di Achille Omar Di Leonardo
Roma, 27 ottobre 2007 |
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Un’intervista interessante per il ruolo che “il tenente del 120° Reggimento Artiglieria Motorizzato, ha avuto, soprattutto per essere stato il custode del diario di reggimento. Considerando che la sua esperienza nei campi di prigionia sovietici era stata molto dura, Ghibelli raccontava gli avvenimenti salienti con apparente “lucidità”. La cronologia degli eventi risultava infatti compromessa dall’incapacità raccordare le vicende alle persone o alla storia del reggimento. L’atto di rimozione attuato subito dopo il rimpatrio era molto evidente nell’esposizione, tanto che non scrisse nulla sulla sua esperienza, tranne un piccolo libretto di memorie (leggilo online) in cui ha annotato solo le esperienze rimaste più impresse nella sua memoria. Ricordi che, nel loro insieme, risultano frammenti di una pellicola di un film montato ma comunque uno scrigno prezioso, scritto con delicatezza e, a tratti, con imbarazzante ingenuità. Ghibelli era un ufficiale delle retrovie e questo lo ha risparmiato, per certi versi, dagli eventi più cruenti. Si è ritrovato però a subire gli effetti della tragicità della guerra, attraverso il purgatorio dell’esperienza della prigionia che, ancora una volta, ha svuotato l’uomo della sua dignità tenuto in vita solo per una serie di circostanze fortuite. Ripeterà ossessivamente infatti di essere stato “un uomo fortunato a tornare vivo”. Nonostante la difficoltà di vita dei primi anni da reduce, riuscì a superare la sua condizione di generale confusione, vivendo una vita fatta comunque di realizzazione lavorativa. I momenti difficili però non sono certo mancati, aveva perso prematuramente, per eventi tragici, suo figlio Augusto. Al momento dell’intervista, traspariva in lui un senso di rassegnazione persistente, visibilmente stanco sembrava allontanarsi dal mondo in punta di piedi. |
Di quale reparto faceva parte? Del Comando, ero l’aiutante maggiore del Colonnello [dai documenti questo dato non risulta confermato. Ghibelli era un Tenente e l’aiutante del Colonnello Di Janni, i ricordi sono vaghi e non possono essere confermati].
Quindi chi più di lei può sapere del 120°? Beh, sì certo, ma alcuni particolari, purtroppo, non li ricordo più.
Cerco di spiegare al Ghibelli che l’intervista che sto per fargli verrà pubblicata nel sito del 120° e introduco altri reduci che hanno lasciato la loro testimonianza in in altre interviste già rese pubbliche sul sito.
Di quanti uomini era composto il centoventesimo, nell’ordine dei migliaia? Non ricordo con esattezza, forse duemila.
Prima di proseguire le mostro delle foto che vengono direttamente dalla Russia.
Mentre mostro le foto mi dice:
Con alcuni ufficiali ci siamo tenuti in contatto dopo il rientro in Italia, con Bassi per esempio.
Ci sono stati momenti in cui eravate tranquilli come in questa foto, dove i soldati prendono addirittura il sole? Sì, certo. Deve considerare che noi dell’artiglieria eravamo in seconda linea, non eravamo in linea avanzatissima. I bersaglieri erano in primissima linea con la fanteria, noi eravamo a circa un km da loro quando il fronte era fermo, altrimenti, quando si era in movimento, eravamo in prima linea noi.
Lei comunque è stato fatto prigioniero. Sì, ma non ricordo quando. Forse nel mio libretto l’ho scritto.
Ghibelli ha solo ricordi vaghi, cercare di far rievocare nomi è piuttosto complesso e, oltretutto, noto un certo stato di affaticamento, quindi desisto. Poi si torna sul discorso interrotto prima.
Con alcuni ufficiali sono rimasto in contatto, con Bassi con…
Martelli? Martelli, già! Era proprio a lui che stavo pensando. Martelli era di Bologna e Bassi invece è di Padova.
Sì, di Villanova. E già, di Villanova Camposampiero.
Del diario di reggimento sa nulla? Io, non ricordo più nulla. Quando sono tornato [dalla prigionia] ho cercato di dimenticare tutto…
Questa frase mi blocca
…anche perché, quando sono tornato dalla guerra, purtroppo, mi è successo che in banca [Ghibelli lavorava già in banca dal 1935 ndr] non riuscivo a capire quello che leggevo.
