russia c’erano anche ufficiali italiani abbastanza grandi da aver avuto come nemici diretti tedeschi e austroungarici nella Grande guerra, i quali «sent[iva]no inconsciamente l’impossibilità di dimenticare che venticinque anni prima, poco più che ragazzi, [era]no stati l’un contro l’altro, maledicendosi, a denti stretti, sul Piave»[11]. In ogni caso, al di là del reciproco apprezzamento fra alleati, durante la campagna di Russia i rapporti fra italiani e tedeschi rimasero improntati ad un leale cameratismo. Il clima veniva talora inquinato da incomprensioni e da pregiudizi da una parte e dall’altra, ma la situazione rimase positiva almeno fin quando l’Asse fu in grado di riportare delle vittorie e di avere in mano l’iniziativa bellica. Con la disfatta sul Don e con la conseguente ritirata tutto cambiò e i rapporti andarono irrimediabilmente in frantumi, come concordemente affermato da molti reduci. Iniziarono accuse reciproche di prepotenza e di incompetenza. I vertici politico-militari italiani e tedeschi, dopo un primo momento di tensione, cercarono un accomodamento che era magari possibile ad un livello «alto», anche perché la guerra doveva proseguire e ciascuno aveva bisogno dell’altro. Sul campo, invece, la situazione apparve presto irrecuperabile. Vi furono episodi reciproci di mancato cameratismo, di ostilità, di ritorsioni e di violenza conclamata. Che dopo la sconfitta sul Don le truppe tedesche avessero un comportamento prepotente, minaccioso e persino violento nei confronti di quelle italiane è un fatto certo, ma lo è altrettanto che gli italiani non mancassero di ripagare i camerati germanici con una moneta simile, come sappiamo sia dagli studi in merito che dalle memorie di guerra[12]. Scriveva a casa un soldato dei trasporti dell’Armata italiana in Russia: «In questi giorni c’è molto nero con gli alleati che credi sono quello che sono, c’è di buono che noi abbiamo carta libera in tutto e per tutto e delle autorizzazioni contro di loro anche gravi»[13]. Tali autorizzazioni consistevano nell’«ordine di sparare se trovavamo resistenza», come spiega una camicia nera in una testimonianza di decenni dopo[14]. Un militare con responsabilità di comando, appena rientrato dal fronte russo nel 1943, fu ancora più chiaro: «Con i tedeschi non si può andare d’accordo […]. Accadono risse e cinque soldati del mio reparto contro dieci soldati tedeschi ne hanno accoltellati tre, ed io ho dovuto accusare altri tre soldati tedeschi per salvare i miei. I soldati tedeschi fanno schifo perché sono privi di gelosia e perciò non capiscono gli italiani; credono che noi possiamo tollerare di essere cornuti come sono sempre disposti ad esserlo loro»[15]. I comandi italiani sul campo iniziarono una raccolta di prove di comportamenti del genere da parte tedesca evidentemente al fine di usarli in alto loco al momento opportuno. Azioni simili, per quanto non vi siano state delle conseguenze precise, denotano un danno irreversibile nei rapporti fra alleati. Non è un caso che un numero altissimo di soldati italiani sia tornato dal fronte russo con sentimenti accanitamente antitedeschi: la massa ce l’aveva coi tedeschi, non necessariamente o non ancora col fascismo che li aveva mandati a combattere in Russia.
Ma a monte di tutto questo la propaganda fascista aveva giocato un ruolo nel creare e nel diffondere l’immagine degli italiani come buoni rispetto ai tedeschi?
