Intervista a Giuseppe Bassi

di Achille Omar Di Leonardo

Roma, 29 ottobre 2007

L’intervista telefonica a Giuseppe Bassi è stata la prima pubblicazione sul sito del centoventesimo (all’epoca centoventesimo.com). Il contenuto delle domande è spesso banale e si nota tutta l’inesperienza dell’intervistatore. Ritengo però utile pubblicarla integralmente perché non lascia nulla per scontato.

Nota
In corsivo giallo indica le interruzioni o le introduzioni al testo che segue.
Roma, 29 ottobre 2007

In quale clima politico è cresciuto?
Era un clima patriottico e nazionalista che noi giovani, con i nostri vent’anni, vivevamo con entusiasmo. Eravamo cresciuti nel periodo della propaganda fascista e la scuola proseguiva il suo indottrinamento che ci portava ad avere un amor di patria che oggi sarebbe inconciliabile.

La sua famiglia come vedeva questo clima politico in cui crescevate?
La famiglia non contrastava questi nostri sentimenti, sia chiaro, perchè anche le famiglie erano coinvolte e vivevano in quel clima.

E Mussolini cosa rappresentava per voi?
Era il rappresentante del fascismo e del nazionalismo dell’Italia dell’epoca. In quel periodo non sentivamo nessuna oppressione di tipo dittatoriale, assolutamente!

Ha partecipato alle adunate o al premilitare?
Naturalmente. Tutti i sabati quando si tornava da scuola, si andava alle adunate. Io per esempio ero un “protestatario”, cercavo tutte le scuse per non andare in piazza a marciare, perchè mi infastidiva. Mi seccava fare le “marcette” in piazza, quegli uno, due, tre… mi dava fastidio, così trovavo tutte le scuse per non farle, tornavo a casa e poi andavo dal Capo Manipolo che ci comandava e dicevo “ah… sa… sono arrivato a casa tardi da scuola, sono stanco… non ho voglia…” e lui mi diceva “beh, allora…vai in ufficio e vai a scrivere le carte che ci sono da scrivere”.

Viste queste premesse, aveva mai pensato di arruolarsi volontario?
Io sono andato via volontario! Il clima era tale che io, come del resto gli altri giovani miei coetanei, ci saremmo considerati “impediti” se non avessimo partecipato e se non ci fossimo arruolati. Ho chiesto io di andare in Russia. Arruolarsi era una cosa giusta e naturale per noi giovani cresciuti in quel clima. Tra settembre e ottobre del 1941 ho frequentato la scuola ufficiali di Lucca e, finita la scuola ufficiali e dopo essermi diplomato, mi sono arruolato.

A quale età si è arruolato quindi?
Avevo vent’anni.

Come ha appreso l’inizio della guerra e quale clima c’era al momento?
C’era un clima da troposfera, si vivevano con entusiasmo quelli che erano gli avvenimenti del periodo. Si ascoltavano i discorsi di Mussolini in piazza ed era un entusiasmo collettivo che non ci induceva ad avere la paura di entrare in guerra.

Ma non c’era il timore per la guerra?
No, assolutamente, nessuno pensava alla guerra come “la guerra” anche perchè nessuno l’aveva fatta prima, tranne quelli che erano andati nel 1935- 36 in Africa. Anzi, si vivevano con entusiasmo gli avvenimenti bellici.

Com’era possibile che non si avesse un’idea di quello che poteva essere la guerra, non eravate terrorizzati all’idea?
Noi non eravamo affatto terrorizzati! Gli slogan come “Vincere Vinceremo” in qualche modo ci rassicuravano, c’era un clima tale che non pensavamo a quelle che potevano essere le conseguenze di una guerra.

La sua famiglia invece? Come vedeva l’entrata in guerra?
In famiglia qualche preoccupazione c’era, ma più in mia madre, naturalmente. Mio padre, che aveva 80 anni, poteva chiedere che io restassi per accudire la famiglia e quindi una sera, una delle tante sere che tornavo da Padova (la sera tornavo sempre a casa) dalla caserma dov’era il 120°, vedendo che parlavo con entusiasmo del mio arruolamento, mi chiamò in disparte e mi disse: “Io potrei fare domanda affinché tu rimanga al distretto militare. Noto però che tu hai un tale entusiasmo per questa esperienza che ti chiedo se devo inoltrare questa domanda oppure preferisci che mi astenga?” Io gli dissi: “no, è meglio che tu non la consegni”. A quel punto, mio padre che aveva già preparato la minuta, un lettera dove scriveva che lui aveva una certa età e che richiedeva che io restassi al distretto, dovette cestinarla.

E sua madre?
Mia madre naturalmente non avrebbe voluto che io andassi via e dopo quell’incontro con mio padre lui disse “a tua madre allora non dirò nulla”. Mio padre aveva capito quanto ci tenessi e quindi mi disse “non ti ostacolerò nella tua scelta”. Lui era coinvolto quanto me da questa esperienza e non era troppo preoccupato rispetto alle conseguenze.

La paura per le sorti della sua famiglia?
No, non lo pensavo. Non lo consideravo anche perchè non pensavo di andare in guerra a morire, non pensavo mai al peggio, infatti mi sono salvato.

Beh, è stato fortunato!
Sì, d’accordo, ma questa mia convinzione, questa mia determinazione, il voler fare mi hanno aiutato in qualche modo. Deve considerare che se avessi voluto avrei potuto evitarla la guerra. Il giorno 3 dicembre 1941 ero in Italia e il giorno 24 ero prigioniero, potevo trovare il sistema di fermarmi a Millerovo (cittadina nelle retrovie ndr) anziché andare al fronte no? Potevo farlo e invece quando sono stato a Millerovo, era il giorno 17, e mi hanno detto che il reggimento era stato coinvolto in un primo attacco, beh io non ho esitato e ho chiesto di andare e raggiungere il reggimento (divisione Celere ndr). Non c’era il senso della paura, non a caso mi sono arruolato volontario.

Prima di partire per la Russia , ha partecipato ad altre campagne di guerra?
No, anche se avevo vissuto con grande euforia gli avvenimenti della guerra di Spagna e se avessi avuto l’età, dicevo sempre, mi sarei arruolato volontario.

Quindi in quale corpo d’armata era inserito?
Ero nell’ottavo corpo d’armata, 120° reggimento artiglieria, ero un artigliere della terza divisione Celere (PADA)

Era già un ufficiale?
Ero Sottotenente.

Quando ha appreso il trasferimento per la Russia ?
Ho chiesto io di essere arruolato in questo reggimento di formazione che si stava approntando per la Russia. Avevo appena terminato la scuola di ufficiali, mi pare fosse autunno, quando sono arrivato mi hanno destinato al distretto di Padova e sono andato in caserma del ventesimo (il 120° era l’ex 20° artiglieria ndr) e lì c’era l’approntamento di questo reggimento (il 120° artiglieria motorizzato) per la Russia e allora io chiesi di essere trasferito a questo reggimento.

Quindi lì non conosceva ancora nessuno.
No, anche perchè sono stato io, insieme al Maresciallo Menebus (un vecchio Maresciallo di quelli da distretti) che abbiamo cominciato l’approntamento di questo nuovo reggimento, lo abbiamo formato noi a Padova. Appena sono arrivato a Padova sono entrato a far parte di questo nucleo che si stava formando.