A causa della sua brutta esperienza. Sì, appunto. Per fortuna, il direttore della filiale, lavoravo in via del Corso qui a Roma, avevano seguito la mia vicenda per cui capirono e furono pazienti con me. Sono stato assunto nel ’35, avevo ventun’anni. Dopo il diploma ho “lavoricchiato” un paio d’anni poi nel ’35 entrai in banca, qui a Roma. Quando iniziai mi ero fatto conoscere per il mio impegno, lavoravo molto e non avevo orari, essendo solo a Roma mi dedicavo molto al lavoro, un po’ era anche il mio temperamento. Mi spostavano spesso da una parte all’altra, per cui avevo ormai conoscenza di tutti i servizi e mi arrabbiavo spesso con i miei colleghi meno abituati a lavorare sodo. Io pensavo fosse un bene dedicarsi al lavoro in quel modo ed invece credo che mi considerassero un rompiscatole, forse era per quello che mi spostavano da una parte all’altra. Poi con la guerra è successo quello che è successo, tornai, i miei colleghi mi festeggiarono però non riuscivo proprio a seguire nulla. Per fortuna però quel periodo difficile passò, sono stato tutto sommato fortunato, ho fatto una buona carriera.
Le dirò che, rivedere a distanza di anni certi avvenimenti, dopo aver fatto. tutto sommato. una vita serena, tranquilla, non mi dà problemi parlarne. Ho avuto soddisfazioni nel lavoro e nella vita, ho sposato mia moglie, Vittoria, alla quale devo molto. E’ successo tutto per caso. Ci penso a volte a come si è svolta la mia vita e vedo una serie di coincidenze e di situazioni inspiegabili. Dicevo che sono un uomo fortunato: ho avuto dei genitori fantastici, sono stato fortunato in guerra dove ho visto tanta gente morire ed invece io mi sono salvato. Mi hanno messo due volte in barella considerandomi ormai morto e in entrambi i casi mi sono salvato. In una di queste occasioni mi stavano portando in barella nella buca dove mettevano tutti i morti e, una donna, che si ferma a visitarmi prima che mi portassero dentro, mi alza l’occhio e dice ai due che mi portavano “Niet kaput! Niet kaput” che vuol dire “non è morto! Non è morto!”. Quindi posso decisamente ritenermi fortunato perché sono stato partorito da mia madre prima e salvato da quella donna poi impedendo a quei due di buttarmi in buca.
Quindi lei si sente fortunato rispetto a quelle che sono state le sorti degli altri compagni. Io sono stato un uomo fortunato anche perché ho spostato questa donna qua.
Sorride ed indica sua moglie che passa in salone a portarci il caffè così, coglie l’occasione per raccontarmi del loro incontro
Io non sono veneziano, sono di Pellestrina, un’isola della laguna veneta. Noi ci siamo conosciuti in piazza San Marco, lei era insieme a dei miei amici in Piazza San Marco, ci trovammo lì seduti al Florian. Ad un determinato momento io dovevo andar via perché il mio vaporetto partiva, lei allora mi chiede “dove vai?” e io “vado a Pellestrina” e lei ancora “dov’è Pellestrina” e lì mi ha fregato, lo aveva fatto apposta. Anche perché, me lo ricordo bene, mi ricordo bene questa data, era il primo d’agosto: il 4 di agosto a Pellestrina c’è una grande festa che è la festa dell’apparizione. Nel ‘700, quando i veneziani erano in guerra con i turchi e stavano prendendo, si narra, leggenda o storia non so, che un bambino quando andava a scuola passava davanti alla chiesetta e diceva l’ave Maria. Un giorno, in questa chiesetta, trova una donna, che gli dice di dire al prete delle preghiere per la guerra dei veneziani affinché possano vincere la guerra. Lui però ribatte dicendo “ma il prete non ci crede!” ma lei le impone una mano e lo esorta nuovamente “va a dirglielo e non preoccuparti”. Il ragazzo riferisce al prete il quale gli chiede “cos’hai?” e il ragazzo “la signora ha poggiato una mano su di me”, il prete capisce, dicono le preghiere e i veneziani vincono la guerra. E il 4 di agosto fu una scusa per chiedere a mia moglie di visitare Pellestrina, loro sono venute e così ci siamo legati per sempre.
Dopo questa parentesi lo riporto sull’argomento Russia
Cosa si ricorda del giorno della partenza? Si è arruolato volontario? No, io ho fatto il servizio militare di leva, nel ’35, e poi nel 1940 sono stato richiamato e mi hanno mandato qui a Roma, al Lido di Ostia. Lì c’erano tre ragazze che venivano sempre a trovarmi, ero tenente poi fui promosso capitano. C’era il comandante che non amava questo via vai, io cercai di spiegare che erano delle amiche che passavano solo per salutarmi, ma fu evidente che non fui convincente, dopo poco mi trasferirono a Fiumicino ma queste ragazze poi venivano anche a Fiumicino. Io ero ufficiale e quando queste “amiche” venivano, uscivo dalla batteria così si sparse la voce di queste mie fughe.
La signora mi porta il libro scritto dal marito
In questo libro (leggilo online) quindi c’è la sua storia e quella del 120°. Abbastanza, si certo, c’è anche parte della storia del 120°.