Sì e no, ma spieghiamo meglio. All’epoca in cui c’era ancora il fascismo, non si poteva certo affermare che gli italiani erano buoni per natura e i tedeschi cattivi per lo stesso motivo. In primo luogo questo non corrispondeva necessariamente a verità e non c’era alcun paragone da fare, almeno non prima della guerra condotta in comune in un teatro bellico come quello russo. In secondo luogo, anche se fosse esistita una base di verità, non sarebbe stato affatto conveniente affermare di essere degli esseri umani migliori dei tedeschi. Da ultimo, non si erano ancora create le condizioni necessarie a concepire e a veicolare un’immagine simile. Dopo la rottura dell’alleanza con la Germania nazista, invece, quelle condizioni ci furono e divenne l’interesse collettivo veicolarla e anche crederci convintamente. Coi tedeschi come nemici, insomma, tutto divenne più semplice e più lineare. Ciò non toglie che la base del mito del bravo italiano sia stata in parte posta già all’epoca della guerra. La propaganda politico-militare italiana cercava di far passare messaggi precisi tanto presso la popolazione civile quanto presso le truppe impegnate al fronte, nonché presso gli altri popoli. Fra i vari argomenti si ribadiva che la guerra che si combatteva al fronte orientale era finalizzata a distruggere il bolscevismo e i suoi strumenti bellici, non a danneggiare la popolazione locale (russa o ucraina), la quale, anzi, veniva presentata come una vittima del bolscevismo[16]. Un altro cavallo di battaglia della propaganda era il trattamento riservato dagli italiani ai prigionieri di guerra sovietici, asseritamente buono e improntato a sentimenti di umana comprensione, pertanto del tutto in contrasto con quello riservato dai sovietici ai prigionieri di guerra dell’Asse, presentato come puntualmente crudele e inumano. In realtà è assurdo pensare di poter invadere uno stato e di portarci la guerra senza danneggiare in modo diretto la popolazione che vi risiede, così come il trattamento dei prigionieri di guerra sovietici, quantomeno nel primo anno di guerra al fronte orientale, fu tutt’altro che buono anche da parte italiana[17]. Questi argomenti propagandistici, a volte molto distanti dalla realtà fattuale, li ritroviamo pari pari nel dopoguerra nelle pubblicazioni di carattere militare o nelle testimonianze rese direttamente dagli ufficiali impegnati al fronte russo, che hanno una evidente tendenza alla decontestualizzazione dei fatti[18].
Esiste un fronte della Seconda guerra mondiale in cui è più palpabile il sedimentarsi del mito del «bravo italiano»?
Diciamo che il mito è trasversale ai vari fronti di guerra in cui l’Italia fu presente. Tuttavia l’esperienza bellica al fronte russo è stata ed è tuttora cruciale nella nascita, nello sviluppo e nella diffusione di questa immagine, nella percezione tanto degli italiani quanto dei popoli stranieri, incluso quello sovietico (russo o ucraino, nello specifico). Ci sono diversi motivi per questo stato di cose e sintetizzarli non è facile. In primo luogo, alla guerra contro l’Urss presero parte nel 1941 oltre tre milioni di soldati tedeschi, che erano dunque ben più numerosi di tutti i corpi di spedizione degli eserciti alleati della Germania nazista, cioè finlandesi, ungheresi, rumeni e italiani (per non citare gli spagnoli e altri piccoli contingenti provenienti da mezza Europa). Anche nel periodo in cui fu al fronte l’Armata italiana in Russia, cioè quello in cui la nostra presenza fu più massiccia, i soldati italiani erano comunque circa un ventiquattresimo delle forze tedesche. Questo significa che la Wehrmacht aveva un peso, delle responsabilità e una quantità di mansioni incomparabilmente superiore rispetto a tutti gli altri: si pensi al controllo dei nodi viari e ferroviari, delle linee di comunicazione e di rifornimento, delle persone e delle abitazioni, della sicurezza in zona di guerra e nelle retrovie. Ciascun esercito aveva una propria area di competenza il cui governo era una sua prerogativa, ma i tedeschi non solo controllavano zone immense su tutta l’Urss occupata: essi erano anche presenti nelle aree direttamente governate dagli eserciti «satelliti». La lotta contro i partigiani, ad esempio, era responsabilità dei singoli eserciti e gli italiani ebbero il loro da fare in questo campo, ma le operazioni in grande stile, cioè le repressioni più violente e a largo raggio, toccavano alla Wehrmacht e alle organizzazioni propriamente naziste. È chiaro che la popolazione locale attribuiva la responsabilità della repressione antipartigiana e dell’uccisione dei civili sovietici ai tedeschi, fatta eccezione per quei in casi in cui gli eserciti satelliti avevano un ruolo non secondario[19].
Che cosa comportò questo tipo di situazione, cioè la massiccia presenza dei tedeschi al fronte rispetto a tutti gli altri?