La partenza, nell’animo dei commilitoni, aveva cambiato qualcosa all’entusiasmo iniziale?
Non facciamo scherzi! L’entusiasmo rimaneva eccome, era li! Quando siamo partiti, mi ricordo che, alla stazione, cera un moderato entusiasmo in tutti noi. Sapevamo che stavamo andando in zone di guerra ma non c’era il terrore di andare in Russia.

Conoscevate i luoghi dove sareste arrivati?
No, sapevamo unicamente che saremmo arrivati in territorio russo e dopo sei giorni di viaggio attraverso Romania, Ungheria ecc.. siamo arrivati in zona di operazione.

Rispetto alle condizioni climatiche che avreste poi trovato in Russia, eravate stati preparati?
Si, avevamo tutta l’attrezzatura invernale: il cappotto con pelliccia, mutandoni lunghi di lana ecc.. avevamo l’attrezzatura sufficiente per affrontare la guerra d’inverno.

Come si svolgevano le istruzioni per la guerra? Eravate già preparati dall’Italia oppure erano compiti che vi sareste dati lì appena arrivati?
Eravamo già preparati per approntare dei reparti che andavano in zone di operazione, l’addestramento si faceva in caserma.

Da quale città siete partiti e con quale mezzo?
Siamo partiti con la tradotta da Padova, dalla caserma Piave.

Quando e a che ora siete partiti?
Siamo partiti di notte, alle 0,25 dell’8 febbraio 1942 (quindi il 9 febbraio mattina subito dopo mezzanotte ndr), lo ricordo bene anche perchè era la festa degli universitari di Padova e un mio amico, che era universitario, è andato a festeggiare e poi è partito insieme noi.

Ha avuto l’impressione che l’equipaggiamento bellico fosse adeguato per la guerra che stavate per affrontare?
Per noi sì, perchè avevamo i nostri mezzi, i cannoni 75/27, 100/17 ecc.

Che conoscevate bene…
Avevamo fatto addestramento con quelli, quindi…

Come si svolgeva il viaggio, cosa succedeva all’interno dei vagoni quando eravate in viaggio?
Eravamo in vagoni attrezzati, si passava il tempo a chiacchierare, si scendeva giù alle stazioni o per prendere bibite o per procurarci qualche panino e poi, in sei giorni, siamo arrivati al fronte.

Eravate sempre con il morale alto?
Ma naturalmente!

Parlavate della guerra? Cercavate di immaginarvela?
No, nessuno pensava a come sarebbe stata la guerra né all’idea di come l’avremmo combattuta, non avevamo nessuna idea dello scenario di guerra, forse non ci si pensava neanche.

Come avete salutato i familiari? Chi c’era alla stazione al momento della partenza?
Io avevo salutato i miei a casa ma quelli che venivano da fuori avevano familiari lì in stazione, c’erano le mamme, i papà e i familiari a salutarli.

Aveva un legame con una ragazza quando è partito?
Allora c’erano le madrine di guerra, ognuno di noi ne aveva per lo meno una con la quale si corrispondeva, io ne avevo due o tre.

Com’eravate organizzati all’interno del convoglio? C’erano degli scomparti?
Io avevo una brandina al mio seguito, altrimenti si dormiva a terra, sui pagliericci nei vagoni. Erano in comune vagoni merci con sportelloni scorrevoli. Avevamo una stufa in ogni vagone, eravamo in inverno.

Gli ufficiali e i soldati viaggiavano negli stessi vagoni?
C’erano i Sottoufficiali nei vagoni con i soldati e gli ufficiali che avevano il vagone per conto loro. Sì, eravamo separati ma poi, ufficiali e sottoufficiali, ci si muoveva tra un vagone e l’altro, c’era la possibilità di passare da una parte all’altra quindi, in realtà, non si sentiva questa separazione. Si andava a trovare gli amici che erano in altri vagoni. Sei giorni sono tanti per cui ci si muoveva da una parte all’altra, si chiacchierava, si cercava il modo di far passare il tempo.

I servizi igienici dov’erano?
Le vetture degli ufficiali avevano i servizi igienici altrimenti i soldati scendevano dai vagoni quando si era fermi.

C’erano delle regole da rispettare durante il viaggio? La sveglia, il pranzo…
Non bisognava indugiare troppo nelle soste, non bisognava stare troppo fuori, gli ufficiali esercitavano un certo controllo in questo senso ma senza esagerare, per il resto c’era estrema libertà.
La mattina ci si svegliava per il caffè che veniva distribuito alle stazioni. A pranzo veniva confezionato il rancio, c’erano le scatolette di carne e i viveri di riserva.

Le armi pesanti viaggiavano insieme a voi?
Sì, ognuno aveva con sé l’arma e le armi pesanti erano al nostro seguito.

Quanti reparti di artiglieria c’erano sul treno dove viaggiava il 120°?
Eravamo solo noi, c’era il reggimento con i cannoni e le batterie al completo. Non si faceva confusione tra i reparti, il 120° partiva per conto proprio con i propri mezzi. Noi eravamo autotrasportati, avevamo al seguito i nostri camion che trainavano anche i cannoni, se non avevamo i trattori.

Che conversazioni si facevano durante il viaggio tra i soldati, immagino, delle diverse regioni d’Italia?
Si pensava ai luoghi dove saremmo arrivati, le banali conversazioni che si possono fare normalmente, si cantava anche, ovviamente, mi ricordo c’era “la contadina bella” insomma le canzoni dell’epoca. Distinzioni regionali non c’erano, eravamo semplicemente italiani. Non c’era la prevaricazione tra nord e sud.

Se dovesse definire il viaggio d’andata lo definirebbe un “bel viaggio”?
è stato un viaggio che si può dire spensierato, non ci sono stati momenti difficili, la strada era sicura. Siamo passati attraverso la Romania… poi arrivammo alla stazione di Jasi, non distante da Odessa, abbiamo tirato giù i nostri camion e da lì abbiamo proseguito da noi, con i nostri mezzi.

Quindi le soste che facevate erano solo di servizio?
Sì, certo, soste tecniche che fanno i treni.

Quando siete arrivati avevate dei compiti già stabiliti?
Siamo arrivati nella zona di operazione dove c’era la linea difensiva che le nostre truppe e i tedeschi avevano ottenuto durante l’inverno. Eravamo in febbraio (1942 ndr). Il Don lo abbiamo raggiunto in agosto. Noi abbiamo sostituito un battaglione di paracadutisti tedeschi sul fronte di Orlowi-Ivanovka. Il fronte passava a Nikitino-Orlowi-Ivanovka-Ivanowski in quelle posizioni lì, alle spalle di un paesetto, di un villaggio di quelli tipici russi. A 4 km da questo villaggio, c’erano le linee del fronte che passavano attraverso. C’era un paesaggio di piccole alture, il paesaggio russo, le cosiddette “montagne russe”, piccoli avvallamenti. In questa zona avevamo la linea del fronte con bunker scavati nel terreno e i camminamenti.

A che ora siete arrivati?
Siamo arrivati di giorno e abbiamo preso posizione con le carte, io ero al comando del primo gruppo. Siamo andati in un’isba e abbiamo reso operativo l’ufficio per, eventualmente, dirigere i tiri.

Quanti gruppi eravate?
Eravamo tre gruppi di artiglieria

L’umore al momento della sistemazione sul fronte com’era?
Siamo arrivati sempre con entusiasmo perchè si arriva nelle mete che erano state indicate come zone d’operazione

I soldati, in generale, cosa dovevano essere in grado di fare rispetto all’uso delle armi?
I nostri artiglieri erano istruiti per dirigere i tiri d’artiglieria, quindi hanno delle tavole di tiro dove ci sono determinati obiettivi da prendere come esempio che applichi sul goniometro che si trova sul pezzo d’artiglieria. Gli artiglieri erano stati addestrati alla scuola di Pordenone, un corso di addestramento per saper usare il goniometro e saper fare i calcoli con le tavole a disposizione.