Così dopo questo trasferimento viene chiamato per la Russia. No, vengo trasferito di nuovo, prima ad Ancona e poi a Padova dove formavano il 120° reggimento.
Era quindi già in un reggimento di artiglieria. Sì, nel 1935, quando mi chiamarono alle armi, mi mandarono a scuola di artiglieria. Ero già sottotenente di artiglieria e fui poi promosso tenente e successivamente capitano, quando ero a Padova mi pare, non ricordo bene.
Ha partecipato alla costruzione del 120°? Sì, mi hanno trasferito a Padova quando stavano costituendo il reggimento per trasferirlo in Russia. Mi recai in fureria, alla segreteria della caserma, lì c’era il sergente maggiore al quale chiesi cosa dovessi fare. Restai lì a guardare quello che facevano gli altri e dopo una settimana, dieci giorni, andai a bussare alla porta del colonnello, uno di quelli che la guerra non la fece, tornò in Italia. Entrato gli dissi: “scusi colonnello ma sa, sono stato in fureria per una decina di giorni ma adesso cosa devo fare?” e lui mi chiese “sa scrivere a macchina?” e io risposi “si, sono un impiegato di banca!”, “e allora si faccia portare un tavolinetto e una macchina per scrivere”. Mi faccio portare l’occorrente, mi metto a fianco della sua scrivania e poi torno a chiedergli “mi scusi colonnello, ma cosa devo scrivere?”, “lei” anzi “voi” si dava del voi, “dovete chiamare tutti gli ufficiali, farvi dire gli estremi del documento, da dove vengono ecc. dovete aggiornare i libretti personali degli ufficiali interrogandoli tutti quanti”. Io li accoglievo nell’ufficio del colonnello, gli ufficiali mi fornivano il nome e cognome, gli estremi del distretto di appartenenza e poi scrivevo lettere ai distretti. Il colonnello era soddisfatto del mio lavoro.
Lei aveva un elenco da consultare. Sì, un elenco degli ufficiali che erano già stati trasferiti al 120°, il mio compito era quello di sapere la loro storia militare. Quando erano stati richiamati, a quali reparti erano stati prima di passare al 120°.
Lei a quale reggimento apparteneva prima del 120°? Io ero qui a Roma ma non lo ricordo quasi più, ero in una batteria da costa. Quando mi hanno richiamato, ho fatto i tiri a Ostia e a Fiumicino. Prima ero in una località sull’Adriatico, forse a Pescara. Da lì mi trasferirono a Padova dove per me era un sogno. Lì c’era una famiglia di conoscenti, figli di amici dei miei nonni, che hanno voluto che io fossi loro ospite. Loro avevano una bimba piccola per cui mi trattavano come un loro figlio maggiore, fu quella “bimba” a farmi conoscere mia moglie quella volta che eravamo al caffè Florian.
Io avevo diverse conoscenze, a Milano, a Torino dove avevo una “conoscenza molto intima”, una farmacista con la quale ho continuato a vedermi, facevo sempre un giro nei miei spostamenti tra i conoscenti. Quella volta a Padova i miei mi dissero che Annamaria [la bimba] era a Venezia da una sua amica [la sua futura moglie], mi dissero anche che di solito si recavano al caffè Florian, in Piazza San Marco, così andai lì e ci conoscemmo, fu lì che lei mi “incastrò” con il suo stratagemma, se lei non mi avesse detto “dov’è Pellestrina” non l’avrei sposata.
Quindi tornando al 120°, ad un certo punto lei apprende la data della partenza. Da chi lo apprende? In verità già sapevo della partenza per il fronte russo, il 120° era nato apposta quindi non mi fece impressione nel momento in cui si avvicinava la partenza, fece molta impressione a mia madre, questo sì. Avevo cercato già di prepararla, le avevo dato già qualche notizia in merito. Le dissi che ci avrebbero spostato in località incerta, d’altronde si sapeva che si sarebbe andati a fare la guerra. Tornato a Pellestrina per salutarla le dissi che sarei partito per la Russia ma cercai di rassicurarla perché sarei stato l’aiutante del colonnello per cui non sarei stato in prima linea, le raccontai un po’ di frottole per non farla preoccupare più del dovuto. Le dirò che, anche lì in caserma, nella sede del reggimento, così come quando ero in banca, non avevo orario. Sono stato sempre uno “sgobbone”, al mio paese si usava dire una parolaccia per additare quelli che lavorano tanto, che si danno tanto da fare, questo mi ha permesso di essere sempre tranquillo nelle situazioni, mi impegnavo la testa. Mi sono comunque sempre ritenuto fortunato, ho avuto dei genitori fantastici, dove andavo sono sempre stato accolto molto bene, ho avuto la fortuna, anche a Padova, come le dicevo, di essere stato accolto da questa famiglia che aveva una villa molto bella.