Essa ebbe due conseguenze sul medio e lungo periodo. La prima è che i soldati italiani che presero parte alla campagna di Russia si sentirono presto buoni rispetto ai tedeschi perché in genere non erano costretti a prendere parte ad azioni contro i partigiani o a rastrellamenti di ebrei in Ucraina, ad esempio. Ovviamente, ciò non valeva per quegli italiani che queste esperienze le fecero in prima persona e che dopo la guerra non sono certo venuti a raccontarcelo. Ha avuto ampia circolazione persino una «classifica della cattiveria» dei vari belligeranti al fronte russo nella quale gli italiani occupano l’ultimo posto[20]. Ripresa più volte nelle pubblicazioni legate al mondo militare e dallo stesso generale Messe, essa dovrebbe essere la testimonianza di un comportanento bonario e corretto durante la guerra proprio perché stilata dai sovietici, cioè dalle vittime di quella guerra[21]. Quella classifica, in realtà, non tiene in alcun conto il peso, le proporzioni e i ruoli delle forze al fronte e si spiega agevolmente con preoccupazioni di carattere politico di cui diremo ora. La seconda conseguenza, appunto, è che i sovietici, incluse le loro alte sfere, tennero in grande conto sia durante che dopo la guerra l’operato e le nefandezze dei tedeschi, mentre finirono per trascurare la condotta degli altri popoli, inclusi quelli finlandese e ungherese, che in realtà durante la guerra si macchiarono di gravi crimini rispettivamente contro i prigionieri di guerra e contro la popolazione civile, per esempio. Questo, ovviamente, rispecchiava anche la situazione venuta a crearsi dal 1944-45 in poi in Europa orientale, che era sotto il controllo diretto di Mosca e che i vertici sovietici non intendevano colpevolizzare in blocco per la partecipazione alla guerra passata. L’agenda politica sovietica aveva grande peso anche con gli italiani, vale a dire un popolo che nel dopoguerra si ritrovava in campo atlantico, ma presso il quale il Partito comunista godeva di larghissimi consensi.
Quali erano le esperienze quotidiane dei soldati del Regio Esercito durante la campagna di Russia? Come si confrontavano con quelle dei soldati tedeschi?
Chiaramente le esperienze di guerra combattuta erano similari. Per quanto riguarda tutto ciò che non era la guerra condotta in prima linea con le armi in pugno, le esperienze degli italiani differivano molto a seconda del reparto cui appartenevano, del luogo in cui si trovavano e del momento in cui operavano. Non si può assimilare il vissuto di un soldato delle retrovie con quello di un militare di un reparto combattente, così come la parte finale della campagna, quella con la battaglia sul Don e la ritirata, costituisce un caso a parte rispetto a tutto il resto del tempo al fronte. Un’altra distinzione da fare è tra coloro che fecero la sola esperienza del territorio a ridosso del Don, nella Russia propriamente detta, e coloro che invece iniziarono la guerra prima o che vissero comunque anche in ambiente urbano, ad esempio nei centri medio-grandi dell’Ucraina orientale, che rimase sotto il controllo italiano per un anno e mezzo circa. Le zone rurali erano tendenzialmente spopolate, fatte di villaggi in cui risiedevano per lo più donne, vecchi e bambini, cioè una fetta della popolazione di norma ben disposta nei confronti degli occupanti anche perché costretta dalle circostanze a conviverci. Viceversa, nelle città e cittadine industriali sovietiche c’erano molte più persone e non mancavano uomini ed elementi ideologizzati, legati in qualche modo e misura al comunismo, tendenzialmente ostili agli occupanti, italiani inclusi.
Ma durante la campagna di Russia come si comportavano i soldati italiani nei confronti della popolazione civile locale?
Anche in questo caso è importante distinguere fra reparto e reparto, fra zona e zona e fra i diversi momenti della campagna. In generale è ovvio che i soldati italiani non andarono in Urss a fare una «guerra di sterminio», in primo luogo perché non è detto che fossero a conoscenza dello sterminio in atto, in secondo luogo perché la guerra di sterminio la facevano la Wehrmacht e le organizzazione naziste per conto anche degli altri. Ciò non toglie che pure gli italiani, al pari dei tedeschi, si trovassero lì per fare una «guerra di rapina», fatto evidente che molti fra loro avevano ben chiaro. È molto importante entrare nell’ottica di queste persone, nate e cresciute in un mondo diverso e molto distante dal nostro, per le quali portare la guerra in casa d’altri e portare a casa propria ciò che si poteva arraffare era la norma, non un’azione riprovevole come appare a noi oggi. Detto questo, apparirà chiaro come gli italiani, così come tutti gli altri belligeranti al fronte, abbiano portato in Urss morte e distruzione non solo con le armi, ma pure con le azioni dei singoli volte a sacheggiare il territorio. Il solo approvvigionamento delle truppe, per fare un esempio, veniva effettuato sul posto sfruttando le risorse locali, il che voleva dire toglierle alla popolazione. Questo era il quadro generale, che non va mai dimenticato. Dopo di che è bene tenere a mente che non tutti gli italiani in Urss allora si rendevano conto di questo stato di cose. La propaganda di guerra li aveva convinti che il regime bolscevico tenesse la popolazione in uno stato di perenne miseria morale materiale, per cui facevano fatica a distinguere la normalità dalla devastazione portata dalla guerra che essi stessi combattevano.