Pordenone dunque era un centro di addestramento. So che mio zio faceva la spola tra l’Aquila e Pordenone appunto. È possibile che frequentasse questo corso?
Si vede che anche lui era con il reparto d’artiglieria. C’era questo centro di addestramento ma io non ci sono mai andato perchè ero al comando di gruppo, sono rimasto in ufficio ma gli artiglieri facevano scuola di tiro lì.

Com’era il rapporto tra i superiori e i soldati?
Ottimo, c’era sempre cordialità tra gli ufficiali e i soldati in tutti i corpi d’armata, tra gli artiglieri, tra gli alpini, tra i bersaglieri, c’era un grande rispetto reciproco.

Qual è la gerarchia all’interno comando?
Il comando di gruppo era formato da un comandante e gli ufficiali del comando e poi c’erano i sottufficiali e la truppa. Quindi, per esempio, su un centinaio di artiglieri per i tre gruppi di artiglieria, con tutti i servizi, gli uffici e le salmerie, c’era un’unione di persone che agivano con cordialità e collaborazione reciproca affinché tutto funzionasse a dovere. Partendo dal soldato si saliva sù ai caporali poi ai sergenti che tenevano i collegamenti tra la truppa e gli ufficiali che comandavano i vari reparti.

I superiori erano nominati per grado di istruzione ed erano anche i più anziani?
Noi che eravamo di prima nomina e che venivamo dalla scuola avevamo tutti sui venti, ventidue anni. Poi c’erano di quelli che erano volontari che avevano anche 19 anni, sia nella truppa che tra gli ufficiali.

Si era legato particolarmente ad un compagno?
Sì, certo, io ero veramente legato con un amico sottotenente di Bologna che aveva fatto tutta la mia stessa trafila, siamo partiti da Padova assieme. Abbiamo formato il reggimento, eravamo fra coloro che hanno formato il reggimento per la partenza e quindi, con questo mio amico Martelli (Guido Martelli anche lui si è salvato come me) abbiamo fatto il servizio a Padova così come il servizio in Russia e stavamo anche per fare la licenza insieme. Io sarei tornato in licenza per fare gli esami ma poi mi venne trasformata in licenza premio, per cui gli esami non li ho più fatti. Al momento della licenza però solo io sono riuscito a farla mentre il mio amico si è ammalato ed è rimasto all’ospedaletto da campo. Feci tutto il mese di novembre del 1942 a casa. Inizialmente volevano mandarmi in licenza a maggio ma in quel mese c’era in previsione di fare l’avanzata per iniziare la guerra e poi avremmo fatto i seicento chilometri per arrivare sul Don per cui dissi al mio comandante che non sarei tornato in licenza perché ero andato lì per fare la guerra e quindi dissi “io resto qua ed andrò in licenza quando ci saranno le pause”. Allora lui ci disse ad entrambi che avremmo dovuto mettere per iscritto quelle che erano le nostre intenzioni, quella di rinunciare alla licenza appunto, e noi così facemmo, naturalmente. Il mio amico però poi si ammalò e non facemmo la licenza insieme.

Nel campo di guerra c’era una disciplina particolare da rispettare?
No, se si va in guerra non si può essere troppo rigidi, chi va in guerra sa di andare per certe operazioni che potrebbero essere pericolose quindi si lascia anche una certa libertà.

Avevate le carte topografiche della zona?
Avevamo le carte delle zone in cui operavamo che ci servivano per dirigere i tiri, avevamo le tavole ed io ero in grado di leggerle sia per il mio titolo di studio, ero geometra, che per il corso che avevo fatto a Lucca.

Che importanza aveva stabilire le quote?
Le quote erano i punti fondamentali che si prendevano come punti base per sparare. Una quota per es. 308 era una quota che si prendeva come punto di riferimento per sparare, vista la posizione, si calcolavano con il goniometro i gradi a destra o a sinistra. Le tavole erano molto dettagliate ed erano carte molto vaste della zona, si poteva individuare sulla carta un casolare o un albero come punti di riferimento e su quella base si poteva aggiustare il tiro, le carte erano anche in scala 1:100.

Si usava fare rapporti di guerra di battaglie avvenute?
Sì, quando c’erano le azioni. Quando per esempio abbiamo avuto gli attacchi dei carri armati o quando sparavamo alla sera facevamo rapporto e si diceva: “oggi abbiamo sparato centodieci colpi sulla quota numero tot ecc”.

Chi li scriveva?
La sera ci si riuniva sotto la tenda e si scriveva il rapporto di quello che era successo sul campo e le operazioni della giornata. Gli italiani erano talmente stupidi che volevano che fossero segnati tutti i colpi che si sparavano. I tedeschi sparavano senza badare a spese, noi italiani bisognava che si facesse la conta per il controllo di tutti i colpi sparati.

A chi venivano comunicati?
Al comando superiore. Noi li comunicavamo al comando di gruppo e il comando di gruppo al comando di reggimento: la comunicazione arrivava fino al comando della divisione Celere.

Con cosa venivano scritti?
Avevamo in dotazione macchine da scrivere Olivetti, mi ricordo, ma in guerra le usavamo poco usavamo molto di più il goniometro.

Ispezionavate il campo dopo la battaglia?
Sì, quando abbiamo sparato contro i carri armati, la sera del 30 e del 31, siamo andati a vedere sul campo di battaglia come erano stati fermati, come erano arrivati i nostri colpi e gli effetti dei proiettili e di determinati tipi di bomba sui carri. C’erano le bombe a penetrazione, i tedeschi ne avevano di tutti i tipi e poi si andava a verificare i risultati dei proiettili sulle corazze di dieci centimetri (forse di 10 millimetri ndr) i nostri 117 che penetravano nella corazza. Ci bastava constatare che il proiettile fosse perforante.

Com’era il popolo russo?
Lo abbiamo sempre considerato un popolo buono, gli abitanti ci accoglievano con molta cordialità nelle case. Eravamo dei liberatori per loro, specie in Ucraina. Il tedesco era malvisto ma noi eravamo differenti, ci facevamo voler bene, come del resto non solo in Russia, ecco perché eravamo considerati diversamente. Quando ci si avvicinava un russo, o quando entravamo in una casa russa, eravamo accolti bene, offrivamo le caramelle ai bambini o la marmellata alla famiglia. L’italiano anche se è in guerra ed è occupante si comporta con rispetto dei valori umani.

I soldati tedeschi invece, com’erano?
I tedeschi? Loro sono militari! A loro dava fastidio questo nostro atteggiamento di trattare la popolazione russa con civiltà.

Quindi la reputazione degli italiani l’avete fatta voi sul campo in realtà?
Certo ce la siamo guadagnata sul campo, con il nostro atteggiamento.

Con i soldati russi, com’erano i rapporti?
I soldati russi erano stati istruiti alla scuola dell’odio verso il nemico, a noi non avevano ignettato l’odio per il nemico che affrontavamo; loro tiravano fuori l’odio dagli occhi verso tutti i nemici tedeschi e italiani. Però, bastava passare qualche giorno assieme che la faccenda cambiava subito.

Con i soldati tedeschi che rapporto c’era?
Eravamo in buoni rapporti di cameratismo.

