Intervista a Luchino Dal Verme

di Patrizia Marchesini

Intervista del 21 maggio 2012

“La guerra è una cosa vergognosa ed è solo per trasmettere questo messaggio che vale la pena di scrivere questi ricordi”


Luchino Dal Verme, classe 1913, nasce a Milano. Sottotenente del Reggimento Artiglieria a Cavallo, arriva al fronte orientale con il C.S.I.R., nel luglio 1941, dopo avere preso parte alle operazioni al confine italo-francese – nel 1940 – e sul fronte jugoslavo.
Rimpatriato per avvicendamento nell’autunno 1942, vive i giorni dell’armistizio, che lo porteranno a una scelta sofferta.
Con il nome Maino – che era una marca di biciclette dell’epoca – comanderà in un primo tempo la Brigata Casotti e in seguito la Divisione Antonio Gramsci, entrambe operative nell’Oltrepò Pavese. Luchino Dal Verme offre uno spaccato di quegli anni, e intenzionalmente non ne esplora i momenti più crudi.
“Il tuo lavoro – mi ha scritto – è servito a rinfrescare la memoria della enorme fortuna, che io chiamo Grazia, di riportare a casa quel dono fantastico che è la vita e permettermi di vivere con moglie, figli e nipoti, operai, contadini, albe e tramonti, pulcini e vitelli, che hanno riempito di gioia e soddisfazione tanti lunghi anni.”
Sono davvero grata a Luchino – persona spontanea e gradevolissima – e alla sua famiglia per avermi accolto con tanta gentilezza.

Sono nato nel 1913… l’anno prossimo compirò cento anni. La mia memoria, quindi, ha delle lacune comprensibili…

Così ha esordito Luchino Dal Verme, quando ho acceso il registratore. Come potrete constatare, la sua memoria è invece vivissima e quanto segue è la trascrizione della nostra chiacchierata, in un giorno piovoso di maggio.
Luchino Dal Verme ha poi riletto il testo e mi ha scritto una lettera: “[…] Per timore di cadere nella retorica, come vedi, ho detto poco su rischi, pericoli, fatiche, decisioni al buio, sofferenza, provvisorietà quotidiana della vita, mine, neve, gelo, fame. […] Pensaci tu. […]”
Dopo il suo suggerimento ho quindi deciso di aggiungere pochi dettagli, sulla base di alcune relazioni stilate all’epoca dal Comando del Reggimento Artiglieria a Cavallo.

La caserma Santa Barbara, sede storica delle Voloire, ospita ancora oggi il Reggimento, insieme ad altri reparti. Com’era scandita la giornata, allora, per un giovane ufficiale delle batterie?
Per i giovani ufficiali la giornata trascorreva in un certo modo. La mia giornata, invece, era tutta diversa. Per esempio, arrivavo in caserma con il primo tram. Questo perché pretendevo che gli artiglieri facessero ginnastica prima di montare a cavallo. Ero fermo su tale aspetto con il Colonnello comandante il Reggimento… giungevano in caserma dei giovani architetti, grassocci, molli, non certo abituati a montare. Un minimo di esercizio era essenziale e – nonostante fossi un semplice sottotenente – convinsi di questo il Colonnello, che mi lasciò fare. Ho preparato tre classi di giovani reclute, mettendole a cavallo e portandole fino al giuramento.
Dopo la ginnastica, si governavano i cavalli e poi cominciava l’equitazione vera e propria. Avevamo dei grandi maneggi, in cui durante la mattina si susseguivano quattro rimonte, di un’ora ciascuna. Ma prima, lo ripeto, era fondamentale la ginnastica, per prepararsi un pochino. Vede, i cavalli si accorgono se li monta una persona inesperta e tendono ad approfittarsene. La mia ginnastica aiutava a prevenire problemi seri in caso di cadute. Perché le cadute capitavano, eccome.

Quindi tutti gli appartenenti al reggimento dovevano saper montare?
Tutti. Una volta giunte al Reggimento, le reclute venivano assegnate sia ai cannoni, sia agli uffici o ai vari servizi. Sottolineo una cosa. I marescialli erano le persone più importanti del Reggimento, per certi versi ancora più importanti del Colonnello comandante, in quanto di solito restavano a lungo presso le batterie a cavallo, mentre i colonnelli rimanevano in carica tre anni. I marescialli, ogni volta che arrivavano le nuove reclute, avevano una lista di… raccomandati. Gente che avrebbe voluto essere destinata agli uffici e che avrebbe evitato volentieri l’equitazione. Ma io insistevo che – raccomandati o meno – tutti imparassero a montare. Pretendevo che almeno i primi venti giorni di caserma fossero uguali per tutti, senza distinzioni.

Partì per la Campagna di Russia con il C.S.I.R.?
Sì, nell’estate del 1941. Eravamo in Jugoslavia, per tenere divisi i Serbi dai Croati. Di colpo arrivò l’ordine di rientrare perché dovevamo partire per la Russia. Partimmo senza nessuna preparazione psicologica, con i garofani infilati nelle bocche da fuoco. Tra l’altro io avevo un piede rotto, in quel periodo, e feci una fatica enorme. Sostituimmo qualcosa… le tirelle(1), le parti più logore dei finimenti… Arrivammo in treno fino a una località di cui non ricordo il nome (secondo una relazione ufficiale del Comando Tattico del Reggimento, datata 20 settembre 1941, una parte del Reggimento giunse in treno fino a Botosani, una parte fino a Borsa e una parte giunse invece a Máramarossziget, n.d.r.). Poi proseguimmo con i cavalli e con i nostri automezzi fino a un paesino sul fiume Dnepr.