Allora questi soldati – si potrebbe dire – avevano una morale diversa dalla nostra? Ragionavano in base a schemi mentali differenti?
Certamente. Non bisogna mai fare l’errore di giudicare le loro parole e le loro azioni in base alla nostra morale di persone mediamente progredite che si trovano ormai ampiamente dentro al XXI secolo. Lo storico sa di non dover mai «fare il giudice», per cui noi non li stiamo giudicando dal lato morale, ma dobbiamo pur prendere atto della loro distanza antropologica da noi. Gli italiani giunsero in Urss nel 1941 dopo quasi 8 decenni di violenza trascorsi fra repressione del «brigantaggio» e guerre coloniali condite di lotta antipartigiana, per non parlare della Grande guerra. Per molti di loro la guerra come fatto umano era la norma, era la quotidianità, il che non significa che non avessero paura della morte o che la scomparsa di un congiunto al fronte non fosse un evento luttuoso, ma di sicuro non percepivano tutto questo come noi oggi. Certo, non va dimenticato che il fronte orientale, fra battaglie immense e stermini di ebrei e di prigionieri di guerra, vide un dispiegamento di violenza senza precedenti per tutti, ma gli standard morali con cui i soldati lo affrontarono erano molto diversi. In un contesto come quello c’era sempre un «peggio», cioè un termine di paragone negativo rispetto al quale sentirsi migliori, più bravi, più buoni. Coi tedeschi e con le unità naziste come le SS e simili, insomma, si vinceva facile. Questo fece sì che rubare alla popolazione diventasse un fatto trascurabile, laddove l’omicidio e lo sterminio di massa erano diventati la norma. Ecco come mai, in riferimento al fronte russo, si sono affermati detti di carattere consolatorio del tipo «meglio ladri che assassini»[22]. Questo tipo di ragionamento, in realtà, è sbagliato per almeno due motivi. Innanzitutto non si tiene conto del fatto che chiaramente non tutti i tedeschi erano assassini a sangue freddo: combattere in un reparto impegnato in prima linea o nei trasporti, ad esempio, non era certo paragonabile al far parte di unità deputate alla caccia ai partigiani e agli ebrei. In secondo luogo, non si tiene conto del fatto che, in un contesto di miseria e di fame nera quale quello dell’Urss sotto l’occupazione dell’Asse, il furto non era certo un peccato veniale, perché metteva a rischio la sopravvivenza dei depredati, che di norma se la passavano male o molto male. Gli italiani, sia presso la popolazione locale che presso i tedeschi, si fecero presto una reputazione di ladri, fatto oltretutto documentato dalle carte dei tribunali militari, che parlano non solo di piccoli furti con dolo o con destrezza (come si dice in gergo giuridico), ma pure di rapine a mano armata. Che i soldati tedeschi avessero un comportamento migliore da questo punto di vista non dipendeva solo da una questione di disciplina del singolo o del reparto, ma pure dal fatto che la Wehrmacht era in grado di rifornire di più e meglio le proprie truppe. Gli italiani rubavano sicuramente per abitudine e per opportunismo, ma pure per bisogno, il che trova riscontro nella condotta dei rumeni e degli spagnoli, per esempio, anche’essi in genere più indisciplinati e peggio riforniti[23].

Gruppo di soldati intorno ad una mucca in Ucraina nell’agosto 1941; Archivio centrale dello Stato (Roma), Partito nazionale fascista, Fototeca Seconda guerra mondiale, busta 35, immagine 26967.
Quali sono stati i comportamenti realmente bonari dell’Esercito italiano in Russia? Quali fatti e gesti verso la popolazione hanno portato a considerare che in effetti gli italiani si siano comportati meglio degli altri eserciti e che siano quindi davvero un popolo di «brava gente»?