A livello militare organizzativo o di artiglierie, vi sentivate alla pari?
Noi sì, ma certamente! Anche se il tedesco è il classico militare mentre noi non siamo dei veri “militari” siamo sempre “italiani”.

Ma questo lo considera un pregio o un difetto?
Ah, un pregio! È il pregio di farsi voler bene, dovunque si vada.

I tedeschi che atteggiamento avevano verso di voi?
I tedeschi, quando eravamo in ritirata, dicevano che noi italiani eravamo casinisti perché, dicevano, facevamo confusione e basta, non avevamo nessun ordine. E infatti l’italiano è fatto così!

Avevano ragione quindi?
Sì, avevano ragione, almeno io davo loro ragione. Quando, in ritirata, mi rivolsi a un tedesco e gli chiesi se mi poteva accogliere nel suo semovente perchè non potevo più camminare, mi disse “Voi italiani, siete dei casinisti” io gli risposi “Sì, ci saranno anche dei casinisti, ma io ho la mia pistola, ho le bombe a mano nelle tasche… sono qui a fare la guerra come voi… mi accoglie sul suo semovente per favore che non sono più in grado di camminare?” e alla fine mi ha accolto.

È stato convincente, dunque…
Si è convinto subito, dopo avergli chiesto di salire e avergli detto che sarei altrimenti morto sulla neve. Mi ha accolto anche perché ero un soldato che aveva le bombe a mano e la sua pistola, quindi ero a posto per loro, ero come uno di loro.

Qual è stato il primo episodio che le ha fatto capire che la guerra era qualcosa di diverso da quello che vi eravate immaginati?
Il 12 maggio, quando è morto il primo artigliere, quando l’ho visto morire sotto i miei occhi. Eravamo nel camminamento, nel bunker, proprio in linea con i bersaglieri. Eravamo in prima linea quando sono giunti dei colpi di mortaio sul camminamento. Loro, i russi, avevano visto che noi ci muovevamo, erano a duecento metri da noi, ad un certo momento, hanno sparato e una scheggia lo prese alla gola. Mi fece una certa impressione. Questo soldato era un genovese che bestemmiava sempre e gli dicevo “la finisci o non la finisci di bestemmiare?” Non potevo soffrire che qualcuno bestemmiasse. Questo episodio però mi fece molta impressione: poco prima lo redarguivo per le bestemmie e subito dopo gli veniva tagliata la gola. Rimasi impressionato da quanto fosse stato fatale il destino rispetto a quello che era successo poco prima.

Quindi eravate in un campo…
Beh no, eravamo in prima linea, con i bersaglieri! L’artiglieria non è esattamente in prima linea, è a quattro chilometri, i nostri cannoni sparavano da quella distanza, ma in linea con i bersaglieri avevamo il nostro osservatorio. Io ero un “osservatore” delle truppe OC (Osservazione e Collegamenti) e quindi ero in prima linea con i bersaglieri.

Ci sono stati dei momenti di tranquillità?
Sì, durante il periodo invernale (all’inizio dell’anno 1942 ndr) su tutta la linea del fronte c’è stata tranquillità.
L’attacco c’è stato il 12 maggio appunto con il primo caduto, mio artigliere. Fecero questo primo tentativo al mattino presto sulle nostre linee. Sparare sui bunker e sui camminamenti, per noi, significava voler sconvolgere le nostre linee per attaccarci in seguito e quindi avevamo il timore che al mattino presto ci attaccassero. Invece hanno sparato senza far seguito con un attacco.
In un’altra occasione, quando io non ero presente in prima linea, fecero un altro attacco e hanno addirittura occupato alcuni nostri osservatori, bunker, nostri (del 120° artiglieria ndr) e anche dei bersaglieri.

Per scattare le fotografie usavate attrezzature messe a disposizione dell’esercito o erano attrezzature private?
Avevamo delle macchine fotografiche personali.

Le carte, i rullini? Chi ve li forniva?
Ognuno si arrangiava per conto proprio. Io scrivevo a casa che mi mandassero dei rullini nei pacchi che arrivavano dalle famiglie e loro mi mandavano quello di cui facevo richiesta. Se un soldato o un ufficiale doveva recarsi nelle retrovie, nei reparti di comando, a Stalino (Stalino era la città più importante dove c’erano comandi italiani e dove c’erano negozi) per fare qualcosa, lo si incaricava anche di acquistare quello di cui avevamo bisogno, di rullini o di altre cose. Naturalmente anche lo sviluppo veniva fatto lì, a Stalino, da un fotografo del posto, nei negozi della città.

Per spedirle?
Io normalmente le spedivo a casa.

Nelle fotografie c’erano delle cose da evitare di fotografare?
No, no, si poteva fotografare tutto senza limiti, eravamo liberi cittadini.

La censura?
La censura c’era sulle lettere ma non sulle foto. Aprivano le lettere e ne controllavano il contenuto. In alcune lettere che io mandavo a casa poteva succedere che se era citato, per esempio, un nome di una città veniva cancellato per questioni di sicurezza. Se davamo notizie inerenti la guerra o di movimenti ecc. allora tiravano un “frego nero” (una linea nera ndr). Se per esempio scrivevi che eri a Stalino ti cancellavano il nome della città oppure se dicevi che eri con il sesto bersaglieri te lo annerivano. Tutto quello che era relativo ad avvenimenti bellici era censurabile.

Chi se ne occupava?
C’era la “Censura militare” che doveva vigilare al fine di evitare che si scrivessero notizie belliche.

Ho una curiosità su delle foto in mio possesso riguardante l’occultamento di una targa di un veicolo. In un paio di foto, sullo stesso veicolo, ho avuto l’impressione che gli venisse coperta la targa. Era un fatto casuale o bisognava evitare certi tipi di fotografie?
No, sarà stato un caso, non c’era nessun motivo di occultare una targa di un veicolo. Io ho fatto una mostra fotografica e in quelle foto non ho avuto nessuna limitazione.

Ogni quanto tempo scrivevate lettere?
Non c’era limitazione, quando volevamo.

Non partivano in giorni prestabiliti?
No non c’erano giorni precisi, io per esempio scrivevo spesso durante il periodo invernale. Quando eravamo nel bunker e quando si faceva servizio, durante la giornata c’era tempo di scrivere lettere a non finire.

La libertà di scriverle senza limiti c’era per lei come per i soldati semplici?
Sì, sì, certamente.

So, per sentito dire, che in certe situazioni non bisognava, per esempio, scrivere di situazioni precarie come nella scarsità di cibo, bisognava evitare ti scrivere che si soffriva la fame. Le risultano censure di questo tipo?
Beh… non saprei… uno poteva anche scrivere che il vitto non fosse sufficiente ma può darsi benissimo che venisse censurato anche se a me, non risultano censure di questo genere.

Nel momento in cui inizia la guerra, i progetti per il futuro cambiano? La visione della vita comincia a cambiare? Alla luce della sua esperienza personale e in base al racconto che ha appena fatto…
Mi sono accorto che cosa volesse dire la guerra in quel momento ed attendevo che ci fosse la nostra avanzata per andare in territorio nemico, concludere la guerra con l’occupazione, vedere nuove zone, usi e costumi della gente. L’interesse per un uomo, per me in particolare, era quello di conoscere tipi nuovi, vedere cosa c’era di nuovo in un paese sconosciuto e di cui non si sapeva molto se non che fosse un paese misterioso.

Stare fuori dall’Italia per lei non era un problema?
Assolutamente no, avevo desiderato io di andare e conoscere paesi nuovi.