Di solito, anche dalle interviste fatte, se si guarda al periodo storico in cui siete cresciuti, soprattutto prima dell’entrata in guerra, si nota come i giovani arruolati per la guerra partano con un certo entusiasmo e con un senso di paura quasi inesistente. Si tendeva cioè ad affrontare l’arruolamento con baldanzoso coraggio. Per lei com’è stata questa esperienza? Per me non è stato molto sereno, avrei dovuto lasciare, come del resto è stato, il mio lavoro, che fu la cosa più difficile alla quale dovetti rinunciare. La guerra io non l’ho mai condivisa nè capita. Non capivo perchè non ci potesse essere un modo pacifico per risolvere i problemi fra gli stati, perchè, per esempio, non si potesse risolvere con dei trattati. Era pacifico però che non mi ribellavo a certe scelte, avevo un senso del dovere che non mi faceva tirare indietro di fronte a certe difficoltà.
E non aveva nemmeno paura? No, assolutamente, in quelle circostanze lì, quando cioè ero in caserma, negli uffici, non avevo questo timore, certo poi ho visto tanta gente ferita, tanta altra morire.
In guerra, è comprensibile che di fronte alle perdite di soldati ci siano certe reazioni, la morte la si vede davanti, ma prima della partenza lei avvertiva queste paure? No, anche quando mi hanno trasferito a Padova per la formazione, sono stato fortunato perchè non ho mai avuto l’apprensione per la guerra. Anche quando ero ad Ostia e a Fiumicino, lì gli inglesi non si sarebbero mai affacciati verso il mare, e poi a fare cosa?
Cosa si ricorda del giorno della partenza? Per me è stata come una partenza per un viaggio.
Quindi non ha salutato i sui genitori con nostalgia, con tristezza. In un certo senso sì, ma per me andare in Russia era come conoscere un posto nuovo, un mondo nuovo e sconosciuto. Era un po’ un luogo mitico, la Russia, l’Ucraina. Devo dire che quando ci siamo trovati in Ucraina mi resi conto di trovarmi tra gente talmente gentile che quando scrissi la prima lettera, mi ricordo che le raccontai di questo fatto. Le scrissi “sai mamma, mi sembra di essere in un rione di Venezia dove parlano una lingua che non conosco, un dialetto che non capisco però la cadenza risuona familiare, sembra veneziana. Questi ucraini sono dei veneziani che parlano una lingua diversa”. Le posso confermare che noi italiani con gli ucraini abbiamo convissuto bene, ci hanno accolti a braccia aperte, non ci hanno considerato dei nemici, ma semmai dei liberatori. Almeno io ho avuto questa impressione. erano di una cordialità estrema. Il fatto di aver scritto a mia madre che gli ucraini “erano dei veneziani con un dialetto diverso” voleva dire che c’era questo rapporto alla pari, non era lo stesso rapporto che avevano con i tedeschi che, al contrario, venivano temuti, erano, per loro, degli invasori.
Ma lei come si spiega questo fatto? Devo dirle che, essendo al comando, avevo dato disposizioni a tutti e tre i gruppi, di trattare con umanità la popolazione, di vivere la convivenza con umanità, di non andare a rubare, per cui alla lunga, avemmo un certo riscontro. Posso dirle anche che, quando c’era la distribuzione del rancio, noi eravamo, come ho già detto, nelle retrovie rispetto alla prima linea, vedevo che intorno ai nostri artiglieri, che si sedevano intorno alla gente del villaggio, si faceva il capannello dei bambini e i nostri soldati distribuivano il rancio alla popolazione. Io mi stupivo perché quel gesto era un fatto spontaneo, nessuno aveva detto loro di sfamare la popolazione, era un atteggiamento del tutto naturale ecco perché credo che la gente, gli ucraini, non avessero timore della nostra presenza, si era sparsa la voce che noi non eravamo come i tedeschi ma eravamo di casa. Lo scrissi anche nelle lettere di questa buona accoglienza.
Il viaggio di trasferimento in tradotta com’è stato? Siete partiti da Padova per arrivare dove? Passammo attraverso la Romania per raggiungere l’Ucraina, in una cittadina nei pressi del mare, mi pare Odessa, poi passammo per Krivoj Rog.
Questa era una tappa obbligata per chi doveva raggiungere il Don? Sì, poi ci dirigemmo verso nord a Dnijepropetrowsk e da lì, verso il Don.
Da Dnijepropetrowsk vi dirigete subito verso il Don? Non ci sono state battaglie intermedie? Si, certo.
In questi trasferimenti c’erano delle tappe in cui vi fermavate più a lungo? Sì, ogni tanto ci si doveva fermare.
La tradotta dunque dura dall’Italia, da Padova, fino a Odessa, e poi? Si prosegue con i mezzi? Sì, con i camion.
Lei uu cosa viaggiava? Sui camion.
Anche il colonnello? Sia il colonnello che il comandante viaggiavano su una macchina, una fiat 1100.