Il kepì da sempre è il copricapo delle batterie a cavallo. In Russia, però, le Voloire furono mandate con bustina ed elmetto, senza dubbio più funzionali. C’era, comunque, nel vostro equipaggiamento, qualcosa di particolare che si differenziava da quello degli altri reparti?
Direi di no. Avevamo i cannoni Krupp da 75/27, bottino di guerra del primo conflitto mondiale. Le racconto un episodio. Fui distaccato presso un reparto di Tedeschi per un’esercitazione. Erano paracadutisti che avevano preso una bella batosta sull’isola di Creta (2) e, per punizione, furono mandati in Russia. Le esercitazioni, poche per la verità, naturalmente si svolgevano indietro, rispetto alla linea del fronte, in piccole vallette defilate. Comunque, il Colonnello comandante il reparto tedesco, quando vide i nostri cannoni, disse: “Ah, i 75/27. Ottimi, erano nostri, una volta.” Insomma, voglio farle capire che avevamo in dotazione armi un po’ vecchie.

Ci furono disagi che il reggimento in generale – o lei in maniera specifica – si trovò ad affrontare durante l’avanzata?
Per esempio, come reagivano i cavalli ad attraversare i fiumi sui ponti di barche?
Il problema più grave era la pioggia. Non c’erano strade vere e proprie, nella steppa. Non appena le piste si bagnavano, si trasformavano in… sapone. I camion assegnati al nostro Reggimento erano SPA 38, avevano la trazione posteriore e nel fango erano subito fermi. I cavalli – seppure a fatica – riuscivano a procedere. Per questo motivo capitava che dovessimo fermarci, per poi riprendere il mattino successivo. In effetti eravamo l’unico reparto di artiglieria – anche considerando quelli tedeschi – che in condizioni simili fosse in grado di proseguire. Tutti i nostri serventi montavano, mentre in altri reparti i serventi venivano trasportati sui pezzi d’artiglieria.
Mi ha chiesto dei ponti di barche: in principio i cavalli avevano un po’ paura, soprattutto del rimbombo prodotto dal loro avanzare. Poi si abituavano al rumore. Vuole sapere come abbiamo passato il Dnepr?
Ci dissero: “Tenetevi pronti, perché alle tre di mattina, con il buio, si attraversa il fiume, dopo l’intervento del Genio.” Le tre, le quattro… le sei, le sette… I genieri arrivarono alle otto, per cui la traversata sarebbe dovuta avvenire in pieno giorno. Io non ero assolutamente d’accordo, era una mossa imprudente e pericolosa. Ma passammo. Alle due del pomeriggio, in un paesino subito di là dal fiume, ricordo che mi addormentai in moto, per la stanchezza, per la tensione.

In moto?
Sì. Non ricordo per quale incarico fossi tornato indietro, ma mi avevano dato una moto. In seguito raggiunsi di nuovo il reparto e proseguii in moto per un po’, mentre il mio cavallo era rimasto sottomano a qualcuno. Finii in coda a una Batteria, e a un certo punto mi accorsi di avere dormito mentre guidavo, perché mi trovai in terra. Andò bene, non mi feci niente.
Avanzammo, finché da un edificio enorme, un villone a forma di ferro di cavallo, ci spararono contro con le mitraglie. Siccome eravamo assegnati alla Divisione Celere, i bersaglieri sollecitarono il nostro intervento. Piazzammo i cannoni. Un comandante di Batteria ci ammonì: “Adagio con le munizioni, che non ce n’è.” Pensi, eravamo al fronte e quasi dovevamo chiedere il permesso di sparare! Comunque riuscimmo a debellare le postazioni delle mitragliatrici, passammo il primo corpo dell’edificio e ci ritrovammo nel cortile. C’era una pianta meravigliosa, tutta rovinata dai nostri colpi. Ferita. Per me era un simbolo, e scrissi alla mia mamma per raccomandarle un cipresso che avevo piantato. Volevo che crescesse, che diventasse alto. Se guarda dalla finestra, può vederlo. È ancora lì.
Raggiungemmo una balka, con un torrentello. Niente a che vedere con il Dnepr, in certi punti ampio un chilometro. I Russi in precedenza avevano bombardato il ponte su questo piccolo corso d’acqua per impedirci di proseguire, e lo avevano danneggiato. Si trattava di un ponte in legno, costruito tre dita sotto il pelo dell’acqua, in modo che fosse poco individuabile.
Ero stanchissimo, poiché avevo perso due notti di sonno. Se ne salti una te la cavi, ma se non dormi per due notti di fila… sei cotto. Anche gli altri ufficiali del Gruppo erano sfiniti. Ma bisognava andare avanti, così chiamai uno dei nostri, un ufficiale paurosissimo. Io rispettavo la paura, perché chi ha paura può diventare un pericolo per se stesso e per gli altri; quell’ufficiale era meno provato di me e di altri colleghi, quindi bisognava che per una volta si mettesse in gioco. Il ponte andava rimesso in sesto durante la notte, così gli affidammo gli uomini necessari, gli mostrammo una catasta di travi e gli dicemmo di avvisarci non appena il lavoro fosse stato ultimato. Andai a dormire, finché sentii chiamare: “Luchino, Luchino!”
Era lui, l’ufficiale pauroso. Farfugliò qualcosa riguardo al ponte e cadde a terra, svenuto. Pensi lo sforzo sostenuto da quell’uomo, con i Russi che si erano accorti delle nostre manovre! Considerai il suo agire coraggiosissimo e volevo proporlo per una medaglia, e gli altri ufficiali a dirmi: “Dai, Luchino, è un fifone.” Ma io ci tenevo, proprio in virtù del superamento della sua solita indole.