Ha mai avuto l’impressione di sentirsi un “invasore”?
Ma, no! Non c’era mica questo spirito! Quando ci giungevano da casa i pacchi con dolciumi, caramelle ecc. si andava subito ad offrirgli alle ragazze, ai componenti della famiglia con cui eravamo in contatto. Noi ci consideravamo degli ospiti e trattavamo la popolazione in funzione di questo.

Ho il ricordo di una foto dove si vedono all’orizzonte dei tetti di un’isba e si intuisce che in uno strapiombo ci sia l’isba stessa, come fosse un dislivello molto repentino. Cos’erano, dei campi artificiali o dei dislivelli naturali del terreno dove erano state costruite le case?
C’erano avvallamenti, il paesaggio era vasto, i villaggi erano distribuiti lungo le strade e quindi c’erano costruzioni, veri e propri “casoni”, diciamo qui in Veneto. Le isbe avevano il tetto di paglia e gli interni erano costituiti da ingresso, cucina e stanza da letto.

Ed erano molto alti?
No, no, assolutamente. I solai non erano alti, erano nella media dai 2,50 ai 3,00 metri .

Nelle retrovie come si stava?
Nelle retrovie? Io non sono mai stato nelle retrovie!

Però saprà come si stava!
Beh, nelle retrovie… so che tutti i soldati che erano a Stalino avevano tutti la loro ragazza e avevano tutti una casa civile dove andavano a dormire. Quelli che erano nelle retrovie stavano come chiunque avesse la possibilità, in Italia, di dormire in un letto.

E loro? È da presumere che si siano salvati!
Sì, molto probabilmente sì. Queste cose le ho scoperte quando, giunti in Russia, in inverno, nel mese di febbraio (1942 ndr), nei camion, l’acqua dei radiatori si gelava e qualcuno non funzionava. Ad un certo momento il comandante mi ha detto “Bassi, raccogli i camion che sono dietro (nelle retrovie ndr) e portali avanti, non c’è altro da fare”. Allora mi sono scelto dei soldati autisti che sapessero guidare bene i camion e che fossero in grado anche di aggiustare i motori. Il freddo, il gelo ci costringevano a tenerli in moto per tutta la notte per evitare che si gelassero e che il motore saltasse. Sono rimasto quindi nelle retrovie a radunare questi automezzi che o si rompevano spesso e avevano bisogno di continua manutenzione e poi sono venuto avanti piano piano e sono arrivato 15 giorni dopo in linea. È stata in quella occasione, in quei giorni passati nelle retrovie che mi sono accorto di che vita si conducesse, almeno per quello che era Stalino. Mi ricordo sempre di un soldato di Verona che aveva raccolto un trenta-quaranta dischi di canzoni russe. Nelle case c’erano i grammofoni, ce n’erano molti. Questo soldato raccoglieva dischi barattando pane. Si era comperato anche lui un giradischi. Lui non fumava quindi dava anche pacchetti di sigarette e comprava in questo modo barattando.

Il 120° era quindi in prima linea!
Sì, noi eravamo tutti in prima linea, dietro i bersaglieri. Io era all’Osservatorio e andavo sempre con i bersaglieri che erano davanti a noi.

I superiori avevano una posizione privilegiata rispetto ai soldati?
Ognuno aveva un suo compito, non la metterei su questo piano.
Il mio comandante non aveva necessità di andare in prima linea perché era compito degli ufficiali stare in prima linea. Lui veniva ad accertarsi come avevamo organizzato le postazioni in prima linea e poi se ne ritornava a quattro chilometri di distanza .

Quindi godevano di un certo privilegio logistico ma d’altronde il loro compito era il comando!
Sì, ma dico, in prima linea ci stavano i bersaglieri con i loro ufficiali e noi, che eravamo dell’artiglieria, eravamo scaglionati in mezzo ai bunker dei bersaglieri. Avevamo anche noi il nostro bunker con il nostro ufficiale e il nostro sottoufficiale e i soldati che erano addetti ai tiri.

C’erano delle artiglierie che si muovevano più in avanti rispetto alle altre?
Durante il periodo invernale siamo rimasti schierati con le nostre artiglierie a quattro chilometri dalle prime linee ed avevamo questo osservatorio tra i bunker dei bersaglieri. Si facevano dei turni di una settimana di servizio a dirigere i tiri.

Come era nato il 120°, che significato aveva quel numero?
Era nato dal nucleo del ventesimo artiglieria che aveva fatto la prima guerra mondiale, di Padova.
Per l’occasione avevano richiesto di formare un nuovo reggimento di artiglieria per andare in Russia. Forniti i cannoni bastava fornire il numero giusto di uomini che, addestrati a sparare, servivano allo scopo. I cannoni erano i vecchi 117, cannoni della grande guerra di tipo austriaco.

In termini organizzativi e tattici c’era un corpo d’armata che era più preparato rispetto ad altri?
No, no. L’ottava armata era l’armata che era formata di tanti corpi d’armata e scendendo si andava fino alle batterie di artiglieria, che avevano i vari cannoni, e alle compagnie dei bersaglieri fino ad arrivare al reggimento, ma erano parti sinergiche senza distinzioni e differenze qualitative.

Qual era il terreno sul quale il 120° si muoveva meglio?
Noi avevamo gli automezzi, bisognava che il terreno fosse per lo meno percorribile. Dovevamo essere in grado di muoverci in qualsiasi terreno perché le strade non si trovano sempre pronte per il passaggio, a volte si andava in mezzo alla campagna e si sceglieva il percorso più agevole al passaggio. Il paesaggio russo aveva strade infami, non asfaltate e all’occorrenza si creavano le strade e i passaggi per gli automezzi.

Che ruolo aveva il comparto Comando all’interno del 120° Reggimento Artiglieria Motorizzato?
Predisponeva tutto per le varie batterie e tutti gli uomini che c’erano nel comando di reggimento. Facciamo conto 400 uomini suddivisi in batterie, ogni batteria aveva un cannone e poi c’erano tutti i vari servizi: la sussistenza, il vettovagliamento ecc.. Erano questi i compiti, c’era l’addetto ai viveri, alla sussistenza, alle munizioni, tutto era predisposto perché tutte le mansioni prestabilite funzionassero al meglio.

Se un soldato era autista che mansioni aveva?
Faceva esclusivamente l’autista e doveva tenere in efficienza il camion. Il camion doveva andare e venire, aveva la benzina e l’acqua a disposizione. L’autista aveva questo compito ma naturalmente essendo soldato doveva essere in grado si usare le armi, ognuno nella sua cabina aveva il moschetto.

Le moto? Venivano usate?
I bersaglieri avevano le moto! Il reparto comando aveva una moto per tenere i collegamenti. Dal comando deposito, dove c’erano viveri, munizioni, camion… il soldato in moto poteva avere il compito di portare un ordine in prima linea. La moto serviva per questo, per tenere i contatti all’interno del comando.

Avevate anche altri mezzi di comunicazione?
Avevamo anche radio e telefoni con i fili che appendevamo sugli alberi.

Che necessità c’era allora di utilizzare le moto?
Quando non si erano ancora stabiliti i collegamenti fra il comando e le batterie per esempio e allora serviva la moto con il soldato.

Con l’Italia come comunicavate militarmente?
Il reparto comando aveva i contatti con l’Italia.

I rapporti di guerra, quelli che facevate in battaglia, avevano un’importanza particolare?
Sì, avevano una certa importanza. In quella che era chiamata la “fureria”, dove c’era il comando di reparto, si conservavano anche questo tipo di documentazione. Se ci fosse stato pericolo di invasione da parte del nemico avevamo il compito di distruggere tutta la documentazione militare redatta.