Quante macchine aveva il 120°? C’erano i capigruppo che avevano una macchina a testa. Il reggimento era formato da tre gruppi, ogni gruppo era comandato da un maggiore o da un tenente colonnello.
E ogni gruppo aveva una vettura 1100. Quindi c’erano almeno 4 vetture. Sì, almeno quattro. Le batterie seguivano i tre gruppi.
Quindi i comandi erano distribuiti sui tre gruppi? Sì, ogni gruppo aveva un comandante che dipendeva dal comando di reggimento. Io ero, sono diventato, l’aiutante maggiore del colonnello, del comandante, perché il maggiore che c’era prima, pochi giorni prima di partire per la Russia, è stato trasferito, o meglio, si è fatto trasferire per non partire.
Trasferito in altre zone? No, in Italia!!!
Al comando quindi quanti eravate? C’era il colonnello, lei e poi? C’erano i tre comandanti di gruppo, poi gli ufficiali di batteria.
Ai vertici però eravate in cinque! Un colonnello, tre comandanti, uno per ogni gruppo, e lei aiutante maggiore. Mi pare di sì.
Si ricorda i nomi dei comandanti? No.
Il colonnello era Ugo De Simone o Dino Di Janni? Di Janni era stato trasferito, mi pare.
De Simone lo avete incontrato in Russia o e partito con voi dall’Italia? E’ partito dall’Italia, ora non vorrei dire inesattezze, ho paura di non ricordare bene.
Avevate rapporti con i tedeschi dal momento in cui venite assegnati alle loro dipendenze, ancora prima di essere affidati alla divisione Celere, o questo fatto è solo un discorso burocratico che non incide sull’andamento del trasferimento verso il fronte del Don? Inizialmente non ero comandante, ero al reparto comando ma non ricordo di aver avuto rapporti con i comandi tedeschi o almeno non posso affermarlo. Quando sono stati trasferiti degli ufficiali, sono passato al comando in sostituzione dell’aiutante maggiore.
Com’era strutturato il reparto comando nell’ambito degli autisti? Trasportava tutto quello che bisognava trasferire, dai viveri, alle artiglierie, ai soldati. Gli autisti dei camion servivano per questo, viveri, munizioni e trasferimento di reparti.
Che tipo di rapporto c’era con i soldati e con gli ufficiali del reparto comando? Con gli ufficiali del reparto comando c’era cordialità ma certo non c’era possibilità né tempo di poter stringere un rapporto di amicizia con i soldati, io avevo degli obblighi che non mi permettevano di avere un contatto lungo con i soldati, non tale da permettermi di ricordare i loro nomi. Non ricordo nemmeno il nome del mio attendente che, quando andò in licenza, portò i miei saluti a casa dai miei a Pellestrina, fu un gesto molto bello che ricordo con piacere ma non ricordo l’attendente, purtroppo.
Si prosegue con la lettura della storia del 120°
Il motto del 120° era “Nuove vampe… …nella grande fiamma”
Ad un certo punto c’è il passaggio di consegne del reggimento tra il colonnello Di Janni e il tenente colonnello De Simone [siamo al 1° giugno 1942]. Mi ricordo che il Colonnello De Simone mi disse di accompagnare il colonnello [Dino Di Janni] al campo dell’aviazione.
Dove? A Stalino? Forse, non ricordo bene. Mi ricordo però di questo fatto. L’ho accompagnato e vicino a lui c’era un altro capitano dei bersaglieri che tornava anche lui in Italia. Ci siamo presentati e scoprii che era un veneziano, ci demmo del tu e ci scambiammo delle informazioni. Lui era stato trasferito in Italia, così gli spiegai che ero di Pellestrina e gli chiesi se poteva passare a casa dai miei a salutare mia madre, o magari farle una telefonata. Ci salutammo e in concomitanza salutai anche Di Janni con il quale ci abbracciamo. Quando le mie sorelle mi scrissero mi riportarono la notizia che questo capitano era passato da loro a portare il mio saluto e mi scrissero anche dell’abbraccio che avevo avuto con Di Janni, il capitano riferì che il colonnello mi aveva abbracciato come se fossi suo figlio. Fu un episodio che mi rimase molto impresso, ero compiaciuto di quell’abbraccio come lo fu mia madre. Ero un suo collaboratore, ero ignorante nell’ambito delle questioni militari ma me la cavai, in questo il lavoro che facevo in banca mi aiutò.
Questo passaggio di consegne fu una cerimonia ufficiale o rimase un episodio circoscritto al comando? E’ stata una questione che si è risolta nell’ambito del reparto di comando. Dopo però, insieme a De Simone, abbiamo fatto il giro degli altri reparti, la notizia era stata data a tutto il reggimento e lui ha voluto conosce tutti i reparti, andammo insieme.
