Il cognac non piacque a Carolina

Tratto da “Fronte russo: c’ero anch’io” a cura di Giulio Bedeschi, ed. Mursia, Milano 1983
Questo racconto è un frammento molto particolare della produzione di Gino Papuli che mette in luce la sua originale anima di scrittore. Carolina non è una fidanzata, e nemmeno una donna di un villaggio russo ma una “macchina”. Per la precisione è un camion Fiat 626.
Papuli ci convince che anche un veicolo, essendo un prodotto dell’uomo, può avere “una propria vita”, un proprio “ carattere’ ben definito e diverso da tipo a tipo” verso il quale si può provare persino “amicizia” e “affetto” perché “una macchina ha un corpo con organi differenziali: ha uno scheletro, un sistema circolatorio, un sistema nervoso, come gli animali delle specie superiori.”.
Carolina è “la macchina” riflesso dell’uomo che l’ha costruita e alla quale dovere la vita ed esserle riconoscente fino alla fine. Un “non oggetto”, carico di un suo valore estetico, proprio di certo tipo di prodotto industriale “figlio” delle fatiche e dall’ingegno dell’uomo. Un punto di vista singolare di un originale scrittore. Un ventenne sottotenente del 120° che ha a cuore le sorti dei sui soldati e non si sottrae alle sue responsabilità.

 

Dal piccolo rilievo dietro il quale era sistemato il Comando di gruppo, si distingueva il letto ghiacciato del Don; sull’altra riva erano i capisaldi nemici. Nell’oscurità della notte tutto il fronte taceva, ed io mi chiedevo se quella fosse davvero la prima linea. Ero giunto in batteria poche ore prima, ed al Comando di reggimento il colonnello mi aveva già detto che il II gruppo (del 120° reggimento artiglieria motorizzato) si sarebbe dovuto muovere prima dell’alba perchè destinato al settore di una divisione vicina, con compiti di rinforzo.

Quando il sole trasformò in oro l’argento del triste paesaggio nevoso, avevamo lasciato le postazioni da un paio d’ore. Ci fermammo lungo la pista per la distribuzione dei viveri di conforto e allora – nella luce del giorno – potei vedere il gruppo (del 120° reggimento artiglieria motorizzato) al completo. Per me che provenivo dall’”ippotrainata”, era uno spettacolo insolito: in luogo di una coreografica fila di cavalli fumiganti, una composta colonna di sessanta automezzi; invece di un fitto scalpitio soffocato dalla neve rabbiosa, un contenuto rombo di motori. Quella fu la mia prima conoscenza con le macchine del gruppo, una conoscenza che non ebbe bisogno di presentazioni e che si approfondì in breve tempo fino a trasformarsi in effetto. C’è chi sorride con aria di sufficienza quando sente parlare di amicizia e di affetto per una macchina; eppure non dovrebbe essere difficile comprendere il significato e la ragione di tali sentimenti: basti pensare a cosa è una macchina, creatura dell’uomo e perciò con i pregi ed i difetti di questi. Una macchina non è un “oggetto” come un sasso o un tagliacarte. Una macchina ha un corpo con organi differenziati: ha uno scheletro, un sistema circolatorio, un sistema nervoso, come gli animali delle specie superiori. Ha – soprattutto – una propria “vita”, un proprio “carattere” ben definito e diverso da tipo a tipo.

Forse, a quei tempi, neppure io ero ben certo di queste cose. Ma due fattori esercitarono su di me la loro influenza determinante; i necessari contatti con le macchine, e gli avvenimenti bellici che seguirono. Quanto ai primi, essi erano più vasti di quelli che comunemente si chiedono ad un sottotenente di artiglieria. In qualità di ultimo arrivato ebbi, sin dal primo giorno, l’incarico non sempre piacevole di provvedere alla manutenzione e riparazione degli automezzi del gruppo (del 120° reggimento artiglieria motorizzato). Perciò, quando non ero alla “linea pezzi”, sorvegliavo gli autisti ed i meccanici cercando di sopperire con il buon senso alla poca esperienza. In marcia, viaggiavo in coda alla colonna per aiutare le macchine in difficoltà. Per fortuna, i guasti di una certa importanza erano rari, specialmente in considerazione del fatto che il reggimento era al fronte da oltre un anno e non aveva mai avuto lunghi riposi. Gli autocarri avevano ancora gli specchi retrovisivi, quegli specchi precariamente incernierati a sbalzo sui montanti anteriori della cabina, che un mio collega dell’autocentro asseriva essere come il cordone ombelicale dei neonati, che cade entro il settimo giorno.