I materiali che usavate per costruire i campi e i bunker li trovavate sul posto?
Sì, quando abbiamo fatto i bunker sulla linea difensiva di combattimento invernale ci servivamo del materiale che trovavamo sul posto, tavole, travi per fare i bunker e scavare le buche.

Dove si dormiva?
Ci si arrangiava nel modo migliore considerando il materiale che si trovava sul posto. Mi ricordo che i bersaglieri, che stazionavano in prima linea, si erano attrezzati dei letti a castello portandosi dietro pagliericci dei tetti delle isbe, ci si arrangiava così insomma.

Generalmente i punti di stazionamento erano lontani dai centri abitati o piuttosto vicini?
I centri abitati erano alle spalle, quando eravamo in linea sul Don nei paesetti c’erano i comandi e in linea c’erano i bunker.

Quindi il contatto con la gente del posto c’è stato subito?
Sì, sì, non si è mai interrotto da quando siamo arrivati in territorio russo.

La gente erano? Bambini, donne, anziani..?
Molti erano anziani perché i giovani erano in guerra.

Quali erano le condizioni di vita del popolo russo rispetto a quelle che lei aveva vissuto e conosceva in Italia?
Avevamo constatato il nostro modo di vivere apparteneva ad un’altra civiltà, tra noi e loro c’era un abisso. Come modo di vivere, era un’altra civiltà. Noi italiani ci sentivamo veramente superiori alle loro condizioni di vita. I paesetti erano villaggi primordiali. A Stalino c’era vita e c’era tutto, ma in campagna c’era un divario abissale rispetto alle nostre condizioni di vita in Italia. Noi dicevamo che erano popoli inferiori per quanto erano arretrati.

Però c’era un grande rispetto…
Senz’altro. A parte la differenza che c’era fra noi e loro, noi trattavamo con molta umanità i russi, sia vecchi che giovani. C’era molto ripetto.

Con la lingua come ve la cavavate?
Stando assieme a lungo si imparava anche la lingua. Quelle poche parole o frasi che servono per “tirare a campare” per chiedere acqua, pane, sono le cose che si imparano da un interprete e dai vocabolarietti che ci avevano fornito dal comando dove c’erano riportate le frasi fatte utili per questo tipo di elementari. Non era facile la lingua russa e quindi c’erano interpreti. C’era un tale a Padova che aveva vissuto a Baku nel Caucaso, avevano un cinema e sapeva perfettamente il russo. Questo ragazzo si era arruolato subito ed era al comando d’armata a fare l’interprete, era un sottotenente. C’era sempre chi era capace di assimilare il linguaggio base e c’era qualcuno che aveva il piacere di apprendere e di imparare, quindi la lingua non era un grosso problema.

I rapporti con le ragazze russe?
Io che sono stato sempre in prima linea non ho mai conosciuto ragazze, ho solamente incontrato ragazze quando cercavo gli ultimi camion nelle retrovie, solo allora mi sono trovato a trattare con loro per acquistare del latte, pane, la carne o qualche altra cosa da mangiare. Era allora, in quelle occasioni, che si avevano contatti con la popolazione e quindi anche con le ragazze.

Quindi non si è legato sentimentalmente a nessuna…
Io non ne ho avuto assolutamente tempo. Eravamo lontani, essendo in prima linea. Non ho mai frequentato le case dei villaggi. C’è stato un periodo in cui un mio comandante viveva in un’isba dove c’era una ragazza che faceva le pulizie e accudiva la casa e l’ufficio ed era in quelle occasioni che si creavano questi approcci. Nelle retrovie tutti si erano legati alle ragazze, c’era l’amore libero ma io, personalmente, essendo rimasto in prima linea, non ho avuto contatti con la popolazione, mi son trovato per un giorno intero in un paese e mi ero appoggiato ad una casa per avere una tazza di latte ma nulla di più..

C’è un episodio che le è rimasto impresso che vale la pena raccontare?
Quando abbiamo avuto l’attacco dei carri armati, un carro armato mi seguiva con il cannone puntato e mi dicevo “adesso mi spara, adesso mi spara”, finché non mi sono buttato giù a terra facendo il morto e poi il carro armato mi è passato vicino. In un’altra occasione c’è stato l’attacco durante l’inverno sulle linee che tenevamo e anche lì la sparatoria fu talmente estenuante che pensavo “la smetteranno di sparare e ci lasceranno in pace, usciranno per attaccarci e i nostri bersaglieri andranno al contrattacco”.

Ha mai pensato che forse quella guerra non valeva la pena venisse combattuta? O comunque una volta che vi trovavate dentro non avevate scelta e dovevate in qualche modo partecipare attivamente?
Eravamo rimasti coinvolti in quella situazione e per noi era stato un avvenimento possiamo dire conclusivo di quelle che erano state le manie del fascimo di voler occupare, di farsi grande, era tutta una situazione che aveva coinvolto la popolazione italiana e purtoppo c’era chi era in guerra ed era più in pericolo di chi era a casa. Noi dicevamo “fortunati quelli che sono a casa, sono lì tranquilli e se ne fregano della guerra”.

Quindi dei momenti difficili altro che se ci sono stati?!
Eh, sì!

Ha visto molti soldati cadere?
Eh, specialmente nella ritirata, non ne parliamo di quanti ne ho visti.

È stato mai ferito?
No!

Ha ucciso?
Posso benissimo aver ucciso quando dirigevo i gruppi di artiglieria, sparavo su gruppi che si muovevano. La possibilità che lo si facesse era probabile e auspicabile, era il nostro compito, sparare fa parte del soldato, il fante usa il colpo diretto, noi di artiglieria sparavamo con i cannoni. Quando colpivano ci compiacevamo del colpo andato a segno, ci dicevamo “guarda quel colpo com’è andato a segno” a centrare i movimenti di truppe che erano a 4 o 5 chilometri “.

Avete fatto dei prigionieri?
, a volte li abbiamo presi.

Come li trattavate?
Molto bene, io alla sera ho offerto il vino addirittura, ho detto assaggiate il vino italiano, ho offerto le caramelle e la marmellata.

Quindi, generalmente, i soldati russi, quando venivano fatti prigionieri dagli italiani…
Erano fortunati, cadevano in buone mani.

Venivano anche rilasciati in certe situazioni?
Sì, tante volte ho pensato che eravamo talmente ingenui e faciloni che avevamo quattro prigionieri che erano venuti a scavare i bunker e li lasciavamo da soli senza guardie a dormire in mezzo alle nostre tende…

Quindi poteva succedere di tutto…
Eravamo tanto tranquilli al pensiero che non sarebbero assolutamente scappati perché era tale la vita che facevano loro in guerra di fronte a noi che li trattavamo a marmellata e a generi di conforto che non se ne andavano spontaneamente, mi ricordo sempre di quando diedi loro caramelle, marmellata e vino.

Quindi si sentivano più che ripagati.
Altrochè se si sentivano ripagati, penso che immaginassero noi come bravi italiani, buoni, era tutto loro interesse a star buoni con noi.

Quindi la paura di morire ad un certo punto c’è stata?
Paura di morire? Ma io non ho mica mai avuto paura di morire, altrimenti non avrei fatto la guerra.