Come operavano i reparti e i gruppi, avevano un proprio luogo e un proprio ambito di operatività differente rispetto agli altri? I tre gruppi sono stati distribuiti a seconda della difesa da dare ai bersaglieri, a supporto dei loro reggimenti.
Si ricorda il primo attacco? Quando prendemmo posizione, ci fu anche un arretramento, ma ne ho un ricordo vago.
Si prosegue con la lettura
Si ricorda delle piramidi di carbone? Si, erano in tutta la zona carbonifera.
A Serafimovich c’era una testa di ponte russa. Si ricorda dei carri armati? Si come no!
Cos’è che ha cercato di cancellare dalla sua memoria, i momenti brutti? No, sono andati via da soli anche senza volerlo. Nel mio libro ci deve essere un riferimento a questi episodi, deve esserci anche una piantina degli spostamenti. Ci sono anche dei disegni di Bassi, a lui ho dedicato anche il libro.
Anche quando venivate attaccati, non aveva paura? Come le ho detto non avevo timore perché nella mia permanenza in Russia ero, inizialmente, addetto al comando, successivamente divenni aiutante maggiore del colonnello e quindi stavamo sempre molto indietro, eravamo protetti, quando le truppe si muovevano noi ci muovevamo a nostra volta, a debita distanza. Quindi non ho mai avuto paura. Il colonnello era in posizione arretrata perché doveva avere il quadro complessivo della situazione altrimenti non avrebbe potuto dare gli ordini di schieramento, doveva avere una visione ampia e totale della situazione, se il nemico avesse avuto la possibilità di attaccare il comando avremmo dovuto dire addio all’intero reggimento. Quando non c’era la possibilità di avere contatti telefonici con le truppe si mandava un autista per avere il quadro della situazione. Di solito si muovevano con il camion perché con le moto, in quel tipo di terreno, era difficile. L’uso della motociclette era limitato, i camion erano certamente più affidabili, bisognava essere sicuri che il soldato arrivasse a destinazione.
Come sono andate le cose con la cattura? Ci aggirarono alle spalle. Ci fecero prigionieri e ci unirono insieme ai soldati. Poi ci divisero, i soldati li spedirono in un campo e noi ufficiali fummo trasferiti a Sudzal, avevamo alcuni soldati che si occupavano della cucina. Eravamo insieme ai rumeni e ai tedeschi. All’inizio, sia gli ufficiali che i soldati, non avevano dei compiti, questa organizzazione la praticammo in seguito. Nei campi, inizialmente, non ci interrogarono, per più di un mese nessuno fu interrogato, passò molto tempo prima che ci schedassero.
Cosa si ricorda della prigionia? Mi ricordo quando ero su una barella e mi stavano portando in una buca perché dovevo morire.
Perché doveva morire? Perché stavo molto male, non si mangiava, c’erano i pidocchi che trasmettevano malattie. Mi ricordo che mi misero in una stanza del campo 160 di Sudzal. Il campo aveva delle mura colossali, una costruzione enorme fatta nel 1600, mi pare. Dopo circa tre, quattro mesi le cose si sono stabilizzate e i russi si sono organizzati. Ci divisero in reparti, italiani, rumeni, tedeschi e anche il mangiare, nonostante fosse sempre la solita zuppa, veniva distribuito con regolarità. Dopo aprile-maggio [1943] anche la mortalità è diminuita notevolmente. Ad un certo punto mi ammalai, sarei dovuto morire. Mi portarono in un lazzaretto e lì, in fin di vita, mi portarono con una barella verso le buche dove mettevano i morti. Un donna del lazzaretto mi vide sulla barella vicino a un muro e, visitandomi agli occhi, tirandomi sù la palpebra, disse a questi due “niet kaput, niet kaput”, non è morto non è morto. Tante cose le ho dimenticate ma questa donna e i due con la barella li ricordo con una certa chiarezza eppure ne ho passati di momenti difficili, ma questo non so perché è particolarmente vivo nella mia memoria. Contino a ripeterlo ma devo la mia vita a due donne, a mia madre e a questa donna. La ringrazio molto per questa sua venuta perché è un periodo in cui certi ricordi mi ritornano ciclicamente, ricordi brutti e belli anche se non sempre ricordo i luoghi. Certe scene sono piuttosto vive nella mia memoria.
È successo qualche episodio di umanità, per esempio, con i prigionieri? Quando venivano portati al comando, li interrogavamo ma era sempre un rapporto, per fare un parallelo d’ufficio, tra superiori e impiegati. Un superiore che chiedeva qualcosa e che esigeva una risposta, non li trattavamo come di solito si pensa di trattare un prigioniero.
Il reparto comando, oltre ad essere il reparto più indietro, era quello che dirigeva i tre gruppi? Come reparto comando eravamo sempre in contatto con il comando della divisione, il comandante generale del comando di divisione aveva il compito di disporre i reggimenti dei bersaglieri. Eravamo insieme a due reggimenti di bersaglieri, 3° e 6°, comandati da un generale, quando il generale disponeva i reparti il colonnello del 120° doveva andare al comando di divisione, in quelle occasioni lo accompagnavo.