Di scansafatiche ce n’erano pochi. Potevano sembrarlo i TL 37 SPA – cui era affidato il traino dei nostri cannoni – ma le loro pigrizie mattutine erano dovute soltanto agli artritismi della trasmissioni, che si riacutizzavano quando la temperatura scendeva sotto i 30° o 40° sotto zero. Anche lo SPA 38 dell’officina era lento e rimaneva sempre indietro, ma la sua andatura stanca era giustificata dal pensante carico che portava: né si poteva pretendere che ce la facesse a correre con i colleghi molto più giovani e potenti di lui.

Le due Millecento del Comando si davano un po’ di arie. Erano normali berline di colore blu, capitate a sproposito in mezzo a tutte quelle macchine in divisa, e volevano mantenere le distanze. Per essere delle “borghesi” bisogna riconoscere che si difendevano bene anche sulla infide piste nevose. Una di esse, però, aveva un difetto che a lungo andare non le fu possibile tenere nascosto: la sede di una candela era spanata. Non potendo si provvedere diversamente, la candela veniva avvitata alla meglio con l’aiuto di un po’ di stoppa o di spago; ma, nei momenti più inopportuni, saltava via battendo con fragore contro il cofano, ed il motore marciava a tre cilindri.

I “626” a benzina costituivano il grosso del nostro autoparco ed erano, senza metafora, i nostri “cavalli di battaglia”. Macchine di razza, non si rifiutavano mai alla partenza e la loro faccia camusa e buona arrivava dappertutto. Uno di questi si chiamava Carolina.

Carolina ebbe molta importanza nella storia del gruppo (del 120° reggimento artiglieria motorizzato) perché il suo nome è legato agli avvenimenti bellici che si verificano nell’inverno 1942-1943, subito dopo il mio arrivo al fronte. Difatti, mentre il nostro gruppo era impegnato a sviluppare le sue azioni di fuoco in aiuto della divisione italiana confinante (la Torino), il nemico attaccò in forze. Ciò che a noi parve – all’inizio – un’offensiva locale, era invece la prima fase di quella grande battaglia invernale di cui nessuno può dimenticare le tragiche conseguenze. Il II gruppo fu richiamato d’urgenza nel proprio settore reggimentale, ma non fece in tempo a tornarvi. In tal modo si salvò dall’immediato annientamento, ma rimase tagliato fuori, in una delle tante sacche che il dilagare della forze corazzate nemiche aveva cucite intorno ai reparti nostri ed alleati.

L’anabasi del II gruppo (del 120° reggimento artiglieria motorizzato) si aprì con un combattimento sostenuto a Mescoff per ritardare l’avanzata avversaria e permettere il ripiegamento delle nostre truppe. Subito dopo dovemmo caricare sui nostri automezzi i resti dei due reggimenti bersaglieri della nostra divisione. Erano solo poche decine di uomini, ma per far loro posto dovemmo abbandonare tutte le cose non indispensabili e tutti gli equipaggiamenti, compresi quelli personali che furono ridotti alle coperte ed alle gavette. Per dare maggiore capienza agli autocarri, si buttarono via anche i tendoni. Questo sacrificio ci parve grande perché ancora non sapevamo quel che ci attendeva.

Cinquanta chilometri ad est di Millerowo ricevemmo l’ultimo rifornimento di benzina. Poi, per dodici giorni, fu un susseguirsi si marce estenuanti, di speranze senza conferma, di assaliti disperati per aprirci una via verso la salvezza o per la conquista di un villaggio dove poter passare la notte al riapro dal gelo mortale. La mancanza di carburante fu la tragedia più sentita di quei giorni, e la causa della perdita di molte vite umane.

Quando fu chiaro che non avremmo potuto contare sull’aiuto di nessuno né ricevere rifornimenti di alcuna specie, abbandonammo e distruggemmo i trattori: erano mezzi di poca capienza per gli uomini, e consumavano parecchio. I cannoni furono agganciati ai “626”. Poi fu l’agonia di questi ultimi. I livelli della benzina scendevano inesorabilmente e fu necessario sacrificare alcuni autocarri in favore di quelli che trasportavano il “reparto d’assalto”, ossia gli uomini cui era devoluto il compito di proteggere la ritirata della interminabile colonna a piedi. Lungo le piste che noi battevamo e in prossimità delle isbe sperdute nella steppa, sostavano – senza più vita – automezzi di tutte le specie e di tutte le nazionalità, a volte isolati, a volte in gruppi numerosi,; alcuni di vecchio tipo, altri nuovissimi, forse ancora in rodaggio. E la colonna a piedi si faceva sempre più lunga, più numerosa, più lenta.