Ho scoperto l’esistenza dei ponti invisibili in un libro dedicato a Savoia Cavalleria.(3) Suppongo che anche in questa circostanza i cavalli fossero impauriti.
Nel passare il Dnepr era soprattutto il rimbombo – c’erano dei piloni in metallo – a spaventarli. Qui il problema era che tali ponti non si vedevano, sembrava non ci fossero. I cavalli erano comprensibilmente titubanti, ma noi mettevamo in testa i meno ombrosi e gli altri, come pecoroni, a poco a poco si convincevano e li seguivano.

Ho letto che lei in Russia fu destinato al Reparto Munizioni e Viveri del III Gruppo. È vero?
Ho sempre fatto parte del I Gruppo(4). In alcuni periodi prestai servizio come ufficiale del Reparto Munizioni e Viveri, ma passai anche molto tempo negli osservatori.

Quindi fece parte di una pattuglia O.C.?(5)
Sì, fui spesso ufficiale osservatore, in quanto assegnato al Comando Gruppo.

Ha accennato agli SPA 38 assegnati al Reggimento. A parte le difficoltà dovute alle condizioni delle piste sovietiche con il maltempo, approvvigionare i reparti divenne forse più difficile, a mano a mano che ci si allontanava dalle zone agricole per addentrarsi in quelle industriali e minerarie?
Le risorse locali erano scarsissime. L’unico che riusciva a procurarsi qualcosa era un maresciallo maniscalco… si chiamava Carena. Un ometto grande così, ma era una persona in gambissima. Aveva un camion tutto per lui e si occupava della ferratura dei cavalli. Consideri che ogni batteria ne aveva circa cento, centoventi. Con il procedere dell’avanzata divenne sempre più difficile trovare il ferro necessario per la ferratura. Ma lui ci riusciva, prelevandolo dalle inferriate di stabilimenti o edifici abbandonati.

E per quanto riguarda i generi alimentari?
Il cibo arrivava dall’Italia, a volte con grande ritardo, tanto che il pane era verde, perché troppo vecchio, perché si era bagnato nel trasporto. Poi, più avanti, i reparti furono muniti di forni speciali e il problema in parte fu risolto, anche se bisognava sempre aspettare due o tre giorni perché il pane arrivasse. La nostra alimentazione base consisteva in carne e brodo. Uccidevamo i cavallini russi. Al mattino, prima di muoverci, si preparava questa sorta di zuppa, che veniva sistemata nelle famose casse di cottura. Poi si partiva.

Quindi eravate costretti a ricorrere alle risorse del luogo, per mangiare.
Sì. Andavamo avanti di carne, brodo e pane. Quest’ultimo alimento era da tutti ritenuto indispensabile. Avevamo poi la famosa “giornata di riserva”, da utilizzare in casi di emergenza. Mi spiego. Quando si riceveva tutto il corredo, dalla divisa agli speroni, veniva consegnata anche la “giornata di riserva”. Altro non era che una confezione di pane. Ottimo. Tipo cracker.

Si riferisce alle gallette militari?
Sì, proprio a quelle. Erano squisite. Candide. Purtroppo erano confezionate in una bustina di carta. Immagini lei quanto potevano resistere, nelle bisacce della sella, che erano due grandi tasche di pelo di capra.

Ma la “giornata di riserva” era costituita soltanto da gallette? Non c’erano anche alimenti di altro genere, come le scatolette di carne, tipo la Simmenthal odierna?
Probabilmente sì. Ma io ricordo soprattutto le gallette. Buonissime, ma che – dopo un mese – nessuno più aveva, perché sbriciolate o mangiucchiate. Ogni tanto io pretendevo che non si cucinasse e si consumasse “legalmente” la giornata di riserva. In modo che poi ce ne venisse consegnata un’altra.

La relazione già citata – del 20 settembre 1941 – riporta parecchi dettagli sui disagi sopportati dalle Voloire… nei giorni di pioggia l’autocarreggio del Reggimento, al pari di quello di tutti i reparti autotrasportati, era costretto a fermarsi per ore, con innegabili ripercussioni negative sui rifornimenti e sugli approvvigionamenti. Nello specifico, si riuscì sempre a provvedere il cibo per i cavalli, in quanto biada, frumento e orzo erano reperibili in zona con facilità. A volte si ricorse anche alle barbabietole.