L’intera divisione Celere doveva coprire un fronte di circa 50 km. Sì, c’erano parecchi vuoti però.
Quindi rischiavate parecchio! Purtroppo la prigionia ha cancellato tante cose nella mia memoria. In definitiva ho avuto una certa simpatia per i russi, salvo qualche eccezione. Con noi i russi si comportavano diversamente. Forse perché in quel periodo c’era Togliatti. Nel 1943 è tornato in Italia. Mi ricordo di un italiano, forse Robotti o D’Onofrio, era venuto al nostro campo. Noi che siamo vivi non sappiamo perché abbiamo resistito, abbiamo camminato per venti giorni a 40 gradi sotto zero, io mi ripetevo sempre che dovevo resistere e soprattutto dovevo stare tra le prime file perché se rimanevo indietro avrei rischiato di fermarmi. In quei momenti puoi pensare solo a vivere, non si pensava nemmeno a mangiare, pensavi che l’unica cosa importante fosse camminare per sopravvivere, se non si camminava si veniva sparati. Ogni tanto si sentivano degli spari e quando si sentivano gli spari voleva dire c’era un uomo che rimaneva lì. La marcia del Davaj è stata una brutta esperienza.
Della cattura si ricorda qualcosa in particolare? Mi ricordo che c’era… I russi avevano già circondarti tutta la zona, eravamo tre capitani, eravamo rimasti isolati con una dozzina di artiglieri e qualche bersagliere. Si sono avvicinati due russi che avevano preso dei tedeschi, li portarono verso un’isba. Subito dopo sono tornati da soli verso di noi. Quando ci chiesero “uffiziale iest?” “ci sono ufficiali?” i soldati nel sentire questa richiesta si sono sposati lasciandoci, noi tre ufficiali, allo scoperto. Indietreggiarono e questo mi ferì molto perché non ci fu esitazione in questo loro gesto. Avevano paura che ci sparassero, che sparassero cioè agli ufficiali. Quando ci hanno chiesto se ci fossero ufficiali noi, invece, facemmo un passo avanti. I russi allora ci hanno portato verso un’altra isba dove c’era un loro capo che stava interrogando altri, subito dopo interrogò noi e poi ci ha lasciato con gli altri soldati, ci hanno messo in fila e fatto incamminare verso una stazione dove siamo saliti su un treno. Sulla tradotta successe un episodio che racconto anche nel libro. Il treno si fermò e si aprirono i portelloni, eravamo nella steppa piena di neve. In lontananza c’era un villaggio. Io sono sceso per prendere dell’acqua. Salendo mi rivolsi ad un russo che era sulla locomotiva “vrastisi tomaish” “Buongiorno compagno” quello si volta, mi sorride e mi risponde “vrastisi, vrastisi”. Allora gli chiedo un po’ d’acqua “da, da ,da” mi dice, sì. Mi ricordo bene il suo sguardo di compassione, di pietà, che ha avuto verso di me, anche lui si vede che si sentiva al di fuori della guerra e vedeva che questi poveretti morti di fame e di sete, in fondo, erano uomini come lui. È stata una scena come di un padre che vede un figlio che sta male, un’espressione di impotenza di fronte alla sofferenza. Se i soldati avessero visto che prendevo l’acqua, chissà cosa sarebbe successo. Gli ucraini, con noi, normalmente, si comportavano bene, ci trattavano bene, erano molto cordiali, ci vedevano quasi come dei liberatori, con quel regime lì non si capiva quale fosse il reale fine dell’ideologia. Il comunismo era una gran bella cosa, teoricamente, perché dice che tutti devono avere qualche cosa, ma non era vero per niente. Perché tutti portavano via tutto a quello che lavorava e quello che non lavorava aveva lo stesso trattamento. Nasceva secondo me, in chi lavorava, un senso di rivalsa per cui anche chi lavorava era indotto a non farlo. Allora, un conto è sostenere uno che non ha la possibilità di avere ma che io lavori e poi mi debba essere tolto quello che ho prodotto di mio per darlo ad un altro, che fa finta di lavorare, e ha quello che ho io, mi pare eccessivo, questo fa scattare un comportamento sbagliato per cui tutti fanno finta di lavorare. L’Ucraina è un paese come il Veneto, ha delle potenzialità enormi, la terra è una terra fertile. Potrebbe essere una delle nazioni più ricche del mondo.
Non è un caso che Hitler voleva appropriarsene per sfamare l’Europa. Esatto, quella terra se ben lavorata produce molto, io non me ne intendo ma, in qualche modo, notavo che la terra ucraina era in verità una terra potenzialmente fertile.
Quindi girasole, granturco… Si andava a raccogliere nei campi il granturco in tempo di prigionia.