Bisogna distinguere fra due piani diversi: uno è la percezione dei soldati italiani da parte della popolazione locale sotto occupazione; l’altro è la percezione che i soldati italiani avevano di se stessi. Anche questo secondo aspetto andrebbe scomposto fra l’autopercezione dei soldati all’epoca della guerra e quella che si è formata dopo, pure presso il popolo italiano. In linea di massima, alcuni comportamenti dei comandi e dei soldati italiani possono essere visti come miti e accomodanti, da cui l’idea che gli italiani fossero buoni. Si tratta di una questione apparentemente semplice, ma in realtà complessa e stratificata, che si può provare a spiegare con degli esempi pratici. Gli italiani non sempre effettuavano il fermo di persone sorprese in zone in cui queste non abitavano e in cui non avevano il permesso di stare, così come non sempre facevano rispettare rigidamente le regole sul coprifuoco o sull’oscuramento dei locali. Essi non facevano sistematicamente «giustizia sommaria» di persone arrestate perché sospettate di far parte del movimento partigiano, così come non lasciavano volutamente morire di fame i prigionieri di guerra sovietici. Un civile o una civile russi o ucraini che avessero ufficialmente un impiego lavorativo presso un comando o un reparto italiani avevano buone probabilità di salvarsi da uno dei tanti rastrellamenti di civili effettuati regolarmente dai tedeschi nell’Urss sotto occupazione.
Nella memorialistica italiana, appunto, ci sono numerose testimonianze che supportano la tesi dell’italiano buono. Parecchi reduci parlano di un diverso approccio degli italiani verso la popolazione rispetto al comportamento tedesco. Emerge da queste testimonianze anche un malcelato disagio nel rapportarsi ad un alleato ritenuto spietato, opportunista, poco umano. I reduci riferiscono spesso che la stessa popolazione temeva i tedeschi, mentre era benevola e ben disposta verso gli italiani. Ma questi racconti e questi comportamenti presumibilmente più «umani» da parte italiana hanno un riscontro nella storiografia e nei documenti d’archivio, dato che le testimonianze non possiamo contestarle e dobbiamo prenderle per buone?
In realtà, tutto quanto abbiamo detto ora non significa che gli italiani avessero un animo buono o una fisiologica disposizione al bene: significa piuttosto che il termine di paragone era coi tedeschi, i quali avevano finalità e interessi diversi dai nostri e soprattutto disponevano di mezzi adeguati per conseguire i risultati che si prefiggevano. Dal punto di vista del controllo del territorio e della popolazione, i tedeschi erano indubbiamente più efficienti e puntuali, il che li rendeva più pericolosi per i civili in generale e per chiunque avesse qualcosa da nascondere in particolare, per cui anche più odiati. I civili sovietici non consideravano gli italiani come dei buoni: semplicemente li vedevano come il male minore in un contesto fatto di miseria, di morte, di persecuzioni e di rastrellamenti di masse da deportare altrove come serbatoi di lavoro coatto. Di questo chiaramente risentiva anche la percezione che gli italiani avevano di sé. È indubbio che alcuni soldati del Regio Esercito, nel tragitto verso il fronte russo, donassero pane, gallette o altri cibi ai civili affamati, in specie ai bambini che si affollavano presso le tradotte militari. Questi gesti spontanei, comunque, vanno assunti parallelamente al reciproco commercio di beni che si svolgeva nelle stesse circostanze ed è bene non dimenticare che gli occupanti, tutti gli occupanti in Urss, vivevano a spese della popolazione. È certo pure che alcuni ebrei siano stati messi al riparo dai tedeschi nelle tradotte italiane, ma anche questo avveniva parallelamente al salvataggio di donne ebree che venivano sottratte alla persecuzione razziale, ma erano al contempo sfruttate sessualmente da soldati del Regio Esercito. Sintetizzando, la percezione degli italiani da parte dei civili russi e ucraini era viziata da un termine di paragone negativo spesso inarrivabile, mentre l’autopercezione dei nostri soldati, dalla quale scaturisce quella che noi abbiamo oggi di loro, è fondata su una memoria selettiva e omissiva, che decontestualizza certi fatti e che ne tralascia volutamente altri.

Soldato con due bambini russi in un’aia nell’autunno 1941; Archivio centrale dello Stato (Roma), Partito nazionale fascista, Fototeca Seconda guerra mondiale, busta 39, immagine 30550.