Una relazione successiva, però, datata 30 novembre 1941, sottolinea che le difficoltà furono ben maggiori in seguito, durante l’avvicinamento al bacino del Donez: per circa quarantacinque giorni rifornire uomini e cavalli si rivelò davvero problematico. L’autocarreggio impiegò spesso settimane intere per compiere una distanza che i reparti a cavallo avevano percorso in una o due tappe. Le conseguenze sono intuibili, in quanto i tre Gruppi del Reggimento dipendevano dai relativi reparti Munizioni e Viveri, che si spostavano appunto con gli automezzi. Con una certa previdenza, già ad agosto e settembre il Comando aveva pensato di ovviare a possibili inconvenienti mediante la requisizione di carretti locali, il cui utilizzo si limitò al trasporto dell’indispensabile: un rimedio di fortuna, inadeguato a soddisfare le esigenze dei Gruppi.
In questo periodo difficile la ricerca del cibo per i cavalli si effettuava in territorio in cui erano costanti le infiltrazioni dell’avversario sovietico e questo causò alcune vittime e dispersi. Nelle ultime due settimane di novembre i cavalli rimasero “senza un filo d’erba e un chicco di biada” anche per due giorni consecutivi.

Spesso, per esigenze tattiche, si avanzava al seguito di Savoia e Novara Cavalleria, al di fuori delle piste, su terreni coltivati o arati di recente; con il fango i pezzi e i cassoni delle munizioni sprofondavano fino al mozzo e questo comportò fatiche indicibili sia per gli uomini sia per i quadrupedi. A tali sforzi si aggiungeva la minaccia costante delle mine, sparpagliate ovunque.

Secondo la relazione, a fine novembre i cavalli deceduti – quasi tutti in ottobre e novembre – erano 219, quelli inefficienti (per denutrizione e/o esaurimento) circa 200.

I Tedeschi.
Eravamo sul fiume Dnepr. Tutti i reparti un po’ ammassati, in attesa di passare. A un certo punto vedemmo dei fagotti sull’acqua. Ci chiedemmo cosa fossero, sul momento non riuscimmo a renderci conto: erano i cadaveri degli Ebrei uccisi che galleggiavano e fluivano nella corrente. All’improvviso ci accorgemmo di cosa fosse la guerra, di cosa comportasse. I Tedeschi… avevano dei mezzi corazzati enormi, stavano lassù e guardavano dall’alto noi, a cavallo, deridendoci. Poi, quando ci fu il periodo del fango, rimasero impantanati come tutti gli altri, e noi andammo avanti.

Un ricordo particolare?
Una mattina – eravamo pronti a partire, cavalli attaccati – arrivò un aereo russo, che causò la morte di un nostro artigliere. Si chiamava – lo rammento benissimo – Altassara: un ragazzo molto in gamba… lavorava e viveva nel carro officina. Si era organizzato un letto appeso. Noi, all’arrivo dell’aereo, ci buttammo a terra. Lui, invece, era ancora in branda e – lei sa come succede con le bombe – le schegge lo colpirono e lo uccisero.

Ha parlato di carro officina…
Sì, c’era un tornio, c’era un minimo di attrezzatura per provvedere alle riparazioni più semplici… le ruote dei cannoni, i freni…

Ufficiali delle Voloire e semplici artiglieri. Com’erano improntati i rapporti, fra voi?
Ottimi. Far parte del Reggimento era una scuola. Almeno, io ho ricevuto un grande insegnamento: ho fatto tre anni di psicologia, di filosofia e soprattutto di modo di rapportarsi con l’altro. Chi è l’altro uomo, colui che ci sta di fronte? Questa era la scuola del Reggimento.

La Battaglia di Natale del ’41 vide anche il coinvolgimento delle Batterie.
A dire il vero mi avevano distaccato a fare non so cosa e venni a sapere quanto era accaduto nel nostro settore il giorno successivo: era la notte di Natale. Avevano fatto il risotto. I Russi attaccarono e sfondarono le posizioni di un piccolo reparto, portandosi via i cannoni di Majnoni D’Intignano(6). Tutti svegli, e poi ci fu battaglia per recuperare i cannoni.

Una relazione del 31 dicembre 1941 cita l’episodio. All’alba del 25 dicembre la Batteria del capitano Majnoni D’Intignano era schierata a Ivanovskij, a  protezione di un caposaldo avanzato. Rimasta senza munizioni, con i cavalli in parte uccisi e in parte catturati dai Sovietici, che erano riusciti a insinuarsi alle sue spalle, fu costretta ad abbandonare i pezzi, dopo avere ricevuto alle 14.30 l’ordine di sganciamento dal Comando del III Gruppo. I pezzi furono poi riconquistati il  27 dicembre durante un contrattacco condotto dagli artiglieri della Batteria stessa, insieme ai bersaglieri.

Nella sola giornata del 25 dicembre il III Gruppo contò 6 morti, 7 feriti, 18 dispersi e la perdita di 67 cavalli.

Con quanto accadde poi tra il dicembre 1942 e il gennaio 1943, c’è la tendenza a trascurare i combattimenti della Prima Battaglia Difensiva del Don. Lei dove si trovava, in quei giorni?
Ero lì e ho partecipato… ed è vero che spesso si è inclini a sorvolare sul prima, su tutto quanto accadde in precedenza. Invece… quante fatiche!