Questa è una cosa che ricorre spesso nelle testimonianze: quando la morte si avvicina il primo pensiero va alla madre piuttosto che alla patria. Conferma questo atteggiamento?
Sì, è logico, è il pensiero fisso che ha ognuno di noi, il pensiero della madre è quello più ricorrente. Quella figura che ti sta più vicina, è la persona che è più addolorata nel momento in cui tu partivi.

Come cambia il punto di vista verso la spiritualità, la vita quando si è in guerra? Si rafforza?
Io sono stato semrpe credente e quindipraticante non avevo problemi, ma ho notato che c’era il miscredente che si aggrappava a Do perché aveva paura di morire, allora mi dava fastidio questo attaccamento perché c’era il pericolo di morire e di essere travolti dagli avvenimenti e da quello che è la guerra, mi dava fastidio questo cambio di rotta.

Ma era anche comprensibile…
Sì, era la paura…

Si è sentito privilegiato ad essere riuscito vivo da una situazione così difficile?
Privilegiato? non ho mai pensato che la situazione fosse catastrofica nei miei confronti, forse altrimenti non sarei andato con tanta faciloneria a fare la guerra.

Come si conciliava il fatto di essere credenti e poi dover ammazzare?
Dover ammazzare? non si pensa mai di dover ammazzare direttamente una persona e poi, d’altra parte, è la guerra, e la guerra comporta anche questo, c’è chi vive e chi muore.

Cosa facevano e come si muovevano i cappellani all’interno dell’esercito?
Il cappellano era un punto di riferimento per il soldato che aveva difficoltà familiari, che magari non aveva avuto buoni rapporti con la moglie, in casi come questo interveniva il cappellano a confortarlo. Aveva una funzione molteplice, sia spirituale che di conforto morale.

Era una bella figura quella del cappellano, come Enelio Franzoni…
Sì, certo, Enelio Franzoni era una persona del tutto speciale, una figura simbolo del cappellano.

Ad un certo punto avevate capito che i russi vi sopraffacevano. Come si vive questa idea che si è in balia del nemico e che da un momento all’altro non si è più liberi?
Si vive con l’angoscia di cosa succederà tra un minuto, cosa tra un’ora, tra un mezza giornata che siamo qui e che non si sa come andrà a finire. È stato davvero drammatico il momento in cui eravamo circondati, c’era un’angoscia che prendeva tutti, si viveva in bilico tra la morte e la vita. Ci chiedevamo “se ti catturano come ti tratteranno?”. Abbiamo sentito dire che hanno l’odio verso il nemico, c’era il terrore di quel momento in cui ci si doveva arrendere e mettere le mani in alto.

Quali problemi ha comportato il fiume Don rispetto agli altri fiumi, era una questione di conformazione geografica o semplicemente perché le forze russe erano concentrate lì e da lì non si poteva passare a causa della resistenza russa?
Il Don è stato l’ultimo fiume che abbiamo raggiunto dopo il Bug a il Dniepper, che i primi reparti della celere sono giunti sul Bug. Il fiume rappresenta sempre una barriera che ti divide dal nemico quindi è una barriera che ti salva dal nemico che interviene, il fiume Don è stato solo l’ultimo ostacolo, l’ultima barriera protettiva. Non perché fosse differente da altri fiumi, purtroppo è stato il fiume che ci fu fatale.

Il 120° doveva abbattere una testa di ponte, cos’è una testa di ponte?
A Serafimovic, dove avvenne lo scontro con i carri armati, i russi avevano la testa di ponte al di qua del Don, nel territorio occupato da noi. Aveva una manciata di carri armati e quindi aveva la testa di ponte a portata di mano per danneggiarci. Doveva entrare nelle nostre linee e successivamente nelle retrovie e far disastri.

Era la parte più dura di uno schieramento quindi?
No, non la parte più dura, la testa di ponte è la base del nemico che è in territorio che tu ritieni tuo perchè lo domini e lo controlli, ma questo significa che anche il nemico ti controlla, è comunque una base in mezzo al territorio che tu occupi.

Fu la battaglia più dura che il 120° dovette combattere?
Sì, fu la più dura in assoluto.

Avete avuta la meglio in quella occasione?
Avemmo la meglio ma perdemmo un gruppo di artiglieria, il nostro secondo gruppo fu distrutto totalmente.

Che vantaggio portò questa ulteriore passo?
I russi sono penetrati nelle nostre retrovie, normalmente la prima linea è a quattro kilometri dalla linea del fronte, loro sono penetrati nelle retrovie ed hanno distrutto i cannoni del secondo gruppo, perdemmo automezzi, trattori e cannoni e, naturalmente, uomini L’intervento dei carri armati quando arrivano è devastante, schiaccia anche i cannoni.

La vicenda più dolorosa che ricorda?
Gli attacchi dei carri armati.

Quando siete stati fatti prigionieri?
Drammatico è stato aver dovuto cedere le armi ed essere stati fatti prigionieri, per me e penso anche per tutti gli altri soldati è stato uno schoc, ti trovi di fronte al nemico che ti disarma.

Cosa è successo dopo essere stati disarmati?
Ci hanno fatti prigionieri, ci hanno preso le armi e abbiamo dovuto alzare in alto le mani. Mi ricordo che per un senso di orgoglio non volli mettere le mani in alto e mi rivolsi ad un soldato dicendo “ecco qui la pistola se la vuoi” ma non misi le mani in alto.

Quindi in quella occasione i soldati russi erano piuttosto duri?
Sì, ti minacciavano, ti trovavi di fronte disarmato davanti a uno che di te poteva fare quel che voleva, anche ammazzarti. Ad un certo punto c’era un bersagliere, insieme ad un altro suo compagno, che aveva una benda intorno al viso perché era stato ferito e questo soldato si era rivolto a questo soldato russo, che aveva il mitra spianato, per chiedere “dove lo posso portare questo “bolnoj?” cioè questo ferito e il russo, per tutta risposta, ha scaricato i colpi di mitragliatrice verso di lui e verso il suo compagno, questo per dire cosa poteva succedere.

Quindi siete stati raggruppati e portati dove?
Appena ti prendevano ti perquisivano tutto, qualsiasi cosa anche un fazzoletto andava bene, se era colorato, ti spogliavano di tutto, ti sentivi oltre che disarmato anche impotente di fronte a un tale che aveva un mitra orizzontale e che ti poteva far fuori in ogni momento. È stato tragico quel momento della cattura.

Ha voglia di raccontare o vuole che mi fermi?
No, no, a me non da fastidio. Solo rivivo quei momenti.

Siete stati portati nei campi di prigionia subito?
Ci hanno incolonnati e ci hanno portato verso i campi ed abbiamo camminato per sette giorni, marciando a piedi, dormendo all’addiaccio con 30 gradi sotto zero e senza mangiare naturalmente. È stato il momento più tragico e drammatico che abbiamo vissuto. Pensavamo e speravamo che ci avrebbero portato in qualche posto, ma ci portavano a piedi, fino a che non raggiungemmo la stazione di Kalas, era una stazione importante delle retrovie Russe, una base dei russi al di là del Don, abbiamo camminato per giorni e notti fino a lì. Poi da lì ci hanno messi sui treni merci e quindi abbiamo fatto altri sette, otto giorni di marce, 15 giorni tra marce a piedi e in treno.

Quanti chilometri potevano essere?
Guardando successivamente le carte ho potuto calcolare che potevano essere un duecento chilometri.