I nostri “626” finirono tutti da veri soldati: con quaranta uomini sul cassone, dieci nella cabina, un cannone da 75 al traino ed altri uomini aggrappati a questo, marciarono per giorni e giorni, senza il più piccolo guasto, fino a che le ultime gocce di benzina non mettevano il rantolo della morte nei loro cilindri. Allora si fermavano ai margini della pista, tra le sagome grigioverdi dei caduti e le carogne scheletriche dei cavalli. Accomunati dallo stesso destino. Più fortunati furono quelli colpiti dalle granate dei carri armati o incendiati dalle mitragliere degli aerei; più sfortunati quelli che dovemmo abbandonare di proposito per dare ad altri qualche chilometro in più di vita. Al decimo giorno dall’inizio del ripiegamento, dei sessanta automezzi del II gruppo (del 120° reggimento artiglieria motorizzato) non ne rimaneva che uno: Carolina. Portava a rimorchio il cannone superstite (pressoché inefficiente perché il terribile gelo ed i troppi colpi sparati ne avevano guastato i congegni di recupero) ed un impossibile grappolo di uomini addosso. Non altro, perché anche le provviste di viveri erano finite da parecchio e non ci rimanevano che un sacchetto di zucchero da mescolare con la neve ed alcuni litri di cognac. Sembrava inverosimile che quel motore e quel telaio riuscissero a tirare avanti con tutto quel carico. E per quanto ancora? Quanta benzina rimaneva? Purtroppo la risposta a queste domande non tardò a venire.

Alle undici di sera del 31 dicembre, sotto il cielo stellato ed in un paesaggio smaltato dalla luna, anche Carolina si fermò. Aveva potuto marciare sino a quel momento perché la previdenza dell’autiere aveva messo da parte, in tempi migliori, una piccola riserva di carburante. Ora tutti i “kanisters” erano vuoti, e lo sapevamo. Provammo, tuttavia, a rovesciarli ancora una volta nell’alimentatore, per spremere le ultime gocce. Nulla. Solo il “kanister” del cognac opponeva alle nostre braccia stanche il peso consistente del suo contenuto. Qualcuno, timidamente, fece un’assurda proposta e subito, senza esitazioni e senza parole, il cognac fu versato nel serbatoio. Ma non valse a rianimare il cuore generoso di Carolina: pochi starnuti bolsi furono la sola risposta alle nostre speranze.

Poteva Carolina! Portammo via il distributore del suo spinterogeno con la stessa mestizia con cui chiudevamo gli occhi ai morti. Quel distributore e l’otturatore del cannone erano ormai gli unici ricordi tangibili del nostro gruppo di artiglieria (del 120° reggimento artiglieria motorizzato). Ma la storia di Carolina non termina qui. Difatti quella stessa notte raggiungemmo – inaspettatamente – le linee amiche, e l’indomani una nostra pattuglia recuperò Carolina ed il suo cannone.

Due giorni dopo Carolina volle testimoniarci la sua riconoscenza con un regalo: dal suo cofano per attrezzi vennero fuori un’oca morta ed una gallina agonizzante. Benché non fosse stato possibile stabilire la data di decesso dell’oca, un ottimo brodo attenuò la nostra fame arretrata; la gallina, sottoposta a speciali cure, si riebbe e ci servì in seguito.

Di lì a qualche tempo il II gruppo (del 120° reggimento artiglieria motorizzato) venne riorganizzato ed ebbe nuovi autocarri. Tuttavia Carolina era considerata il solo “nostro” automezzo. Non potevamo fare a meno di pensare che, se i superstiti del gruppo erano riusciti a rompere l’accerchiamento, era in gran parte merito dei nostri automezzi. Fin che avevano potuto, essi ci avevano dato la mobilità indispensabile al combattimento, avevano trainato i nostri pezzi permettendoci di tenere a bada i carri armati, erano stati un’isola di salvezza nel marasma che tentava di travolgerci, e ci avevano fatto economizzare preziose energie. Per questo, Carolina era per noi molto più di un autocarro. certo era buffo vederla camminare, così ridotta: sparita ogni sovrastruttura, perso il tubo di scarico, le centine contorte, il cassone deformato; e, inoltre, il treno posteriore spostato lateralmente di un palmo, così che ne risultava un’andatura di sbieco che ricordava molto quella dei cani. tuttavia a noi sembrava bella lo stesso e ci bastava sentirla cantare con la voce piena dei sui sei cilindri – come se il suo motore fosse uscito allora dalla fabbrica – perché nascesse in noi la speranza di dimenticare, un giorno, ciò che era stato.

Carolina rientrò in Italia con noi, su un pianale agganciato alla nostra tradotta. Trecento uomini e un autocarro: tutto quello che restava nel nostro reggimento.

Sottotenente Gino Papuli II gruppo 120° reggimento artiglieria motorizzato

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Breve racconto di G. Guasconi, Ten. della 101^ Btr. del 120° Regg. Artigl. Mot., tratto da "Fronte russo c'ero anch'io" a cura di G. Bedeschi.