Quando fu rimpatriato?
Nell’autunno-inverno del 1942.

Francia, Jugoslavia,  e infine la Russia. Credo sia fuori luogo fare paragoni, ma le chiedo comunque se e come si modificò il suo stato d’animo con il progredire del conflitto, in rapporto anche ai fronti diversi su cui si trovò a combattere.
Le prime domande, i primi scrolloni li ebbi a partire dal 1940, con la nostra entrata in guerra. Richiamati alle otto di mattina, alle otto di sera eravamo già a cavallo, sotto un diluvio… tutta la notte in sella, diretti al confine con la Francia, io con lo stendardo che portava al centro lo stemma dei Savoia. Per noi era quasi una reliquia, all’epoca. Procedevamo verso il Moncenisio. Ero a fianco del Colonnello, e gli domandai: “Scusi, ma cosa ci hanno fatto di  male i Francesi?”, lui rispose: “Cosa vai a chiedere… non devi porti questi interrogativi. Non è affare che ti riguardi. Noi dobbiamo obbedire, è questo il nostro dovere preciso, abbiamo un giuramento che ci impegna. Sulle nostre caserme c’è scritto Credere, obbedire, combattere… noi non possiamo capire.” Pensa te. Poi per fortuna al nostro reparto non venne richiesto di sparare. Per me quella fu una cosa gravissima.

Prima dell’8 settembre lei si trovava a Lugo, in provincia di Ravenna. Con quali compiti?
Bisognava ricostituire il Reggimento, che in Russia era andato più o meno distrutto.

In Romagna ritrovò appartenenti alle Voloire che avevano affrontato i giorni del ripiegamento? Cosa le raccontarono?
Qualcuno. Fecero dei quadri drammatici. Pericoli, paure, perdite numerosissime, diarree… Comunque dovevamo rimettere insieme le fila. Amalgamare i reduci con le nuove reclute. I vecchi provavano un disprezzo totale nei confronti dei nuovi arrivati.

Subito dopo l’8 settembre e la firma dell’armistizio arrivò presso di voi un motociclista con una busta gialla e senza intestazione…
Quel motociclista si chiamava Fontana, guardi, mi ricordo il nome. Comunque, aprii la busta e il contenuto era diverso dal solito. Non rispettava le gerarchie rigide e tipiche dell’ambiente militare. Diceva: “Il Comando di Divisione ha ordinato che domani mattina tutti gli ufficiali si trovino a rapporto a Forlì.”

Si riferisce a un Comando di Divisione tedesco o italiano?
Italiano. Iniziammo a discutere, a soppesare, a farci domande. Saremo stati una dozzina – al massimo quattordici – intorno a quel tavolo. Ma non c’era il Colonnello comandante, ecco perché ero stato io – in sua assenza – ad aprire la busta. Dopo l’8 settembre attendevamo ordini e ci chiedevamo cosa in realtà significasse, per noi, quanto era scritto su quel foglio. Scoprimmo poi che il Colonnello comandante il Reggimento stava tentando di raggiungere il Re al sud. Aveva scritto una lettera per avvisarci che non si assumeva la responsabilità di troncare gli ordini del Comando di Divisione, ma allo stesso tempo decise in prima persona di non rispettare tali ordini e di andare a sud. Un compromesso, insomma. Ci lasciò così.

Chi era, questo Colonnello?
Si chiamava Pacinotti. Fior di individuo, che noi stimavamo.

Lei ha definito Vittorio Emanuele III con un termine molto forte… Le leggo alcune righe tratte da una testimonianza di Alessandro Cicogna Mozzoni(7): “Il Re non è stato responsabile del disastro dell’8 settembre perché il potere esecutivo spettava a Badoglio, Primo Ministro e Comandante in Capo delle Forze Armate, che furono lasciate senza ordini e disposizioni, causando così il crollo completo dell’Esercito.” Ovvio che lei dissente. Potrebbe spiegare perché?
Intorno a quel tavolo, a Lugo, alle due o alle tre di mattina… a un certo punto mi alzai e dissi: “Secondo me chi tradisce è il Re.”
Gli altri furono subito pronti a rimbeccarmi: “Luchino, cosa dici?” Ma quello era il mio pensiero. Il Re era il capo supremo, e lui aveva tutte le responsabilità. Certo che, vecchio com’era, avrebbe dovuto abdicare in favore del figlio. Comunque ci trovammo di fronte a una scelta molto difficile. Le opzioni erano tre: seguire l’esempio del Colonnello Pacinotti; presentarsi al Comando di Divisione, secondo l’ultimo ordine militare ricevuto; oppure andare a casa. Prima di lasciarci ci stringemmo tutti la mano e ci promettemmo di non rinfacciarci mai la scelta fatta quel giorno. Nessuno era convinto di essere nel giusto, in quel momento così particolare.

Senza fare nomi, le capitò – una volta terminata la guerra e negli anni successivi – di incontrare ufficiali che avessero compiuto una scelta diversa dalla sua? Furono incontri sereni, riusciste cioè a mantenere la promessa?
Sì, incontrai in seguito qualcuno che quel giorno decise in maniera diversa, ma riuscimmo a capirci.