Questa esperienza cosa le ha lasciato? Le ha cambiato la visione della vita rispetto a quando era partito? Ma no, mi ha lasciato molta tristezza nel pensare che la guerra è una cosa insulsa e certi paesi, come l’Ucraina, che è una delle nazioni più ricche, per la sua terra fertile, di tutta l’Europa, viva male perché è stata guidata male. Io sono di tendenza liberale, non ho mai capito il fascismo e ancora meno il comunismo. Il comunismo, che idealmente è una bella cosa, è in verità impraticabile, è impossibile. Questa è una teoria prettamente cristiana, quella di aiutare il povero, di spogliarsi dei beni, è un concetto che rientra più nell’ambito della fede religiosa, nella pratica umana, non si può costringere gli uomini obbligandoli ad attuare certe scelte. Quindi ribadisco la mia propensione per il liberalismo e non per la prevaricazione.
Il fascismo come lo ha vissuto alla luce di quello che ha detto adesso? Sono stato sempre ai margini dell’ideologia, ho cercato di sopravvivere alle logiche adottandone certe regole: ho eseguito i percorsi obbligati, sono diventato avanguardista, poi fascista perché dovevo sopravvivere. Io ero nella Banca Nazionale del Lavoro e se non avevi la tessera del partito non lavoravi ma, nonostante questo, non ho mai condiviso gli aspetti ideologici fascisti.
Come viveva prima di entrare in banca, che lavoro facevano i suoi genitori? Avevo avuto esperienza in qualche studio privato, mio padre era titolare dell’ufficio postale di Pellestrina, uno zio era segretario comunale…
Tutti su una scrivania! Sì, anche mio zio, era un “padrone”, non ne aveva l’aria ma era un “padrone”. Il suo superiore era il podestà di Venezia, quando veniva a controllare Pellestrina mi portava con lui, mi portava sulla muraglia che c’è a Pellestrina e tirava fuori dalle tasche delle monetine, io allungavo la mano e ne prendevo sempre una, la più piccola.
Per educazione… Eh si, prendevo sempre la più piccola!
Mussolini cosa rappresentava per lei? Io non mi opponevo, eseguivo quello che mi dicevano di fare, se c’era qualche manifestazione andavo, non ho mai avuto questo senso di ribellione così come non l’ho avuto di servilismo. Non sono mai stato un fanatico fascista, mai! Forse non capivo, o non ho capito, cosa fosse il fascismo, sono stato quattro anni in collegio, poi quattro anni ospite di amici, insomma seguivo le adunate, perché sono stato anche io avanguardista, dove si gridava “viva il Duce, viva il Re”, ma non sentivo la pressione o il trasporto per il fascismo. Quando sono venuto qui a Roma ho capito invece che dovevo essere più attento, qui non frequentavo molto le adunate, non mi piaceva. Ero diventato amico di uno di questi segretari dei fascisti e gli dissi “senti, io non riesco ad andare a queste adunate” allora lui mi disse “va bene, allora ti trasferisco nelle mie sezioni” così fui congedato, me la sono cavata fino a che non mi hanno richiamato per la guerra.
L’entrata in guerra quindi come l’ha vista? Si è posto qualche domanda in merito alla sua utilità? Per me la guerra è una cosa insulsa, non la condividevo, perché uno deve avere la terra degli altri? Non la capivo, così come non capivo perché il Veneto, per esempio, dovesse essere sotto l’Austria. Non capivo perché non ci si potesse mettere d’accordo senza arrivare alla guerra. Il Trentino era naturalmente Veneto, c’erano e Alpi che lo dividevano dall’Austria, era geograficamente più italiano. Era più logico che fosse italiano.
Quindi con lo stesso ragionamento, invadere la Russia voleva dire appropriarsi di una terra impropriamente. Ha percepito dunque di stare in un posto dove sarebbe stato meglio non esserci mai arrivati? Beh, certo, c’era una certa inadeguatezza. Speravo sempre che ci si accordasse, ma il mio carattere mi induceva di ubbidire agli ordini. Avevo rinunciato inizialmente all’esperienza militare perché ero figlio unico, potevo farlo, ma poi mi hanno richiamato. Io ero diplomato e mi mandarono a scuola ufficiali ma lì non avrei potuto tirarmi indietro.
La consorte vuole puntualizzare! Fa notare che “in Russia c’è voluto andare lui”, perché avrebbe altrimenti dovuto scegliere l’Africa. Soffrendo però di caldo, dice Ghibelli, aveva infine scelto il fronte russo.
L’esperienza della Russia deve comunque essere stata molto dura anche rispetto ad altre campagne come appunto quella d’Africa. Lei ha partecipato alla stesura dei rapporti di guerra? Se ne occupavano il tenente, il tenente colonnello e io poi li trascrivevo, a me affidavano alcuni episodi di azioni minori.