[1] Italiani brava gente, regia di Giuseppe De Santis, uscito nel 1964 per la Titanus Film di Roma.
[2] Antonio Bellati (a cura di), Italjanskij choroscij-Italiano buono. Gli alpini valsassinesi reduci dalla campagna di Russia raccontano ancora, Banca di piccolo credito valtellinese, Sondrio 1985.
[3] Vedi Angelo Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Donzelli, Roma 2003, pp. 107-127.
[4] Vedi Lucio Ceva, Prime riflessioni sulla guerra italiana. Interpretazioni, testimonianze, apologie, in «Italia contemporanea», anno LI (1998), n. 213, pp. 895-910.
[5] Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 205.
[6] Su questo tema vedi Lucio Ceva e Andrea Curami (a cura di), La meccanizzazione dell’esercito fino al 1943, Ufficio storico dello Stato mggiore dell’Esercito, Roma 1989.
[7] Stefano Rudie, Harasciò. Russia non inventata, Laterza, Bari 1951, pp. 138-139.
[8] Lettera del 15 febbraio 1943 di Pierino Marchini, CDL Battaglione territoriale mobile, in Archivio centrale dello Stato, Roma (d’ora in poi Acs), Ministero dell’Interno (Min), Direzione generale di Pubblica sicurezza (Dgps), Divisione Affari generali e riservati, Categoria A/5G, busta 30, fascicolo 12.
[9] Sönke Neitzel e Helmut Welzer, Soldaten. Le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri degli alleati, Garzanti, Milano 2012, pp. 326-327.
[10] Nota fiduciaria datata Forlì, 28 aprile 1940, in Acs, Min, Dgps, Divisione Polizia politica, fascicoli per materia, busta 234, fascicolo 1.
[11] S. Rudie, Harasciò, cit., p. 140.
[12] Alessandro Massignani, Alpini e tedeschi sul Don, Gino Rossato, Valdagno 1991, pp. 134-135; Nuto Revelli, Mai tardi. Diario di un alpino in Russia, Einaudi, Torino 2001 (1a edizione 1946), p. 176.
[13] Lettera del 28 gennaio 1943 di Ivo Fontanelli, LX Autogruppo pesante, in Acs, Min, Dgps, Divisione Affari generali e riservati, Categoria A/5G, busta 30, fascicolo 12.
[14] Testimonianza di Nardino Carestini, Raggruppamento camicie nere «23 marzo», in Giuseppe Piergentili (a cura di), La voce dei cristalli. Fronte russo 1941-43, Herald, Roma 2009, p. 126.
[15] Nota fiduciaria datata Roma, 12 gennaio 1943, in Acs, Min, Dgps, Divisione Polizia politica, fascicoli per per materia, busta 215, fascicolo 2.
[16] Solo due esempi: Michail Semirjaga, Alcune questioni circa il collaborazionismo con le autorità d’occupazione in Urss (1941-1944), in «Annali della Fondazione Luigi Micheletti», anno VI (1992), p. 418; Mino Argentieri, Il cinema in guerra. Arte, comunicazione e propaganda in Italia 1940-1944, Editori riuniti, Roma 1998, p. 130.
[17] Raffaello Pannacci, L’occupazione italiana in Urss. La presenza fascista fra Russia e Ucraina (1941-43), Carocci, Roma 2023, pp. 69-90.
[18] Un solo esempio: Costantino De Franceschi e Giorgio de Vecchi, I servizi logistici delle unità italiane al fronte russo (1941-1943), Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Roma 1975, pp. 189-193 e passim.
[19] Vedi R. Pannacci, L’occupazione italiana in Urss, cit., pp. 91-116.
[20] Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito (Roma), H/8, busta 82, fascicolo 656: Prigionieri italiani nell’Urss, l’ambasciatore italiano in Urss Pietro Quaroni al Ministero degli Affari esteri, 11 maggio 1945.
[21] Giovanni Messe, La guerra al fronte russo. Il Csir, Mursia, Milano 2005 (1a edizione 1947), p. 307.
[22] Così scriveva Giorgio Bocca, Storia dell’Italia nella guerra fascista 1940-1943, Laterza, Roma-Bari 1969, p. 390.
[23] R. Pannacci, L’occupazione italiana in Urss, cit., pp. 141-148.