E Mussolini? Di recente ho visto un documentario(8) in cui si dice che il Duce ha sempre finto di essere l’uomo d’acciaio che il patto omonimo richiedeva. In realtà era insicuro come ognuna delle persone che lo avevano applaudito nelle piazze. Insicuro e ambizioso? In uno dei suoi discorsi(9) Mussolini disse che voleva rendere il popolo italiano finalmente protagonista della sua storia.
Era uno sbruffone,  molto in gamba. Capacità oratorie indubbie, un trascinatore. Intelligentissimo. Se poi, nel suo intimo, fosse un insicuro o un timido… non posso saperlo. Non era, in ogni caso, un uomo qualunque. Non era uno sciagurato come certi politici attuali. Era un uomo (enfatizza la parola)… altro non saprei dire, non ho mai avuto contatti. Come la maggior parte degli Italiani di allora, l’ho sempre visto al balcone, o a cavallo.

“L’armistizio poteva essere fatto meglio? Certamente peggio non poteva essere fatto…”
È una mia frase. E ancora adesso insisto su questo. Il nostro Stato Maggiore andava informato. Tre giorni prima dell’armistizio ero andato a Milano perché avevano fatto pervenire a Lugo delle munizioni sbagliate. Quindi, come ufficiale, avevo ricevuto l’incarico di riportarle indietro. Nel rientrare in Romagna, vidi Tedeschi da tutte le parti. A Parma, a Modena. Ovunque. Se lo aspettavano. I nostri Comandi, no.
L’8 settembre il Paese si sciolse. Ricorda quando crollarono le Torri Gemelle, a New York? Di colpo si videro soltanto un polverone enorme, e gente che scappava in tutte le direzioni. Lo stesso accadde all’Italia dopo la firma dell’armistizio. Tutti fuggivano, compresi i podestà…

… che erano i sindaci di allora.
Esatto. A Lugo venne da me una persona. Mi disse: “Lei, signor tenente, è il comandante, qui…” Ma cosa comandavo, io? Non c’era più niente. “No, signor tenente, lei comanda ancora. Guardi, devo scappare. Sono stato fascista. Sono il padrone di un circo equestre, ma bisogna che mi nasconda e lascio le gabbie con dentro le tigri.”, “Tu sei pazzo da legare.”, gli risposi io “Troveremo una soluzione.” Tutti scappavano, non tanto per paura dei Tedeschi o di vendette, nel caso del direttore del circo. Scappavamo dalle nostre memorie, dai nostri morti. Nel fango erano finite le greche dei generali e gli stendardi di cui eravamo stati orgogliosi.

Dopo l’8 settembre, dopo quella riunione tra ufficiali, ci fu il distacco dai suoi uomini. Difficile. Ognuno, dopo aver servito l’Italia, era diventato all’improvviso responsabile per se stesso.
Comprai una risma di carta e divisi in due i fogli perché non avevo abbastanza soldi. Su ogni foglietto così ottenuto scrissi: “Ha servito con onore il suo Paese.”
Ne consegnai una copia a ognuno dei miei artiglieri… erano settantadue. Ci salutammo.

Anche gli altri ufficiali si regolarono alla stessa maniera?
Macché. Però io ci tenevo a una sorta di congedo ufficiale, militare. In un momento in cui tutto stava andando allo sfascio.
Tornai a casa a piedi e con mezzi di fortuna, senza percorrere la Via Emilia, naturalmente, per non farmi prendere dai Tedeschi. Pagai solo un traghettatore del Po. Tutte le altre persone con cui venni in contatto mi aiutarono senza chiedere nulla. Di fronte a tale generosità, fra me e me pensai: “Questo Paese si salva.”

Rimase nascosto cinque-sei mesi, a riflettere sul da farsi. Fu un sacerdote a farla meditare sul concetto di libertà. E poi fu spronato da Italo Pietra(10). Quando prese la decisione di unirsi alla Resistenza, come reagì la sua famiglia, che in passato aveva addirittura fornito precettori a casa Savoia? Si aspettavano forse che avrebbe tentato di raggiungere il Re al sud?
Un inciso sui precettori. Un mio nonno fu infatti in un primo tempo un precettore della famiglia reale, e poi divenne aiutante di campo. Mentre svolgeva quest’ultimo incarico, scrisse una lettera ai Savoia: “State attenti. Voi state crescendo i vostri figli e i vostri nipoti in mezzo alle sottane e alle poltrone di Racconigi. Invece bisogna farli viaggiare, dare loro una cultura. Dovranno governare…” Stiamo parlando circa del 1870. Tornando a noi. Quando arrivai qui dopo l’8 settembre le mie sorelle dissero che la mamma non aveva fatto altro che andare dalla sala alla porta d’ingresso. Sapeva – con il cuore – che sarei arrivato. Lo sapeva anche perché aveva ospitato altri soldati che stavano cercando di raggiungere le loro case e le loro famiglie. Rimasi nascosto, sì. Ero demoralizzato, non volevo più saperne, di niente. Fino ad allora avevo sempre saputo quale fosse il mio dovere – magari non facendolo fino in fondo – ma in quel momento non avevo più certezze. La mamma mi diede una pacca sulla spalla: “Non sei solo.”
Il papà non mi disse mai cosa si sarebbe aspettato. Penso credesse che avrei cercato di raggiungere il Re. Quando invece decisi di unirmi a formazioni di matrice comunista, la mia mamma si attaccò al rosario. Però i miei genitori mi aiutarono fino in fondo.
Come ho detto, rimasi nascosto e, a poco a poco, mi resi conto, e come me tanti altri, che i Tedeschi avevano portato avanti una guerra che era un… crimine. Vidi uccidere una donna, qui in Italia, che stava scendendo dal marciapiede. Ebrea e incinta. E io fui al loro servizio per anni, anche in Russia. Cosa eravamo andati a fare? Ebbi la possibilità di ascoltare Radio Londra. Prima, i discorsi di Mussolini e quanto si leggeva sui giornali o si ascoltava alla radio erano Vangelo. Diffidavo di chiunque e, in generale, mi diede fastidio la posizione della Chiesa. Fu ambigua, cercò sempre di scegliere il minore dei mali: secondo la Chiesa i Tedeschi erano l’unico baluardo contro il comunismo.