I campi di prigionia com’erano fatti?
I campi di prigionia erano all’interno della Russia. I russi si sono trovati duecentomila italiani prigionieri ed altrettanti tedeschi perché tra gennaio e febbraio c’era stata la battaglia a Stalingrado, si sono trovati ad avere una situazione di organizzazione disorganizzata, io la chiamavo così. Si sono trovati ad essere impreparati ed impotenti di fronte ad una mole di prigionieri così alta, non avevano né viveri né locali dove alloggiarli.

Quindi le speranze di essere rilasciati erano poche…
Ci chiedevamo quando mai sarebbe finita una simile tragedia, continuavamo ad andare verso l’interno senza trovare un capannone. Ad un certo momento la notte, c’erano i capannoni del kolvos, dove mettevano il grano ecc… Ed erano quelli i posti in cui ci si poteva riparare un po’, erano capannoni senza tetto che erano stati distrutti dalla guerra, erano senza tetti, era un modo per avere un recinto attorno, per ripararci almeno dal vento e dalla tormenta di neve che c’era durante la notte.

Quindi di tentativi di fuga neanche se ne parlava?
No, non c’era neanche da immaginarlo. Le distanze erano tali, il paesaggio era tale che non avresti trovato né villaggi né un posto dove riparare, distanze enormi che ti separano senza piste sulla neve e la fuga era praticamente impossibile, bisognava semmai stare uniti.
Mi ricordo quando ero ancora libero, e quando ormai eravamo accerchiati, un mio comandate mi diceva “Bassi, tentiamo la fuga a piedi?” Eravamo in macchina, tornavamo sul Don in un bunker e, durante il percorso, insisteva con “tentiamo la fuga” e io gli dicevo “e dove andiamo comandante con queste enormi distanze che ci sono? Con questa neve che c’è dappertutto? Non conosciamo né piste, né niente…”.

Quando eravate aggiornati sugli accadimenti, di quello che succedeva in Italia e in Europa?
No, non sapevamo nulla!
In prigionia c’è stato l’intervento nei campi dei fuoriusciti, c’è un libro, I reduci della sbarra, di Alessandro Frigerio, che è uscito in questi giorni, che parla del processo d’Onofrio e dei campi di prigionia.

Ha partecipato nel libro con una testimonianza?
Non sono citato anche se ho partecipato al processo.

Come si dormiva in un campo di prigionia?
Dove c’erano campi organizzati si dormiva su letti a castello di legno.

Come si viveva e come si mangiava in un campo?
C’era un posto letto, un ambiente riscaldato, dopo i primi dieci giorni in cui la “disorganizzazione organizzata” era totale e non si è mangiato, quando poi siamo giunti nei campi una zuppa te la davano. Al mattino e alla sera.

Nei campi di prigionia con i russi cominciava a cambiare qualcosa?
Ti trattavano umanamente. Avevano a che fare con i prigionieri quindi non ti ammazzano e ti lasciavano vivere. Nel momento in cui siamo giunti nei campi pensavamo che se ci avessero dato da mangiare avremmo potuto farcela a vivere.

Igienicamente come si sopravviveva?

I primi tempi siamo stati invasi dai pidocchi, e poi facevamo un bagno al mese, ci si poteva lavare al mattino con acqua fredda, io pur di tenermi pulito andavo fuori e mi lavavo con la neve.

C’erano malattie?
È scoppiato i tifo nei campi, io ne sono uscito indenne, ma hanno preso il tifo quasi tutti, dai medici ai soldati.

Per curarvi, c’erano medicine?
Il permanganato, che serviva per pennellare le ferite, per ingerirlo ,serviva a tutto. Nel libro che ho citato parlavano proprio del permanganato. Ai prigionieri non veniva dato che permanganato e addirittura per scrivere, le prime cartoline che abbiamo scritto le abbiamo scritte con il permanganato, era un “inchiostro” indelebile che durava in perfette condizioni.

C’erano medici?
No, tra di noi.

Ci sono stati episodi di violenza?
Violenza gratuita sui prigionieri no, può essere successo nei campi se qualcuno si era ribellato e se reagiva in malo modo, ma bastava che qualcuno prendesse una bastonata che nessuno aveva il coraggio di alzare la testa.

Con la morte dei compagni di prigionia ci si abituava o era un avvenimento doloroso comunque?
Si conviveva con la morte, si pensava che oggi era capitato a lui, domani poteva capitare a te, vedevi che la gente si spegneva così. I primi tempi quando c’è stato il tifo era un episodio ricorrente. La morte era un fatto normale e a volte era una liberazione. Ricordo un episodio di un amico, Marchi, che nel periodo della marcia quando si dormiva fuori e non si mangiava, si camminava sulla neve, ad un certo punto si è buttato a terra e ha detto “basta, che sia finta, che mi spari”, ho dovuto dargli due calci perché si rialzasse e scuoterlo un po’. Il russo, non aveva scrupoli, ammazzava tutti quelli che non riuscivano a camminare.

Si è salvato questo suo amico?
Sì, sì, una volta l’ho trovato a Jesolo dove passeggiava sulla spiaggia con la moglie, erano alcuni anni che non ci vedevamo e lui mi vede e mi dice “ah, Bassi, sei tu?” Io mi sono rivolto alla moglie e le dissi: “lei deve ringraziarmi se ha trovato questo signore che l’ha sposata”.

Siete stai schedati quando siete stati catturati?
Altrochè, i russi erano pignoli a tenere la contabilità, scrivevano tutto, “Kake famiglie” dicevamo noi .

Che tipo di informazioni richiedevano?
Cominciavano appunto dal capofamiglia, che idee politiche hai, era un’indagine approfondita.

Come mai spesso non si riesce a rintracciare molta parte dei corpi di soldati italiani catturati se i russi erano così meticolosi? Mio zio per esempio viene considerato disperso pur essendo passato per un campo di prigionia.
I russi non hanno sempre preso nota. A Krinovaja la gente moriva senza essere registrata, in certi campi hanno accolti prigionieri senza schedarli, senza scrivere i nomi, lì sono morti nei capannoni, lasciati morire così.

Le risulta che venissero anche bruciati i corpi per prevenire altri contagi?
No, lì venivano anche mangiati, ci sono stati episodi di cannibalismo, ma non mi risulta che venissero inceneriti, semmai li lasciavano lì irrigiditi dal gelo. A Oranky c’era un locale che io chiamavo “il frigorifero della morte” e tutti i morti, li denudavano, e li buttavano uno sopra l’altro stecchiti.

Com’era l’accoglienza dei russi nei campi dunque?
Era una “disorganizzazione organizzata”, se si aveva la fortuna di arrivare in campi organizzati si riusciva a sopravvivere, se si arrivava in campi non organizzati come a Tambow nei bunker sotterranei, uno era costretto a morire perché sottoterra a trenta gradi non sopravvivi. I bunker di Krinovaja o di Tambow erano bunker invivibili, per fortuna siamo stati solo un giorno e poi siamo ripartiti altrimenti non saremmo sopravvissuti, eravamo destinati a morire. Fortunatamente non ci hanno fatto dormire in un bunker ma in una baracca di legno e il giorno dopo siamo partiti per Oranky e lì c’erano i fabbricati in muratura.

I soldati normalmente avevano una piastrina di riconoscimento…
Si , sul retro della giacca e anche come collana ma non so se tutti la indossassero.

In quel modo sarebbe stato certamente più facile riuscire a ritrovarne i corpi…
Don Brevi
ne aveva raccolti una sacca, però poi, i russi, gliela sequestrarono, loro dissero che a quello ci avrebbero pensato loro, li avrebbero comunicati loro i morti. Comunque se le piastrine c’erano, venivano tolte, non ci avevano lasciato documentazione.

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