In un primo tempo, per le sue precedenti esperienze militari, le venne affidato il comando della Brigata Casotti e, in seguito, quello della Divisione  Gramsci. Ai partigiani si unirono uomini di ogni estrazione e mestiere.
All’inizio ebbi un incontro con alcuni capi. Volevo fosse chiaro che non ero comunista, pur prendendo il comando di una formazione. Avevamo tutti una cosa, in comune: un fronte militare contro i Tedeschi. Non c’era da parte mia un impegno politico, né per il presente né per il futuro. In questo modo riuscimmo ad andare avanti benissimo, anche dopo la guerra.

Se non sbaglio ci fu un reparto di Cecoslovacchi – posto dai Tedeschi a presidiare un ponte – che passò con voi. Come erano arrivati in Italia e cosa ricorda di loro?
Erano prigionieri… sicuramente ci fu un compromesso e i Tedeschi li arruolarono; in quel caso specifico si trovavano sul ponte a manovrare la contraerea. Poi decisero di unirsi a noi e si dimostrarono fior di gente. Li tenevamo su in alto, in luoghi poco accessibili… se i Tedeschi li avessero presi, a quel punto li avrebbero ammazzati.

Le divisioni Garibaldi erano di matrice comunista e prevedevano un commissario politico. Lei comunista non era. Quello fra voi fu un rapporto facile?
Fu un rapporto ottimo. Studiò la storia della mia famiglia. Sapeva chi c’era dietro di me, sapeva delle mie esperienze precedenti. Mi contattò per convincermi, ma io ero ancora titubante. Gli dissi che non mi fidavo dei suoi capi: essendo stato in Russia, avevo visto come andavano le cose, là, e che uomini pericolosi fossero quelli che comandavano in Unione Sovietica.

I partigiani e la popolazione locale. I partigiani e gli Alleati.
Il mio, il nostro rapporto con la popolazione locale fu fantastico. La loro collaborazione fu indispensabile. Persi due civili: senza dirmelo, di loro iniziativa, portarono da mangiare a un mio distaccamento. I Tedeschi li videro e li fecero fuori. Nonostante questo, il sostegno non venne mai meno: non ci mancarono mai un pezzo di pane o un po’ di formaggio.
Gli Alleati, all’inizio, non si fidavano. Sapevano che eravamo una formazione comunista e temevano, nel fornirci delle armi, che un giorno avremmo rivolto quelle stesse armi contro di loro. Poi ci furono dei Canadesi che fecero da intermediari, garantirono per me e per Italo Pietra, dissero che ci conoscevano bene. E così le cose cambiarono un pochino.

Il 25 aprile a Milano, durante una riunione, il CLNAI (Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia) emise la condanna a morte nei confronti di Mussolini e dei maggiori gerarchi fascisti. Sarebbe stato meglio, secondo lei, sottoporre il Duce a regolare processo (sempre a opera del CLN) o addirittura consegnarlo agli Alleati?
Consegnarlo agli Alleati? In teoria sì. Ma dubitavamo. Si temeva che l’avrebbero portato in giro, esibendolo su “palcoscenici” di vario tipo. Alla fine credo non ci fosse altro da fare che ucciderlo.

Nella notte tra il 25 e il 26 aprile lei – con i suoi uomini – attaccò Casteggio. Furono, per lei, le ultime ore dedicate al combattimento?
Sì. In seguito Raffaele Cadorna – comandante in capo del Corpo Volontari della Libertà – mi affidò un incarico faticoso e difficile… trattare la resa di un reggimento di artiglieria tedesco. Non dormii due notti.
Poi scappai da Milano. La tensione nervosa degli ultimi giorni era stata troppa. Fucilate da tutte le parti. Disordini ovunque. Non partecipai a nessuna cerimonia, a nessun festeggiamento. Arrivai qui, a Torre degli Alberi, e feci festa con la gente. Mi rifiutai di tornare a Milano. Una mia cugina, amica di Edda Ciano, era venuta a trovarmi in Russia, al seguito di Edda, quando quest’ultima era giunta in visita al Fronte Orientale (nella primavera 1942, n.d.r.). Bene, questa cugina mi avvisò che Umberto di Savoia sarebbe andato a Milano e mi chiese di raggiungerla, così avrebbe potuto presentarmelo. “Io vengo,” risposi “ma sia ben chiaro che non gli stringerò la mano. Anzi, gli dirò che ha mancato ai suoi doveri, sia come Re, sia come cittadino italiano.” Lei replicò: “Ma, Luchino, come si fa a parlare in quel modo lì?”. Da quel momento fui squalificato da parte della famiglia.

29 aprile 1945, Piazzale Loreto. Il rumore, le grida della folla. Alcuni spararono dei colpi al cadavere del Duce, sembra addirittura che a un certo punto qualcuno gli avesse infilato un topo morto in bocca. I corpi furono poi appesi a testa in giù, forse non per un’umiliazione ulteriore, bensì per difenderli in qualche modo dalla rabbia della gente che, finché i corpi stessi rimasero a terra, infierì in maniera spietata. Nel documentario già citato Damiani intervista molte persone che quel giorno si trovavano a Piazzale Loreto: alcune affermano che Mussolini meritasse tutto ciò, altre ritengono che quell’accanimento fu inutile e disgustoso.
Io mandai i miei partigiani per buttare indietro la gente, per trattenerla. L’esposizione dei cadaveri fu un errore madornale.

Mi sembra che lei abbia affermato che qualsiasi film non riesce a descrivere o comunicare in maniera adeguata cosa fu la Resistenza. La vedova di Umberto Fogagnolo(11), alla fine del documentario, ha detto che la Resistenza è una pagina d’amore, amore verso la libertà. Si ritrova in questa definizione?
Parlerei di dedizione, di servizio nei confronti della libertà. Amore è una parola enorme. Non la userei in questa circostanza.

NOTE
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(1) Strisce di cuoio (oppure funi o catene) che, dal pettorale o dal collare degli animali da tiro, vanno ad agganciarsi al bilancino o alle stanghe del veicolo, e servono a trainarlo.

(2) Riferimento alla Battaglia di Creta (20 maggio-1 giugno 1941), cui prese parte la 7a Flieger Division. I combattimenti terminarono favorevolmente per i Tedeschi, ma la Divisione riportò perdite molto numerose. Provvista di nuove reclute la Divisione fu inviata nel settore di Leningrado nel settembre 1941 e rientrò in Germania nel dicembre dello stesso anno. Il 2o Reggimento Paracadutisti, però, rimase al Fronte Russo fino a giugno 1942, per poi fare a sua volta ritorno in Patria.

(3) Lucio Lami, Isbuscenskij, l’ultima carica, Mursia, Milano, 1970.

(4) Tale discrepanza può essere spiegata con il fatto che vi furono cambi di denominazione al momento della partenza per il Fronte Russo: “Le disposizioni dello Stato Maggiore furono però applicate integralmente nel 1941 alla ricostituzione del 3o Reggimento Artiglieria a Cavallo per la Russia, quando infatti il Gruppo a Cavallo del 3o Celere (ex I) assume la denominazione di III, mentre quello del 1o Celere (ex III) assume quello di I.”; e ancora: “[…] il 24 luglio 1941 [il maggiore Vincenzo Borghini-Baldovinetti, n.d.r.] entra a far parte con tutto il Gruppo (che assume l’ordinativo di III) del neo costituito 3o Reggimento Artiglieria a Cavallo, destinato al Corpo di Spedizione Italiano in Russia (C.S.I.R.).” Massimo Iacopi, Il Reggimento Artiglieria a Cavallo e il 2o Celere, Rivista Militare, 1986, pagg. 410 e 436.

(5) O.C.: Osservazione e Collegamento.

(6) Il capitano Majnoni D’Intignano comandava la 5a Batteria.

(7) Voloire – Memorie per la storia, Marziano Brignoli.

(8) Finché dura la memoria, Damiano Damiani, 1980.

(9) Milano, 25 ottobre 1932.

(10) Italo Pietra (1911-1991) fu giornalista – direttore del Giorno e del Messaggero – e autore di libri che documentano la storia italiana del Novecento. Nel suo saggio I Grandi e i Grossi (Mondadori, 1973), un capitolo è dedicato a Luchino Dal Verme. Italo Pietra fu personaggio importante della Resistenza, con lo pseudonimo Edoardo. Come Dal Verme (il cui pseudonimo era Maino, dal nome di una marca di famose biciclette dell’epoca) era lontano dall’ideologia comunista.

(11) Umberto Fogagnolo fu uno dei quindici giustiziati in Piazzale Loreto il 10 agosto 1944, come rappresaglia per un’azione attribuita ai Gappisti milanesi. In tempi successivi l’attentato suscitò controversie (il dubbio è che non fu nessuna formazione partigiana a effettuarlo, e che si trattò di un atto terroristico deliberato per stroncare – a causa della rappresaglia successiva – ogni simpatia popolare verso la Resistenza). L’esecuzione di quelle quindici persone, prelevate dal carcere di San Vittore, scosse molto la città di Milano. Simbolicamente fu quindi proprio a Piazzale Loreto che vennero esposti i cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci e di altri gerarchi uccisi il 28 aprile 1945.

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